• Non ci sono risultati.

Giorgio Bolondi

GiorGio BolonDi

Professore di Matematica alla Libera Università di Bolzano, dopo aver ricoperto lo stesso ruolo a Bologna e a Milano. Il suo percorso di ricerca è iniziato nell’ambi-to della geometria delle variabili complesse e della geometria algebrica. Si è poi occupato di questioni di storia e di epistemologia, soprattutto in riferimento alle problematiche didattiche coinvolte. La sua ricerca attuale è in Didattica della Ma-tematica e sulla formazione degli insegnanti di MaMa-tematica. È autore di oltre cento articoli e di tre libri e organizzatore di mostre e attività di divulgazione scientifica.

Abstract

Nell’intervento verranno presentati alcuni nodi nell’apprendimento della matemati-ca, al momento del passaggio tra scuola dell’infanzia e scuola primaria, e tra questa e la secondaria. Verranno esaminate alcune situazioni significative, in riferimento an-che alle pratian-che didattian-che e ai materiali utilizzati.

Il titolo del convegno era abbastanza evocativo, per quanto mi riguarda, perché, occupandomi di didattica della matematica, una delle questioni su cui ci scontriamo continuamente, è la difficoltà, quando cerchiamo di indagare qualche fenomeno di apprendimen-to o di difficoltà di apprendimenapprendimen-to, a concentrarci localmente su quello che avviene. Tutte le volte che ci occupiamo in profondità di problemi di insegnamento e apprendimento della matematica, vuoi come ricerca, vuoi riflettendo sull’esperienza come insegnanti di matematica, ci rendiamo conto che è molto difficile isolare i proble-mi; in matematica, quando si guarda un problema, immediatamen-te vediamo tutta la storia del bambino prima di quel momento e, in molti casi, riusciamo anche a proiettarci in quello che andrà oltre.

Vorrei iniziare allora questa mia riflessione condividendo con voi alcune caratteristiche degli apprendimenti della matematica dei nostri ragazzi, soprattutto quando con la matematica si viene un po’ in contrasto, cosa che normalmente non avviene, nel vostro seg-mento scolastico. Normalmente il disagio con la matematica inizia con la scuola secondaria, si manifesta in maniera eclatante al pas-saggio nella secondaria di secondo grado e si deposita, si consoli-da, prima dell’istruzione terziaria, prima dell’università. Non è un

segreto per nessuno che la matematica è forse la disciplina che più genera quelli che, tecnicamente, si chiamano fallimenti formativi.

Un fallimento formativo vuol dire il ragazzo che abbandona gli studi – questo è il massimo fallimento – però è anche ragazzo che inizia un percorso di scuola, si rende conto che ha sbagliato indirizzo e ricomincia da capo. Non è un fallimento se uno se ne accorge, ma comunque è un anno di vita che, in qualche modo, è stato impiega-to non nella maniera migliore. Si utilizzano termini come “ripetere l’anno”, ecc. Oppure è un ragazzo che continua il percorso scola-stico abbastanza bene, ma che da un certo momento in poi decide che lui con la matematica ha poco a che fare; cerca di sopravvivere, magari anche con dei voti decorosi, ma poi sostanzialmente con la matematica ha chiuso.

Voi sapete quali difficoltà hanno gli adulti, mediamente, con la matematica. L’OCSE, la stessa agenzia internazionale che fa la grande indagine OCSE-PISA sugli apprendimenti in matematica, che si chiama OCSE-PIAC sugli apprendimenti e sulle competen-ze matematiche negli adulti, è una cosa che esiste in quasi tutta Europa, ma in Italia è particolarmente evidente – forse è il Paese d’Europa in cui è più evidente – è che gli adulti sostanzialmente dai 15 anni in poi, a parte quelli che per motivi professionali utilizzano la matematica in qualunque forma, per contabilità, per utilizzo di dati, normalmente utilizzano la matematica della scuola primaria.

Quasi nulla di quello che si fa oltre quel periodo viene effettivamen-te utilizzato.

