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I parametri di valutazione delle pratiche commerciali scorrette

Al fine di individuare i parametri in forza dei quali le autorità amministrative e giurisdizionali valutano l’eventuale scorrettezza di una pratica commerciale occorre innanzitutto partire dal dato positivo644. Come già chiarito645, la Direttiva

2005/29/CE nonché la disciplina italiana di recepimento non pone a carico dei professionisti obblighi di contenuto positivo, limitandosi a sancire il divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali646. Alla luce della disciplina dettata dagli articoli 18 e seguenti del Codice del consumo costituiscono pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori “un’azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale, ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in

640 P.RESCIGNO,Appunti sulle clausole generali, in Riv. dir. comm., 1998, I, p. 3 ss.. L’A. ricorda

come le clausole generali siano state viste con diffidenza dal legislatore positivista chiamato a tutelare il valore della certezza del diritto. In questa prospettiva la clausola generale “appariva come strumento attraverso il quale si rischiava di attribuire al giudice un potere discrezionale idoneo a lambire o addirittura a sconfinare in un mero arbitrio”. Gli episodi della risalente esperienza “creano diffidenza nei giudici e nelle Autorità indipendenti, delegati a ricercare soluzioni, fuori dai rigidi confini dell’ordinamento positivo”.

641 Nella fattispecie in esame, il riferimento è all’art. 20 del Codice del consumo.

642 L.MENGONI, Spunti per una teoria delle clausole generali, cit., p. 16; Sul tema cfr. C.PUNZI,

La funzione del giudice nell’attuale evoluzione del diritto privato, in Riv. dir. comm., 1968, I, p. 10 ss. L’A. afferma che i nuovi poteri giudiziari, se da un lato incidono sulla sfera di autonomia privata, dall’altro non dissimulano un giudizio meramente arbitrario. L’atto legislativo è, infatti, “un passato, che il giudice deve far diventare presente, per giudicare. E’ in tale attività non v’è nulla di arbitrario”.; F. GAZZONI, Equità e autonomia privata, Milano, 1970, p. 35. L’A. sottolinea che l’antitesi tra legge ed equità non dovrebbe sussistere nell’ipotesi di assenza di una disciplina legale tipica.

643 Le pratiche commerciali scorrette ex art. 18 ss. del Codice del consumo.

644 P.FATTORI,M.TODINO, La disciplina della concorrenza in Italia, Bologna, 2010, p. 357 ss. 645 Cfr. cap. I, parte II, par. 1, del presente lavoro.

relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto” contraria alla diligenza professionale e falsa o idonea a falsare647 in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio.

La formulazione utilizzata dal legislatore è molto ampia e densa di contenuti anche complessi che vanno esaminati singolarmente al fine di trarre una definizione esauriente di scorrettezza. In particolare, gli elementi costitutivi di una pratica commerciale scorretta sono di seguito sintetizzati: 1) la pratica deve falsare in concreto o può essere anche astrattamente idonea a falsare il comportamento economico del consumatore; 2) la pratica deve essere contraria alla diligenza professionale; 3) il comportamento leso potenzialmente o concretamente dalla pratica non è quello del singolo consumatore o della somma di singoli consumatori, bensì quello del consumatore medio o del membro medio di un gruppo di consumatori ai quali la pratica è espressamente rivolta; 4) la lesione del comportamento deve essere apprezzabile648.

E’ agevole comprendere come oggetto della disciplina non siano le pratiche commerciali in quanto tali, ossia tutti i comportamenti commissivi e/o omissivi, quelle dichiarazioni, quegli atteggiamenti che, per loro stessa natura, sono in grado di influenzare il comportamento economico dei consumatori.

Le caratteristiche sopra enunciate devono ricorrere cumulativamente649.

La contrarietà alla diligenza professionale non è, dunque, sufficiente ex se a integrare la fattispecie illecita descritta laddove non risulti, altresì, la sua attitudine a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio650.

