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Ambienti di apprendimento e nuove tecnologie

Neuroscienze, didattica, innovazione

2 Ambienti di apprendimento e nuove tecnologie

Giovanni Biondi

Giovanni BionDi

Presidente di INDIRE dal 2013 al 2021, per lungo tempo direttore generale dello stesso istituto, dal 2009 al 2013 è stato Capo del Dipartimento per la programma-zione e la gestione delle risorse umane e finanziarie del MIUR. Membro del comi-tato ordinatore della IUL – Italian University Line, dal 2009 al 2021 è scomi-tato chairman di European Schoolnet, network costituito da 30 ministeri dell’educazione europei.

Abstract

Passare da un ambiente costruito per l’insegnamento a un ambiente centrato sull’apprendimento richiede una innovazione radicale del modello scolastico. Una innovazione che coinvolge il tempo e lo spazio del fare scuola ma anche gli strumen-ti, i linguaggi e l’attività degli insegnanti. Fuori da questo contesto di cambiamento il potenziale che le tecnologie esprimono rischia di essere vanificato. Fare con le tec-nologie digitali le stesse cose che si possono fare in maniera “analogica” è il modo peggiore di intendere e usare la tecnologia.

Parliamo degli ambienti sia da un punto di vista fisico che da un punto di vista più complessivo, di come cioè gli ambienti sia-no legati al modello scolastico e all’organizzazione della didattica.

L’organizzazione, il tempo e lo spazio della scuola sono nati con i grandi sistemi scolastici nei vari paesi del mondo occidentale. Sono nati tutti con lo stesso obiettivo: quello di traghettare un mondo di analfabeti, figli di analfabeti verso una società che richiedeva com-petenze diverse dalla vita nei campi. La trasmissione del sapere at-traverso la lezione frontale e lo studio individuale sul libro erano stati adottati come il modello più economico ed efficace per i grandi numeri che si dovevano affrontare.

Dal punto di vista degli spazi la soluzione più economica per tra-smettere sapere era creare una stanza dove ci fosse una persona che parlava e altre che ascoltavano. La scuola, l’ambiente di ap-prendimento è nato soprattutto per ascoltare e per essere attenti al maestro: un modello trasmissivo che a volte era, come avviene an-che oggi, un “prodotto” con un alto valore aggiunto realizzato da un artigiano colto, a volte invece semplicemente una trasmissione di informazioni una, “ri-mediazione” del testo che poi i ragazzi a casa

avrebbero studiato. Il modello però in sintesi era questo. L’obiettivo era quello di traghettare una società analfabeta verso il mondo in-dustriale, quindi dare delle competenze di base.

L’ambiente scuola che noi conosciamo è quindi l’aula, lo spazio dove tutto questo avviene, dove si “fa scuola”. È la centralità della scuola, la centralità di quello che è l’ambiente di apprendimento. Ci sono aule normali e aule speciali: i laboratori. Spesso questi labora-tori - e passiamo alle tecnologie - non sono altro che delle normali aule con dei banchi magari disposti nello stesso modo dove sopra c’è un computer.

Pomposamente quest’aula che era, come ripeto, la III B della scuola X è diventata, nel momento in cui abbiamo messo il com-puter sul banco, il laboratorio di informatica, ma il modello di ap-prendimento, l’ambiente è rimasto praticamente lo stesso (Figura 1). Ci sono i ragazzi con un computer sopra il banco, un computer magari sul desk dell’insegnante, la lavagna digitale dall’altra parte, un videoproiettore, ma non è cambiato l’ambiente.

Lo stesso discorso vale per le lavagne digitali: non è che una lavagna digitale possa cambiare la scuola. Nemmeno un computer può cambiare la scuola anzi, dirò di più, in un ambiente in cui c’è la lezione frontale un computer diventa un elemento di disturbo. Se voi date un tablet ai vostri studenti e la centralità è la lezione, state tranquilli che i vostri studenti, mentre voi parlate, vanno su face-book o da un’altra parte e voi parlate a vuoto. Voglio dire che non

Figura 1. Laboratorio di informatica.

si può immettere “vino nuovo in un otre vecchio”, se mi passate la citazione, non si può inserire un elemento estraneo all’interno di un modello che non cambia.