Ovviamente noi possiamo pensare che tutte le ore spese per fare espressione algebrica o altre cose lo stesso lascino traccia, lascino un’impronta formativa, che contribuiscano a far crescere il ragazzo, ma se ci fermiamo al primo strato, quello di “che cosa riesco a utiliz-zare”, è abbastanza innegabile che gli adulti utilizzano, fondamen-talmente, non mi azzardo a dire le quattro operazioni, ma diciamo tre delle quattro operazioni; questo in generale.

È un dato di fatto, in Italia è particolarmente forte. Per esem-pio, quando ero all’Università di Bologna cercammo di capire quali elementi orientavano la scelta degli studenti e risultò che almeno il 50% degli studenti che si iscrivevano all’Università di Bologna consideravano la presenza o meno di corsi di matematica nel per-corso formativo uno degli elementi importanti. Il che è abbastanza impressionante, pensare che metà dei ragazzi, nel momento in cui scelgono su cosa saranno impegnati per cinque anni a formarsi e, in definitiva, su che mestiere faranno per tutta la loro vita, sia in qualche modo condizionata dalla presenza di un esame di matema-tica è abbastanza pesante. Questo loro atteggiamento nei confronti della matematica è in qualche modo determinato dal percorso sco-lastico.

Con la matematica quindi noi ci rendiamo conto di questa perva-sività lungo il percorso complessivo e dell’impatto che ha sui ragaz-zi nel momento in cui fanno le loro scelte. Ci domandiamo quindi dove stanno le difficoltà e tutte le volte che ci confrontiamo con le difficoltà in matematica ci rendiamo conto di come, appunto, il discorso della continuità o della discontinuità di quello che è avve-nuto nel loro percorso di apprendimento sia molto importante.

Vi dicevo che ci sono quattro aggettivi con cui io, in genere, cer-co di descrivere l’apprendimento della matematica, quando questo non riesce a funzionare, non riesce a realizzarsi.

Il primo è che l’apprendimento della matematica è molto volatile.

Abbiamo detto che gli adulti si dimenticano di tutto quello che han-no fatto. Quale adulto utilizzerà mai qualche idea di trigohan-nometria o di calcolo algebrico? Al di là del fatto che magari questi sono stru-menti tecnici che non gli servono. Quando diciamo che l’apprendi-mento è estremamente volatile, diciamo qualcosa che tutti speri-mentiamo: pensate al bimbo che arriva in prima media o ai bimbi che voi prendete in una classe, i vostri stessi bimbi, da un anno all’altro, a settembre chiedete: “Avete fatto questo? Vi ricordate que-sto?”, e i vostri bimbi vi dicono di no, ma sono sinceri, nel senso che non se lo ricordano, nel senso che quello che hanno fatto spesso è evaporato. Nel passaggio da un segmento scolastico all’altro que-sto è un fenomeno frequentissimo, fortissimo. Sapete che fatica si fa anche a recuperare delle cose che sembrava che la classe, nel suo insieme – e i singoli bambini individualmente – avesse appreso, quando magari ci ritorniamo dopo diversi mesi. Sembra che le cose evaporano, che si debba richiamare tutto.

È un apprendimento molto fragile. Fragile vuol dire, per esempio, che i vostri bambini certe volte non riconoscono le cose che han-no imparato. Cambia la maestra, cambia il modo di presentarlo, cambiano le parole, cambia forse qualche segno e qualche piccola convenzione e l’apprendimento si sbriciola. Oppure sono di fronte a una situazione nuova, hanno imparato bene a far le moltiplicazioni, sanno gestire bene l’algoritmo, le operazioni, arrivano le frazioni e sembra quasi che la moltiplicazione non si sappia più che cos’è, con i numeri decimali perde di senso tutto quello che si fa. Cambia l’insegnante e, quindi, semplicemente richiede un modo diverso di presentare e il bambino quello che sapeva presentare non riesce più a farlo. Tutte queste cose sono naturali, però ci fanno capire quanto sia fragile quello che si apprende. Fragile perché non sopravvive, fa fatica a sopravvivere di fronte a cambiamenti di contesto, o fa fatica a sopravvivere di fronte ad approfondimenti della situazione e all’ar-ricchimento delle situazioni matematiche con cui ci confrontiamo.