647 Non è necessario che la pratica abbia prodotto un effetto lesivo, essendo al contrario sufficiente

che la stessa sia idonea a indurre il consumatore medio ad assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Cfr. in tale senso TAR Lazio, sent. n. 3722, 25 marzo 2009. Ad avviso del giudice amministrativo “l’illiceità della condotta posta in essere dal professionista al fine di assumere rilevanza ai sensi delle disposizioni del Codice del consumo in materia di pratiche commerciali scorrette non deve dimostrare una concreta attuazione pregiudizievole, quanto piuttosto, una potenzialità lesiva”.

648 V. FALCE, Pratiche commerciali sleali e pubblicità ingannevole: Il Garante emana i

regolamenti, in Il Diritto industriale, 2008, I, p. 57 ss.

649 V.VIGORITI, Verso l’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, in Europa e

Diritto Privato, 2007, p. 533 ss.

650 Relazione illustrativa della proposta di direttiva presentata dalla Commissione nel 2003, n. 53,

L’elemento della correttezza e quello del pregiudizio economico, infatti, sono legati da un nesso causale, nel senso che, come chiarito dai giudici amministrativi651, “la non correttezza della pratica commerciale deve identificare un antecedente logico necessario (ancorchè non necessariamente unico) a fronte delle scelte che il consumatore abbia posto in essere”.

Presi singolarmente, i descritti elementi suggeriscono l’ingresso nel giudizio di scorrettezza di una maggiore ponderazione tra il grado di diligenza del professionista e quello di attenzione richiesto al consumatore652.

In una prospettiva condivisa da chi scrive, il legislatore ha rinunciato a una incondizionata difesa del consumatore, tipica di una concezione paternalistica ormai superata, privilegiando una migliore combinazione della tutela garantita al consumatore con l’onere di attenzione richiesto a quest’ultimo. Ciò non determina, uno stravolgimento del disegno posto alla base della disciplina della pubblicità ingannevole, bensì la definizione di un più equilibrato assetto degli interessi in gioco.

2. (segue) La diligenza del professionista

Il primo indice di scorrettezza di una pratica commerciale è costituito dalla violazione delle norme di diligenza professionale. E’ utile chiedersi quando e a quali condizioni, una pratica commerciale possa considerarsi “contraria alla diligenza professionale”653. In ragione delle molteplici manifestazioni delle condotte rilevanti ai fini della disciplina in esame, si è avvertita la necessità di elaborare una definizione di diligenza professionale particolarmente ampia, idonea a ispirare il comportamento dell’impresa in qualunque momento di interazione con il mercato. Si tratta di un obiettivo particolarmente ambizioso che ha condizionato in maniera decisiva il testo comunitario.

La diligenza, infatti, come indicato nella Direttiva sub art. 2, lett. h), consiste nel normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei

651 TAR Lazio, Sez. I, 6 aprile 2009, n. 3689., in www.giustizia-amministrativa.it

652 F.DENOZZA, Aggregazioni arbitrarie v. tipi protetti: la nozione di benessere del consumatore

decostruita, in Giurisprudenza commerciale, 2009, I, p. 1057.

consumatori con riguardo a pratiche di mercato oneste e/o al principio di buona fede nel settore di attività del professionista. La dottrina654 impegnata a formulare le prime considerazioni sulla norma in commento non ha mancato di sottolinearne la genericità, rilevando la presenza nella medesima definizione di concetti tra loro estremamente differenti per portata e contenuti.