Le nuove tecnologie e l’utilizzo dei linguaggi digitali possono sviluppare le loro potenzialità nel momento in cui si cambia l’am-biente e si crea un vero aml’am-biente laboratoriale. Parlavamo prima del tempo: il tempo è fondamentale come lo spazio. Se noi voglia-mo attivare un percorso di costruzione della conoscenza abbiavoglia-mo bisogno di tempo. Non si possono utilizzare cinquanta minuti su una materia e poi a seguire cinquanta minuti su un’altra, perché questa frammentazione dell’orario serve ed è funzionale soltan-to alla lezione frontale, alla trasmissione del sapere. Questa or-ganizzazione non è funzionale a un modello di costruzione della conoscenza. Il tempo va riorganizzato in base a un percorso di apprendimento.

Quindi se si inseriscono i tablet in un percorso di formazione, bisogna inserirli prima di tutto per non fare le stesse cose che si facevano in ambiente analogico. L’esempio classico è utilizzare la rete per fare la così detta ricerca: la stessa cosa che si faceva prima con i quadernoni andando a incollare fotografie e ritagli dei libri di testo, oggi si fa con il mouse e la stampante, raccogliendo sempli-cemente informazioni con lo stesso taglia e incolla. Non si fa nes-sun salto di qualità, non si fa nesnes-sun valore aggiunto; così come se si utilizza lo schermo del computer per leggere, probabilmente non si fa un passaggio particolarmente innovativo. Anzi, io dico sempre che se tu pensi a una cosa che è per la carta anche se la realizzi in digitale poi ritorna in carta attraverso la stampante. Il digitale non è di per sé un valore aggiunto.

Se però, per esempio si vuole capire come funziona il sistema solare, oppure come è fatto l’estuario di un fiume, una cosa è rac-contarlo e scriverlo su una pagina del libro e formarsi un concetto leggendo un concetto spesso astratto, un altro è invece vederlo, entrare dentro un meccanismo, cercare di capirlo e poi magari uti-lizzare il libro per “codificare”, astrarre in un certo senso quello che però risulta a quel punto concreto.

Vogliamo cercare di capire il funzionamento di una cellula, piut-tosto che come funziona il cuore, oppure come funziona la circola-zione sanguigna? Una cosa è leggerlo sul libro e cercare di formarsi un concetto, un’altra è utilizzare i linguaggi digitali che ti permetto-no di vederne il funzionamento. E poi c’è il tema del coinvolgimento degli studenti che certamente oggi sono abituati ad apprendere per immagini, interagendo con i contenuti, utilizzando ampiamente i linguaggi digitali. Anche il modo di rappresentare e condividere le conoscenze oggi è cambiato. Non possiamo rincorrere la comples-sità dei contenuti, della società della conoscenza aumentando

sem-plicemente il numero delle pagine. Questo è un libro di testo reale, di una reale casa editrice italiana, che per due classi della scuola primaria arriva a 2350 pagine. Viene adottato dagli insegnanti, per-ché l’insegnante immediatamente ragiona dicendo: ah ma qui ci sono tante cose, poi magari non le faccio tutte, ma qui c’è tutto.

Voi capite che si fa fare al libro di testo quello che oggi fa la rete egregiamente: se tu vuoi cercare le informazioni usi la rete, non usi il libro. Il libro serve in verità per fare “una testa ben fatta”, cioè per semplificare, per dare la chiave di lettura, la parte interpretativa;

quindi il libro deve essere snello, perché è quello che ti riporta al sapere essenziale. Non si può far fare al libro quello che dovrebbe fare la rete e non si può far fare alla rete quello che deve fare il libro.

Il libro è un elemento fondamentale per lo sviluppo del pensiero critico individuale, è un elemento essenziale perché è il momento in cui tu rifletti, è il tuo strumento per lo sviluppo del pensiero critico.

La rete serve per trovare le informazioni, per vedere i collegamenti fra le informazioni, la rete è un ipertesto sempre in espansione, è un ipertesto infinito. La quantità di informazioni che oggi c’è sulla rete è enormemente maggiore a quella di qualunque libreria, biblioteca, Library of Congress che oggi esista al mondo. Ormai la quantità di informazioni che c’è in rete è enormemente maggiore di qualunque fonte di sapere, quindi dobbiamo far fare alla rete quello che sa fare e al libro quello che sa fare il libro.