È poi un apprendimento molto ingabbiato. Tutti noi ci diciamo quanto fanno fatica i nostri allievi, non tanto nella scuola

prima-ria, ma, andando avanti, sempre di più, a trasportare al di fuori del contesto scolastico quello che hanno appreso. Pensate a quanto lavoro facciamo nella secondaria di primo grado e, ancora di più, in quella di secondo grado, per introdurre uno strumento matematico molto importante, e al tempo stesso di base, come le piccole equa-zioni di primo grado. Quanti problemi in cui uno ha una situazione e la deve descrivere con le equazioni, eccetera. Pensate con quale frequenza effettivamente uno di noi o uno dei nostri allievi utilizza un’equazione o una disequazione di primo grado per risolvere qua-lunque situazione al di fuori della scuola, anche quando sarebbe molto più semplice rispetto ad andare a tentativi o qualunque altra cosa. Quante, fra le persone che conoscete, hanno mai utilizzato un’equazione di primo grado per risolvere qualunque problema, di soldi, di gestione familiare, eccetera. È un apprendimento che si sviluppa all’interno della scuola, come è normale che sia, ma tende a rimanere lì ingabbiato.

E poi, quarto aggettivo, è un apprendimento frammentato. Pen-sate a come i nostri ragazzi imparano l’area del quadrato, i criteri di congruenza di triangoli, l’area del triangolo, il teorema dei seni di Carnot per la risoluzione dei triangoli, tutti gli oggetti matematici – definizioni, teoremi, proprietà, procedure – che riguardano i trian-goli: ognuno di questi vive in un particolare momento del percorso scolastico, all’interno di una certa teoria, si valida con determinati strumenti, si fa la prova di verifica in un certo momento, ma poi tutte queste cose in che modo contribuiscono a formare un appren-dimento sui triangoli, in che modo si saldano? Anche localmente, all’interno di un percorso, nell’anno scolastico, molte delle cose che i nostri ragazzi apprendono tendono ad essere legate ad un ciclo di vita molto breve. La maestra me lo spiega, mi propone un esercizio, me lo fa fare, se non ci riesco me lo corregge, me lo fa rifare, si fa la valutazione, ciclo chiuso, si passa a un’altra cosa. Noi magari non lo viviamo così, ma spesso gli allievi lo vivono in questo modo.

“Grazie a Dio ho scampato la prova sul cerchio, adesso pensiamo alla media aritmetica”.

Sono caratteristiche dell’apprendimento della matematica che noi vediamo in quei casi – e purtroppo sono molti – in cui alla fine l’apprendimento non riesce a ingranare, oppure viene soffocato dal-le spine mentre cresce e rimane lì.

Da questo punto di vista molte volte si parla di continuità. Questa è una specie di tensione che noi abbiamo sempre, quando pen-siamo ai percorsi di apprendimento, non penpen-siamo ai singoli og-getti ma ai percorsi di apprendimento in matematica. Da un lato abbiamo un elogio della continuità e, dall’altra, però, abbiamo la consapevolezza dell’importanza che le fratture cognitive hanno nel percorso dei nostri bambini.

Faccio un esempio che tutti avete vissuto: prendete un bambino nella scuola dell’infanzia, questo bambino che ancora non sa bene cosa sono i numeri, ha imparato magari le parole dei numeri, in sequenza li sa dire bene, magari sa anche i simboli dei numeri e poi ha imparato la procedura del conteggio, a contare con il ditino;

procedura del conteggio grazie alla quale riesce a rispondere alle domande “quanti sono questi?”. Questo è un passo molto importan-te, all’interno del lavoro della scuola dell’infanzia: nomi dei numeri, sequenza ordinata, procedura del conteggio. Tutti noi sappiamo che la costruzione del concetto di numero, per usare un termine alla Piaget, è un fatto più articolato e complesso, di cui questi sono gli ingredienti, ma non sono tutti, e magari a molti di noi è capitato di rifare l’esperienza di Piaget di mettere cinque gettoni, chiedere al bimbo “quanti sono?” e il bimbo che, correttamente, sa contare con il dito, li conta e dice che sono cinque. Poi davanti a lui glieli spostiamo – esperienza che Piaget ha fatto – gli chiediamo quanti sono e il bimbo li riconta. Li riconta perché per lui l’essere cinque è il risultato di una procedura, non una caratteristica di quell’insieme.