Si fa riferimento all’impiego del principio generale di buona fede quale canone ermeneutico per comprendere il significato di un altro differente parametro - la diligenza professionale655. Infatti, come si chiarirà nei successivi paragrafi, se la buona fede costituisce un principio al quale deve essere ispirato l’agire di ciascun membro della collettività nel momento in cui si relaziona con altri consociati, il canone della diligenza costituisce il metro di valutazione della condotta posta in essere nell’esercizio di un’attività professionale656. L’origine della discussa

formulazione normativa sarebbe riconducibile alle numerose modifiche della definizione di diligenza professionale che si sono succedute nelle versioni del testo della Direttiva 2005/29/CE657. Ad esempio, nella Proposta di Direttiva presentata a giugno 2003658, la Commissione aveva proceduto a una definizione più semplice e, soprattutto, scevra di riferimenti al principio generale di buona fede, in quanto riferita solo alla “misura della speciale competenza e attenzione esercitate da un professionista conformemente ai requisiti della comune pratica di mercato nei confronti dei consumatori nel suo settore di attività”659.

654 Cfr. tra gli altri G.DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di

valutazione della scorrettezza, cit., p. 145 ss.

655 G. DE CRISTOFARO, op. ult. cit. p. 145 ss. Secondo l’A., è indispensabile chiedersi come

possano coerentemente convivere all’interno dell’unitaria nozione di “norme di diligenza professionale”, il principio di buona fede, le pratiche di mercato oneste e il grado di competenza e cura che ci si può legittimamente attendere venga impiegato da parte dei professionisti. Pare, invero, che gli organi comunitari abbiano forzatamente accomunato categorie e concetti fra loro assai eterogenei, ponendo in tal modo gli interpreti intenzionati a ricostruire in modo organico la portata della definizione generale di cui all’art. 2, lett. h, Codice del consumo, di fronte a un ostacolo insormontabile”.

656 G. DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione

della scorrettezza, cit., p. 147 ss

657 L.ROSSI CARLEO, Dalla comunicazione commerciale alle pratiche commerciali sleali, cit., p.

19 ss.

658 Per la ricostruzione del procedimento comunitario di adozione della Direttiva cfr. il cap. 1 del

presente lavoro.

659 Commissione europea, Proposta di direttiva del Parlamento e del Consiglio relativa alle

Successivamente, il Parlamento europeo è intervenuto sul testo inserendo il richiamo alla buona fede divenuto elemento costitutivo della versione oggi in vigore.

Nelle fase di recepimento del testo comunitario, il legislatore nazionale pur apportando talune modifiche ha mantenuto il riferimento alla buona fede.

In particolare, l’art. 18, lett. h, del Codice del consumo, definisce la diligenza professionale come “il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista”.

Da un confronto tra le due versioni, comunitaria e nazionale, emergono delle differenze. In primo luogo, il profilo in base al quale la disciplina domestica ha preferito individuare il livello di competenza e attenzione che il professionista è tenuto ad adottare non è più quello delle “ragionevoli aspettative di un osservatore terzo”660, quanto piuttosto quello dei consumatori destinatari della pratica commerciale.

In secondo luogo, i parametri rispetto ai quali devono essere concretizzati i contenuti delle “ragionevoli aspettative” sono mutati. Più nel dettaglio, l’art. 18, lett. h, Codice del consumo, non contiene, a differenza dell’art. 2, lett. h, Direttiva 2005/29/CE, il riferimento al discusso e ambiguo criterio delle “pratiche di mercato oneste”661 in sostituzione del quale il legislatore italiano ha preferito richiamare il principio generale della correttezza662. Quest’ultima introduzione, di per sé sola, potrebbe non apparire di eccessivo peso, ma se letta congiuntamente alla clausola di buona fede può fornire un utile spunto di riflessione per l’interpretazione della norma663.

660 P.FATTORI,M.TODINO, La disciplina della concorrenza in Italia, cit., p. 360 ss.

661 V.MELI, voce Pubblicità ingannevole, in Enc. Giur. Treccani, Aggiornamento, Roma, 2006, p.

7. L’A., si esprime in termini critici nei confronti della scelta del legislatore comunitario di fare riferimento alla locuzione “pratiche di mercato oneste”, la quale richiama un parametro di valutazione tipicamente corporativo.

