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Ambito di applicazione oggettivo

La nozione comunitaria di pratica commerciale sleale345 è stata recepita nell’ordinamento nazionale all’interno del D.Lgs, n. 206/2005, sub art. 20 che al comma secondo stabilisce che “una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”.

Si tratta, a ben vedere, di una sostanziale riproposizione del dettato comunitario, nonostante alcune differenze terminologiche siano comunque presenti fra i due testi citati.

Di queste si darà conto nel corso della trattazione dei singoli elementi costitutivi della fattispecie. In via preliminare, è agevole osservare che la denominazione della fattispecie è parzialmente mutata poiché è scomparso il riferimento alla slealtà, sostituito da un richiamo alla scorrettezza.

Non è chiara la ratio di tale scelta del legislatore interno, il quale, secondo un’opinione diffusa in dottrina346, “sarebbe stato ispirato dall’esigenza di evitare

342 Si fa riferimento alla definizione di prodotto.

343 Cfr, art. 19, comma 4, Codice del consumo. “Il presente titolo non è applicabile in materia di

certificazione e di indicazioni concernenti il titolo degli articoli in metalli preziosi”

344 F. LUCCHESI, sub art. 18, in Codice del Consumo. Aggiornamento. Pratiche commerciali

scorrette e azione collettiva, cit., p. 5 ss.

345 Cfr. paragrafo 3, p. 20 del presente lavoro.

346 Cfr. fra gli altri, P. BARTOLOMUCCI, L’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali

scorette e le modifiche al codice civile, cit., p. 274 ss. Secondo l’A., l’aggettivo “scorrette” sarebbe stato scelto allo scopo di non interferire con la disciplina della concorrenza sleale”.

possibili interferenze con le norme del codice civile in materia di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c.”. Se tale è stato l’intento non si può certo affermare che la scelta sia caduta sul termine più idoneo ad assicurarne la piena realizzazione. Basti pensare che ai sensi dell’art. 2598 c.c. compie atti di concorrenza sleale chiunque si avvalga di mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda347.

Un’ulteriore, ma solo apparente, diversità rispetto al testo comunitario potrebbe essere riscontrata nella nozione di pratica commerciale scorretta contenuta nel Codice del consumo.

In particolare, a differenza di quanto sancito dalla Direttiva secondo la quale è sleale una pratica commerciale che oltre ad essere contraria alla diligenza professionale, “falsa348 o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento

economico del consumatore medio”349, l’art. 20 del Codice del consumo definisce

scorretta “una pratica commerciale che […] è falsa350 o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio.

Una interpretazione letterale della disposizione italiana di recepimento dovrebbe a rigore indurre a considerare scorretta solo una pratica falsa o comunque idonea a falsare […]351.

Come rilevato da taluni autori352 un esito siffatto sarebbe, tuttavia, inaccettabile tenuto conto, da un lato, che “il criterio della falsità riguarda le informazioni e le notizie divulgate nell’ambito delle pratiche commerciali e non queste ultime in sé e per sé considerate, ma anche e soprattutto perché un simile esito porrebbe la normativa nazionale in palese contrasto rispetto all’obiettivo di armonizzazione massima perseguito dalla Direttiva 2005/29/CE.

Appare, dunque, inevitabile un’interpretazione correttiva della lettera della disposizione idonea a garantire la necessaria conformità al modello comunitario di riferimento. Del resto, è palese che il legislatore italiano abbia adottato questa

347 P.BARTOLOMUCCI, op.ult. cit., p. 275 348 Enfasi aggiunta.

349 Cfr. art. 5 della Direttiva 2005/29/CE. 350 Enfasi aggiunta.

351 EZIO GUERINONI, Le pratiche commerciali scorrette. Fattispecie e rimedi, Milano, 2010, p. 97

ss.

352 P. BARTOLOMUCCI, L’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali scorette e le

differente formulazione non già in virtù di una precisa e ponderata scelta, quanto piuttosto per una mera svista dovuta alla celerità del meccanismo di recepimento della direttiva353 .