Poi arriva il momento in cui il bambino non li riconta, Piaget dice che è tra i 5, 6, 7 anni. Arriva il momento in cui il mio bambino, in seconda primaria, se gli faccio, questa cosa mi dice: “Ma sei sce-mo? Sono sempre cinque”. Se però qualche volta voi avete provato a prendere questo bimbo e a metterlo di fianco al bimbo di cinque anni – anche semplicemente uno di sei e uno di cinque – lui non si ricorda che era così anche lui. Una volta che l’ha acquisito, per lui c’è una frattura rispetto a quello che è successo prima e per lui è un qualche cosa – usiamo un termine che andava di moda qual-che tempo fa – di interiorizzato, metabolizzato nel suo percorso di apprendimento.

C’è questo esempio, ma se ne possono fare tanti altri: vedete che in matematica è importante ragionare su quello che si sviluppa con continuità ed è altrettanto importante rendersi conto di quando e come avvengono delle fratture, nel percorso di apprendimento.

Questa è una tensione che abbiamo sempre, quando facciamo que-sto tipo di ragionamenti.

Alcuni principi generali. Penso di non dire nulla di nuovo, rispet-to alla vostra esperienza e al buonsenso, ma ci introducono alle conclusioni. In matematica, dobbiamo prenderne atto, le compe-tenze, qualunque sia il significato che possiamo dare a questa pa-rola, sono complesse e articolate. Sono quindi necessariamente complessi i processi di apprendimento. Pensate a quella che noi chiamiamo “competenza nel calcolo”, che vuol dire saper eseguire con carta e penna un calcolo, saper gestire dei calcoli a mente, vuol dire prevedere quando questi non riusciamo farli e quindi quando usiamo la calcolatrice, vuol dire saper stimare il risultato di

un’ope-razione. La competenza nel calcolo è complessa. Si articola in diver-si momenti di un percorso formativo, imparo a fare le prime opera-zioni, magari manipolando, ma poi questa stessa idea di operazione cambia nel corso del tempo. Il mio bimbo impara il significato della moltiplicazione con il modello mentale di 4×3, quattro mele per tre volte, e poi, nel giro di un paio di anni, si trova a moltiplicare per oggetti come 37/25, a cui bisogna dare un significato nuovo, e la stessa procedura del calcolo, che viene insegnata, ha una relazione diversa con il significato dell’operazione.

Nel momento in cui io ragiono in termini di competenza, per esempio di cosa vuol dire competenza nel calcolo, mi rendo con-to che l’intreccio con i contenuti matematici è molcon-to complesso, e complesso è il percorso di apprendimento che porta i ragazzi verso questa competenza.

Chiedo scusa a chi mi ha già sentito fare molte volte questo esempio, ma pensate a quando siamo passati dalle lire all’euro. Vi ricordate quanto era il cambio? Forse è un numero strano, ma ce lo ricordiamo tutti: 1936,27. Giusto, non giusto, si può discutere, ma era il cambio, il che vuol dire che, quando io dovevo passare delle lire all’euro, ed ero sempre stato abituato a ragionare in lire, per trovare a quanti euro corrispondeva la cifra che avevo in mente, dovevo fare una divisione di un numero – per esempio lo stipendio, 1.735.924 lire – per 1936,27. Operazione che nessuno sa eseguire con carta e penna: una classica prova di competenza. Adesso c’è tanta discussione su cosa sono le prove di competenza, le prove di realtà, tutta la popolazione italiana, per non dire tutta quella eu-ropea, è stata buttata di fronte ad una prova di competenza quo-tidiana, continua, come passare da cifre espresse da numeri con sei-sette cifre, che esprimevano i costi in lire, a una nuova unità di misura, con un’operazione di divisione estremamente complessa.

Che cosa abbiamo dovuto tirare in ballo lì? Abbiamo dovuto tirare in ballo molte cose e ognuno le ha tirate in ballo a seconda di quello che riusciva a recuperare dal proprio percorso di apprendimento.