Nessuno di noi penso legga un libro di narrativa su un tablet, voglio dire, lo legge o sulla carta oppure su un e-reader, cioè su un oggetto che è nato per questo e che simula la carta stampata. La rincorsa ai contenuti porta a creare una testa piena e non una testa fatta bene e invece noi oggi abbiamo bisogno di questo, abbiamo bisogno di una testa fatta bene tanto più nella scuola primaria, per-ché è quella che ti dà le basi di partenza. Proprio lì non dobbiamo rincorrere i contenuti. Probabilmente non è nemmeno importante parlare della storia di tutti i popoli del mondo ma l’importante è che alla fine del percorso i ragazzi, facendo storia, abbiano sviluppato una competenza storica, cioè la capacità di capire, di moltiplicare le cause e di sfuggire all’anacronismo che è il peccato capitale dello storico. Qual è il peccato mortale di uno storico? L’anacronismo, quello di guardare con gli occhi di oggi fatti ed eventi del passato, quindi guardare alle crociate pensando che erano tutti dei sangui-nari e così via. È chiaro, lo storico misura i problemi nel tempo.

È importante aiutare i bambini, i ragazzi a fare questo sforzo, che per i ragazzi non è semplice perché tendono a contemporaneizzare tutto. È importante alla fine dell’anno aver parlato di tutte le civil-tà dell’Occidente, dell’Oriente, del mondo? Non è questa quanticivil-tà di informazioni che porta a sviluppare una competenza storica. Lo stesso vale per tutte le altre discipline, vale per la geografia, per la

matematica, per l’italiano. Dobbiamo dare un’ossatura ed è estre-mamente importante questo, non possiamo dunque rincorrere con-tenuti, non possiamo immaginare che più contenuti ci mettiamo dentro e più facciamo delle teste ben fatte. No, facciamo delle teste piene, spesso superficiali, spesso non riusciamo ad approfondire niente e siamo veramente allora assillati dal tempo e dal cosiddetto programma.

La scuola elementare in Italia - io la chiamo così, se permettete, la scuola primaria - ha una tradizione centenaria di innovazione. Vor-rei leggervi questo pezzetto, che è la pagina di una maestra, scritta cento anni fa e dice: “Che si fa oggi per dare la nozione del peso dei vari liquidi?” Parla di scienze. “Dopo di aver detto che i liquidi hanno un diverso peso, si fa studiare agli scolari un elenco, una tabella in cui i vari liquidi sono messi in gradazione rispetto appunto al loro peso specifico”. Vi ricordate? “Sa meglio chi ha migliore memoria.

Il metodo sperimentale invece porta i ragazzi a osservare che se metti in un bicchiere una certa quantità di acqua e poi una certa quantità di spirito, questa sta a galla e così succede se all’acqua si unisce l’olio, mentre ciò non avviene se all’olio si unisce dello spirito. Se poi introduce nel bicchiere in cui ci siano acqua e spirito nelle proporzioni volute una goccia d’olio, questa rimane a metà, come sospesa. Laddove si aggiunge acqua la goccia va in su, se aggiungiamo spirito la goccia va in giù. Esperimenti simili si fanno con il vino, con il latte, con il petrolio, con il mercurio e così via. Alla fine di tali esperienze tutti gli scolari sanno.

La solita scuola - pensate, lo diceva cento anni fa - dice ai bambi-ni che le condiziobambi-ni necessarie per lo sviluppo delle piante sono la luce e il calore; un metodo sperimentale fa sì che al ragazzo, il quale abbia messo parecchi semi nell’acqua e altri no, tocchi con mano la necessità dell’acqua nella vegetazione, trovi la necessità della luce ponendo a crescere una pianticina al sole, e via discorrendo”.