L’analisi dell’ambito di applicazione della disciplina in esame richiede di procedere partendo dallo studio della condotta rilevante, ovvero dell’elemento oggettivo sul quale poggia tutta la struttura normativa. L’indagine sul punto è resa più agevole dalle definizioni fornite dalla Direttiva e dalla normativa di recepimento. In particolare, ai sensi dell’art. 18, comma 1, lett. d), Codice del consumo, è da considerarsi pratica commerciale fra professionisti e consumatori “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto posta in essere da un professionista in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”354.

Si tratta di un elemento costitutivo molto ampio che ben si presta a ricomprendere al suo interno condotte eterogenee che possono collocarsi in ambiti temporali distinti e ricompresi tra la fase della negoziazione sino a quella successiva alla conclusione del contratto355. E’ evidente, in questa esplicita “latitudine temporale”356, l’intenzione del legislatore europeo di ampliare il più possibile l’ambito di applicazione oggettivo della disciplina, il quale non è limitato alla sola fase della contrattazione, ma si estende sino al contatto pubblicitario con cui non si è ancora instaurato tra le parti alcun tipo di vincolo giuridicamente rilevante357.

353 G.DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, il recepimento della

direttiva 2005/29/CE nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), cit., p. 64 ss.

354 Il testo della Direttiva presenta alcune differenze terminologiche che, pur se di modesta entità,

vale la la pena segnalare. L’art. 2, lett. d) definisce pratica commerciale: “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”.

355 L’art. 3 della Direttiva nonché l’art. 19, comma 1, Codice del consumo, garantiscono la

rilevanza delle pratiche poste in essere prima, durante o dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto.

356 G.DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, il recepimento della

direttiva 2005/29/CE nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), cit., p. 64 ss.

357 P.BARTOLOMUCCI, La proposta di direttiva sulle pratiche commerciali sleali: note a prima

lettura, cit., p. 954 ss. Secondo l’A., l’atto di consumo viene percepito e regolato nel suo aspetto dinamico come lo svolgersi di una serie di attività compiute sia dal professionista che dal consumatore. Quest’ultimo assurge a ruolo di operatore del mercato, di soggetto capace di

Affinchè la condotta tenuta da un professionista possa essere ricompresa nella categoria delle “pratiche commerciali” occorre che questa sia posta in essere “in relazione alla promozione, vendita o alla fornitura di un prodotto ai consumatori”358.

Al riguardo, il testo della Direttiva si esprime in termini di “diretta connessione” escludendo la rilevanza di una generica riferibilità della pratica a finalità commerciali. La locuzione comunitaria, sebbene corretta sotto un profilo tecnico, poneva taluni problemi interpretativi non essendo immediatamente percepibile quali potessero essere considerati comportamenti “direttamente connessi” e conseguentemente a quali condotte applicare il dettato normativo359. In tale contesto, la scelta “sostitutiva”360 compiuta dal legislatore nazionale non sembra

configurarsi come “una distratta traduzione del testo europeo con un’espressione meno pregevole sotto il profilo giuridico, quanto, invece, il frutto di un’attenta valutazione”361.

Infatti, la “diretta connessione” richiede “una relazione diretta e immediata nonché oggettivamente apprezzabile”362 tra il comportamento del professionista e il destinatario della condotta, escludendo in tal modo le pratiche rivolte solo in via mediata ai consumatori.

Viceversa, la scelta domestica relativa al termine “in relazione” consente di includere nel novero delle pratiche commerciali anche quelle condotte che pur oggettivamente connesse ai destinatari consumatori, non abbiano con essi una relazione immediata e diretta363.

orientare l’offerta di servizi e prodotti contribuendo a determinarne i contenuti e incidendo in maniera significativa sulle dinamiche del mercato.

358 Codice del consumo, art. 18, lett. d).

359 G.DE CRISTOFARO, Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, il recepimento della

direttiva 2005/29/CE nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), cit., p. 64 ss.

360 Il legislatore italiano ha sostituito l’espressione (“direttamente connessa”) prevista dall’art. 2,

lett. d) della Direttiva 2005/29/CE con la più generica “in relazione”.

361 EZIO GUERINONI, Le pratiche commerciali scorrette. Fattispecie e rimedi, cit., p. 97 ss.

362 P. BARTOLOMUCCI, L’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali scorette e le

modifiche al codice civile, cit., p. 272 ss.