Per molti la cosa più semplice era usare la calcolatrice blu, che era stata inviata a tutti, ma, se ricordate, molti non la sapevano usare.

Quando si impara a usare la calcolatrice? Che relazione ha con il fatto che imparo un’operazione? Ci saranno diversi momenti in cui, nel mio percorso di apprendimento sulle mie operazioni, ad esem-pio dividere, operazioni che faccio già con i bambini nella scuola dell’infanzia, vi dò 15 pupazzetti, ve li dividete in tre bambini, poi li dividete in mucchietti di cinque, quest’ operazione a un certo punto si intreccia con il fatto che imparo a pestare sulla calcolatrice. Op-pure incomincio a pensare che, anziché dividere per 1936,27, divido per 2000. È molto più semplice, lo riesco a fare a mente, però entra in ballo il fatto che mi ricordo come si lavora con gli zeri, che ha a

che fare, invece, con il sistema di struttura. Ci sono tante cose che si vanno intrecciando di fronte a quella che è una normalissima, anzi, epocale prova di competenza, che abbiamo dovuto superare.

Magari mi posso anche domandare: se divido per 2000, ci sto guadagnando io o ci sta guadagnando il negoziante? Mi viene di più o di meno? Nel momento in cui comincio a cercare di capire questa cosa, per rispondere al mio problema, mi rendo conto che entrano in gioco proprietà della mia divisione, su cui avevo cercato magari di ragionare nella scuola dell’infanzia. Cosa succede se il numero per cui divido diventa un po’ più grande? Se il numero per cui divido diventa più grande, se anziché dividere in tre le caramelle si dividono in quattro, allora vuol dire che a testa ne abbiamo meno e quindi il risultato sarà più basso. Di quanto più basso? Posso an-dare avanti così.

A seconda della mia padronanza degli strumenti, delle cono-scenze, delle abilità, dell’ esperienza che ho avuto, io riesco a met-tere in campo la mia competenza in maniera sempre più efficace e consapevole. Questo è un dato di fatto: se si prende una qualunque competenza matematica e ci si rende conto di quanto sia comples-sa e articolata e quanto sia difficile legarla a un momento specifico nel percorso scolastico, quasi sempre vi rendete conto che questa competenza è stata costruita in maniera molto progressiva.

La difficoltà dei ragazzi, per tornare a quei modelli che ho dato prima, spesso è proprio qui: riaggregare le tante cose che appren-dono in un’unica competenza complessa. Per meglio dire: trovare il ruolo che le singole abilità apprese in matematica hanno all’interno di una competenza complessa.

Quante volte, in matematica, noi giustifichiamo ai nostri ragazzi, ai nostri bambini, il fatto che si fa qualche cosa, con l’argomenta-zione che ci serve per un’altra cosa di matematica? “Maestra, per-ché m’insegni questo?”. “Vedrai che ti serve poi”. Quando uno ha 15-16 anni di questo tipo di argomentazione non se ne fa nulla, pro-babilmente se n’è già staccato prima. Invece noi dobbiamo trovare il ruolo delle singole abilità all’interno di qualcosa di più complesso, non per un’altra singola abilità. “Ti serve imparare a passare i termi-ni da una parte all’altra dell’equazione perché poi, così, le riconduci in forma normale. Ti serve ricondurle in forma normale...”, eccetera.

Pensare al curricolo in verticale, per la matematica – che è una del-le parodel-le chiave che trovate neldel-le linee guida della PAT, neldel-le indica-zioni provinciali, nelle indicaindica-zioni nazionali, quest’idea di curricolo verticale – avendo presente dove vogliamo arrivare, non è una bella idea teorica di qualche pedagogista, è un qualcosa che dipende dalla natura specifica della matematica e, ancora più direttamente, dalle caratteristiche specifiche di come si apprende la matematica.

La verticalità in matematica non è un modo più bello, più

accatti-vante, più intrigante, se vi piace questo aggettivo, per descrivere il

accatti-vante, più intrigante, se vi piace questo aggettivo, per descrivere il