Che cosa vuol dire questo? Se vogliamo fare in modo che gli apprendimenti che i ragazzi realizzano nella scuola primaria, che quindi sono alla base dei processi, abbiano una durata, siano per-manenti, siano il risultato di un’esperienza, noi non possiamo non usare un metodo sperimentale, non possiamo non coinvolgere lo studente in un percorso di costruzione della conoscenza. Qui parlia-mo di esperimenti, ma vale lo stesso per l’italiano, vale lo stesso per lingua straniera. Dobbiamo utilizzare la scuola come un laboratorio e questo ce lo dicevano gli insegnanti della scuola primaria cen-to anni fa; questa è la Pizzigoni, la scuola rinnovata, era una delle scuole nuove di quando Gentile fece la riforma, o Lombardo Radice, la Montessori e molti altri. Tutti insegnanti della scuola primaria che cercavano di costruire un ambiente per i ragazzi, non di chiedere ai ragazzi di adeguarsi a un ambiente standard, strutturato, spesso

ostile in cui si entrava in classe, bisognava sedersi e stare attenti e c’era il maestro con la bacchetta, il voto, la punizione, quello soma-ro dietsoma-ro la lavagna.

Don Milani diceva che è facile fare la scuola per Pierino figlio del farmacista, perché lui è nato per andare a scuola, è costruito per la scuola; ma se tu professoressa non fai niente per adeguare il tuo metodo di insegnamento, il tuo ambiente al figlio del mezzadro, quello che invece è semianalfabeta e viene a scuola non sa neppu-re lui perché, non stai facendo il tuo lavoro. Stai chiedendo a lui di adeguarsi, ma non stai costruendo un ambiente di apprendimento per lui.

Credo che questo sia ancor oggi valido. Le nuove tecnologie oggi ci mettono a disposizione delle armi potentissime per poter fare questo, perché questa signora di cento anni fa poteva fare degli esperimenti con gli oggetti fisici che aveva davanti. Noi oggi possia-mo estendere questo livello esperienziale con ambienti e soluzioni virtuali. Questo non significa che le esperienze di manipolazione non siano importanti, che non sia importante scrivere in corsivo, disegnare, modellare non sto dicendo questo. Dico che possiamo utilizzare le potenzialità del digitale per espandere la possibilità di fare esperienze, per capire.

Le Avanguardie educative partono da un manifesto che ha come obiettivo esattamente questo: trovare delle soluzioni per cambiare l’ambiente di apprendimento, per trasformare il model-lo trasmissivo della scuola e riorganizzarne il tempo e model-lo spazio.

Uno degli aspetti che le nuove tecnologie oggi possono aiutare a sviluppare è, ad esempio, attraverso il coding, lo sviluppo dell’in-telligenza. Noi parliamo di problem solving, spesso parliamo di competenze, di sviluppo delle competenze logiche nei nostri ra-gazzi, ebbene, il coding oggi è un modo molto accattivante per i bambini, appunto una palestra per la mente dove i bambini si trovano immersi in un gioco dove sono protagonisti. Il coding che cos’è? Non è una strada per diventare programmatori, nemmeno per diventare informatici, il coding è una palestra di logica, è una palestra che aiuta i ragazzi a ragionare. Siccome si deve parlare con una macchina completamente stupida, dovete dirle le cose in modo preciso, dovete usare il linguaggio in modo rigoroso, dove-te programmare, progettare la vostra attività sdove-tep by sdove-tep, passo dopo passo. Siete costretti perché è stupida, non ragiona, non ca-pisce se non quello che le dite.

Soprattutto imparare dagli errori che si fanno, che è il modo più naturale di imparare, con cui i ragazzi sono abituati a muoversi. In genere si utilizzano linguaggi di programmazione molto semplici che aiutano i ragazzi, appunto, a essere rigorosi e a dialogare in qualche modo con la propria intelligenza.

Ho assistito a un episodio che aveva come protagonista Seymour Papert, l’inventore del LOGO, il linguaggio della tartaruga.