363 F.LUCCHESI, Codice del Consumo, Aggiornamento: Pratiche commerciali scorrette e azione

collettiva, G. Vettori (a cura di), p. 4 ss.; Contra E.BARGELLI, La nuova disciplina delle pratiche

commerciali tra professionisti e consumatori: ambito di applicazione (art. 18, lett. a) e d) e art. 19, comma 1, C. Cons., cit., p. 95 ss.

Rispetto al procedimento di valutazione appena richiamato, è utile segnalare l’efficace ricostruzione effettuata dalla giurisprudenza amministrativa. Basti pensare alla pronuncia del TAR Lazio, Sez. I, 25 marzo 2009, nel caso Enel vs AGCM, §3.1.364 in cui il Collegio ha opportunamente precisato che “la lettura integrata delle applicabili disposizioni dettate dal Codice del consumo consente di affermare che l’individuabilità di una pratica commerciale “rilevante” transita attraverso l’emersione dei seguenti elementi”: 1) il comportamento posto in essere da un professionista; 2) l’esistenza di un prodotto al quale il comportamento di cui sopra sia riferibile; 3) la tensione teleologica fra il comportamento posto in essere dal professionista e il prodotto; 4) l’articolazione temporale della/e condotta/e del professionista rispetto all’intento promozionale e/o alla collocazione del prodotto sul mercato, con riferimento alla azioni concretamente poste in essere al fine di attirare le attenzioni della (potenziale) clientela sull’oggetto della commercializzazione365.

Quest’ultimo366, inoltre, deve essere destinato a un uso estraneo all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta dal soggetto acquirente o fruitore.

Tale limite367, impone di escludere dalla valutazione di illiceità le pratiche inerenti alla commercializzazione di beni o servizi destinati a essere impiegati esclusivamente da operatori economici368. L’utilizzo per così dire “privato” che la parte acquirente intende fare del prodotto, per quanto chiaro in linea teorica, porta con sé un primo ostacolo di ordine applicativo.

Come rilevato dalla dottrina369, risulta di estrema difficoltà per l’interprete “individuare ex ante la tipologia di consumo che verrà adottata dal soggetto acquirente.

364 TAR Lazio, Sez. I, sent. n. 8399, 25 marzo 2009, nel caso Enel vs AGCM, in www.giustizia-

amministrativa.it

365 Con riferimeto al caso sopra richiamato, il TAR Lazio ha chiarito che “la commercializzazione

di due distinti beni, segnatamente energia elettrica e gas da parte di Enel, impone di considerare integrate due differenti fattispecie illecite”.

366 Si fa riferimento al prodotto oggetto di un’eventuale pratica commerciale.

367 Si tratta di un chiarimento connesso alla nozione di consumatore rispettivamente contenuta

nell’art. 2, lett. a), Direttiva 2005/29/CE, e nell’art. 18, lett. a) del Codice del consumo.

368 E.BARGELLI, La nuova disciplina delle pratiche commerciali tra professionisti e consumatori:

ambito di applicazione (art. 18, lett. a) e d) e art. 19, comma 1, C. Cons., p. 96.

369 V. MELI, Le pratiche sleali ingannevoli, in I decreti legislativi sulle pratiche commerciali

Potrebbe, dunque, ritenersi opportuna una più ampia lettura della norma che consenta di assorbire nel concetto di pratica anche una condotta commerciale rivolta indistintamente sia ai consumatori che ai professionisti370. Aderendo a tale impostazione, pertanto, resterebbero espunte dalla fattispecie le condotte rivolte esclusivamente ad altri imprenditori.

6. (segue) Pratica commerciale: condotta isolata o ripetuta?

Una questione interpretativa ancora aperta dinanzi a una nozione tanto ampia riguarda il fatto costitutivo della pratica commerciale.

In sede di valutazione di taluni ricorsi presentati avverso determinati provvedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in materia di pratiche commerciali scorrette, il giudice amministrativo ha in più occasioni affrontato la questione se il fatto costitutivo della pratica commerciale, rilevante ai fini della disciplina dettata dall’art. 18 ss., Codice del consumo, possa consistere “in un comportamento isolato e occasionale del professionista, ovvero, possa o debba necessariamente trattarsi di una condotta ripetuta e costante”371.

In un caso relativo ad alcune condotte commerciali poste in essere da società appartenenti al gruppo Enel (attivazione di forniture di energia elettrica o di gas naturale non richieste dai consumatori, campagne pubblicitarie aggressive) e ritenute “scorrette” dall’Autorità, il TAR Lazio (di seguito anche “TAR”) rigettò

Padova, 2008, p. 87 ss. Secondo l’A., solo in casi limite è possibile ricavare la natura professionale o privata del possibile consumo dalle caratteristiche del prodotto promosso o dalle modlità con le quali questo viene offerto sul mercato.

370 G.DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/CE. Contenuti, rationes, caratteristiche, cit., p. 9 ss.

Secondo l’A., “non è indispensabile che la prassi commerciale presenti una diretta connessione soltanto con rapporti contrattuali intercorrenti fra professionisti e consumatori. Le regole dettate dagli artt. 2-13 della direttiva si applicano anche alle comunicazioni commerciali che, essendo direttamente connesse alla promozione di beni o servizi offerti sul mercato sia ai consumatori che ai professionisti, vengono indirizzate contemporaneamente e indistintamente sia agli uni che agli altri”. Sul punto, inoltre, si consideri quanto precisato dalla Corte di Giustizia in merito alla nozione di consumatore introdotta nell’ordinamento comunitario dalla direttiva 93/13/CE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori. La Corte, con sentenza del 20 gennaio, 2005, n. 464, ha ritenuto “che nel caso in cui un bene sia stato acquistato per essere destinato a un utilizzo in parte personale e in parte professionale, la disciplina a tutela del consumatore non potrà essere invocata, a meno che il soggetto non dimostri che l’uso professionale ha rivestito un ruolo assolutamente marginale nello sfruttamento complessivo”.

371 G. SCOGNAMIGLIO, Le pratiche commerciali sleali: Disciplina dell’atto o dell’attività, in 20

anni di Antitrust, L’evoluzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, C. Rabitti Bedogni e P. Barucci (a cura di), Torino, 2010, p. 1221 ss.

la censura presentata dalla ricorrente Enel e avente ad oggetto “la sporadicità dei casi nei quali si sarebbero manifestate forme di abuso”372.

Il TAR, in questo caso, ritenne che la significatività statistica del dato non fosse elemento rilevante ai fini della determinazione di una pratica commerciale aderendo in tal modo a un orientamento ormai consolidato dell’Autorità secondo il quale “rientra nella nozione di pratica commerciale scorretta ogni condotta posta in essere da un professionista prima, durante o dopo un’operazione commerciale relativa ad un prodotto o servizio, che si connoti per caratteristiche tali da poter essere astrattamente replicata nei confronti di una categoria generalizzata di consumatori a prescindere dal numero di soggetti che in concreto ne siano stati destinatari e dalle vicende contrattuali circoscritte al rapporto tra il professionista e un singolo utente”373.

Del resto, come rilevato da una parte della dottrina 374 favorevole

all’interpretazione estensiva del concetto di “pratica” le indicazioni letterali fornite dall’art. 18, lett. d), Codice del consumo, confermerebbero la possibilità di comprendere nella nozione di pratica commerciale anche un singolo comportamento375.

Tuttavia, l’orientamento sopra descritto non ha suscitato il consenso unanime degli studiosi. Secondo alcuni autori376 il dato testuale nonché la giurisprudenza “suffragano l’opinione secondo la quale un atto episodico e isolato posto in essere da un professionista nei confronti di un consumatore non integra gli estremi della fattispecie rilevante” ai sensi della disciplina contenuta nella Direttiva 2005/29/CE e recepita nell’ordinamento giuridico italiano377.

372 TAR Lazio, Sez. 1, 8 aprile 2009, n. 3722, p. 32, in www.giustizia-amministrativa.it

373 Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, caso PS-19, Tele 2 – Contratti a distanza,

provv. N. 18995, 16 ottobre 2008, in Boll. 39/2008.