Lui non voleva creare un linguaggio di programmazione per bam-bini ma un vero ambiente di apprendimento: un mondo all’interno del quale c’era la tartaruga che disegnava, ma anche il mondo delle parole, della musica. Insomma c’era un intero mondo all’interno del quale si imparava. Questo signore, all’inizio degli anni Novanta, in una conferenza negli Stati Uniti, di fronte a migliaia di insegnan-ti raccontava che ormai negli Stainsegnan-ti Uniinsegnan-ti non c’era più una cosa uguale per tutti, nemmeno tutti i ragazzi parlavano la stessa lin-gua, perché venivano da molti paesi e c’era una forte immigrazione ispanica per cui molti ragazzi usavano l’inglese senza ad esempio declinare i verbi: I be, “io essere”. Non c’era più quindi neppure una lingua comune, però tutti ragazzi sapevano fare una cosa, tutti indi-stintamente, analfabeti o alfabetizzati, ispanici o altro ancora. Gran-de suspance in sala: cosa sanno fare tutti? Sanno mettere mezzo dollaro in una macchina e fare un videogioco. Tutti sanno fare un videogioco. Direte: cosa c’entra questo con la scuola? Cosa c’entra il fatto che sappiano fare un videogioco con la scuola? Come mai tutti sanno fare un videogioco? Perché imparano dai propri errori, perché il videogioco ti mette in una situazione di apprendimento continuo partendo proprio dagli errori. Lo stesso vale per il coding, che non funziona se non fai degli errori. Devi fare degli errori perché gli errori ti fanno capire come migliorare il tuo lavoro.

Questo meccanismo è alla base di quello che facciamo in INDIRE con i bambini di quattro anni che lavorano sulle stampanti 3D. Forse direte: le stampanti 3D, per un bambino di quattro anni, è complicato? È una tecnologia evoluta. Il bambino va alla lavagna digitale o sul tablet, disegna con le mani il personaggio di una storia che sta inventando, un giocattolo, poi la stampante 3D glielo realiz-za. Siccome una stampante 3D fa gli oggetti fisici, se il bambino ha fatto la gamba di una sedia più alta e una bassa quando va a metter-lo in piedi vede che cade e ritorna al suo “progetto” per modificarmetter-lo e riprovare.

Per il bambino il debugging nasce da una verifica reale: a quel punto torna alla lavagna lo riaggiusta, lo allunga, magari lo allunga troppo, lo rifà dieci volte. Non è importante il risultato ma il pro-cesso. Questo meccanismo della progettazione e della realizzazio-ne, dell’imparare dai propri errori è il processo naturale con cui apprendiamo ed è un processo di sviluppo logico. Per esempio la progettazione in 3D per un bambino di quattro anni è difficilissima perché propone tre dimensioni, la profondità, lo spessore intendo dire delle cose, l’altezza, quindi non è semplice. Poi c’è un proble-ma della lateralizzazione. Quindi il bambino fa un esercizio impor-tante, cioè tende a creare un modello astratto che poi realizza in

concreto. La stampante 3D è un elemento semplice, perché oggi costa qualche centinaio di euro, quindi nulla di importante, ci sono software gratuiti, dunque non è un impianto che costa, però è una cosa che aiuta moltissimo i bambini in un processo di costruzio-ne delle intelligenze, di sviluppo delle capacità logiche. Da questo punto di vista allora capite che il digitale diventa un alleato fortissi-mo per il problem solving, diventa un alleato fortissifortissi-mo per creare un laboratorio. Se invece volete mettere un computer in una classe dove si fa lezione lo potete chiudere, perché disturba e basta, non serve a niente.

Questo discorso porta a immaginare una architettura della scuo-la diversa. Non possiamo immaginare di avere scuole fatte tutte uguali come le caserme. Le architetture delle scuole sono fatte tutte come gli accampamenti romani: ci sono due corridoi che si incro-ciano e le aule che si affacincro-ciano sul corridoio, le aule sono normali o laboratori, ma sempre aule sono. Abbiamo bisogno che gli spazi della scuola siano progettati in funzione delle attività, perché se voi

Questo discorso porta a immaginare una architettura della scuo-la diversa. Non possiamo immaginare di avere scuole fatte tutte uguali come le caserme. Le architetture delle scuole sono fatte tutte come gli accampamenti romani: ci sono due corridoi che si incro-ciano e le aule che si affacincro-ciano sul corridoio, le aule sono normali o laboratori, ma sempre aule sono. Abbiamo bisogno che gli spazi della scuola siano progettati in funzione delle attività, perché se voi