374 EZIO GUERINONI, Le pratiche commerciali scorrette. Fattispecie e rimedi, cit., p. 100 ss. 375 Pertanto, alla luce di questo primo orientamento può essere considerata come “pratica

commerciale” tanto una singola condotta (qualsiasi “azione”, “omissione” ovvero ancora “dichiarazione”) quanto un’attività complessa che, per sua natura, si compone di singoli atti che devono susseguirsi nel tempo.

376 G.SCOGNAMIGLIO, Le pratiche commerciali sleali: Disciplina dell’atto o dell’attività, cit., p.

1221 ss.

377 G. SCOGNAMIGLIO,op. ult. cit, p. 1223. L’A. aggiunge che “sarebbe sbagliato riconoscere

l’irrilevanza assoluta dell’atto isolato. Il problema, va ravvisato, dunque, nell’individuazione del discrimen, ossia del criterio in base al quale distinguere l’atto singolo non rilevante (in quanto episodico e accidentale) da quello invece rilevante ai fini della identificazione e repressione delle pratiche commerciali scorrette.

In proposito, con riferimento al contenuto dell’art. 18, lett. d), del Codice del Consumo, è stato chiarito, “che da un punto di vista semantico, il vocabolo “pratica” indica, così come il corrispondente (“practice”; “verhalten”; “pratique”, “pràctica”) adoperato rispettivamente nella versioni inglese, tedesca francese e spagnola della Direttiva, una prassi, uno stile, una condotta tendenzialmente abituale e ripetuta nel tempo e non un atto isolato ed episodico”378.

Quest’ultimo orientamento, trova conferma in un’ulteriore sentenza del TAR Lazio379 chiamato a pronunciarsi su un provvedimento con il quale l’Autorità aveva ritenuto scorrette determinate condotte realizzate da alcuni istituti bancari e consistenti in anomalie, ritardi e “comportamenti ostruzionistici” in sede di applicazione della disciplina relativa alla così detta “portabilità dei mutui”380.

Come si evince della lettura del testo della sentenza, l’istruttoria era stata avviata in seguito alla segnalazione di un’associazione di consumatori (Altroconsumo) la quale aveva promosso un’indagine condotta con il sistema mistery shopping. Con tale espressione si intende una tecnica diretta alla rilevazione della qualità dei servizi e dei prodotti offerti da un professionista, dell’idoneità delle procedure, del comportamento dei dipendenti381. Nel caso di specie, attraverso la suddetta metodologia di indagine, erano stati elaborati dati e informazioni sulla base dei quali l’associazione dei consumatori aveva rilevato e segnalato l’inadeguatezza e la scorrettezza (in relazione alla disciplina in tema di surrogazione del mutuante) dei comportamenti degli operatori preposti agli sportelli bancari.

Il TAR Lazio ha ritenuto censurabile sia l’utilizzazione acritica, da parte dell’Autorità, dell’indagine realizzata attraverso il mistery shopping, sia l’assunto, fondato sulle risultanze di detta indagine, della “presenza diffusa di pratiche commerciali scorrette nel settore bancario”382.

378 G.SCOGNAMIGLIO,op. ult. cit, p. 1224.

379 TAR Lazio, Sez. I, 6 aprile 2009, n. 3689., in www.giustizia-amministrativa.it. L’orientamento

del TAR Lazio è stato confermato dal Consiglio di Stato, sent. n. 9322/2010.

380 Legge n. 40/2007 di conversione del D.L. n. 7/2007.

381 La rilevazione viene effettuata in maniera anonima, per mezzo di consumatori appositamente

istruiti (i così detti mistery shoppers) e individuati da imprese che esercitano attività di marketing o svolgono analisi di mercato al fine di simulare situazioni di contatto con taluni professionisti e verificare le modalità di erogazione del servizio, la capacità e la preparazione tecnica del personale preposto alla vendita dei prodotti.

In particolare, con riguardo alla questione di nostro interesse, il giudice amministrativo ha annullato la delibera dell’Autorità ritenendo che “la mancata dimostrazione circa l’effettiva diffusione (sotto i profili quantitativo, geografico, temporale) di taluni comportamenti, pur effettivamente osservati in singole filiali, esclude che essi possano ex se assurgere al rilievo di “pratica” ovvero di una condotta ripetutamente posta in essere dall’operatore commerciale con carattere di apprezzabile omogeneità”.