662 Mentre nella versione della direttiva il riferimento alle “pratiche di mercato oneste” era preso in

considerazione in via cumulativa e/o alternativa al richiamo alla buona fede, nella versione recepita i principi generali della correttezza e della buona fede vanno valutati congiuntamente.

663 Il riferimento congiunto ai principi generali di correttezza e buona fede sembrerebbe chiarire

che il legislatore nazionale ha inteso richiamare il concetto di buona fede oggettiva evitando in tal modo il ripetersi di quell’incertezza interpretativa verificatasi in passato con la direttiva 93/13/CEE concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori. Come si

3. (segue) Buona fede e correttezza nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette

Occorre soffermarsi sulla parte conclusiva della definizione di diligenza professionale, ovvero, come si accennava sopra, sui principi di correttezza e di buona fede per individuare la portata applicativa di tali clausole nell’ambito della disciplina delle pratiche commerciali scorrette. Come noto, in passato, gli istituti rispettivamente riconducibili all’art. 1175 c.c. in materia di obbligazioni e all’art. 1375 c.c. in materia di contratti, sono stati letti come canoni comportamentali tra loro distinti664. Secondo una prima posizione, una considerazione unitaria del principio di correttezza e di quello di buona fede sarebbe stata preclusa da una valutazione di ordine soggettivo665. In particolare, l’art. 1375 c.c. trovava

applicazione solo con riferimento al debitore, fissando una regola di condotta in sede di esecuzione del programma negoziale, mentre l’art. 1175 c.c. avrebbe riguardato il solo creditore666. Una seconda posizione, per contro, ha rinvenuto il fondamento di una lettura separata in una differenza contenutistica sussistente tra le due norme citate.

Nello specifico, la correttezza è stata intesa come parametro generatore di meri obblighi negativi, mentre la buona fede è stata connessa a obblighi positivi667. La giurisprudenza chiamata a esprimersi sul tema in esame ha per lungo tempo, da un lato, confermato la lettura dei principi di correttezza e buona fede come criteri distinti, dall’altro, escluso la configurabilità degli stessi quali fonti di integrazione del rapporto obbligatorio, ulteriori rispetto alla legge o allo statuto negoziale668.

ricorderà, in quella sede, il testo normativo aveva lasciato spazio a orientamenti favorevoli a intendere la buona fede in senso soggettivo. La buona fede soggettiva consiste nell’ignoranza di ledere l’altrui interesse, nel caso di specie era stata intesa come ignoranza circa la vessatorietà delle clausole e la lesione dei diritti del consumatore. Cfr. in proposito F.BILOTTA,M.CERRATO, La vessatorietà delle clausole nei contratti del consumatore, in I contratti in generale, (Il diritto privato nella giurisprudenza, Collana a cura di P. Cendon, Torino, 2001, IV, p. 150.

664 Sul tema si interroga S. RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 2004,

(Ristampa integrata), p. 135 ss.

665 S.RODOTÀ, op. ult. cit., p. 135 ss.

666 La questione è stata esaminata da R.NICOLÒ, Adempimento (voce), in Enciclopedia del diritto,

Milano, I, 1958, p. 558. Secondo l’A., l’art. 1375 c.c. si riferirebbe unicamente al debitore

667 E.BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, Edizioni Scientifiche Italiane, XXVI, G. Crifò (a

cura di), 1994, p. 68 ss.

668 Cfr. Cass. Civ., sez II, 23 ottobre 1976, n. 3809, in www.italgiure.giustizia.it. Secondo la

Suprema Corte, “l’eccezione d’inadempimento, di cui all’art. 1460 c.c. mira a conservare l’equlibrio sostanziale e funzionale del contratto con prestazioni corrispettive. Ne consegue che la

Oggi, il contesto di riferimento appare sensibilmente mutato. Sia la dottrina669 che la giurisprudenza670, sono concordi nel ritenere che gli artt. 1175 e 1375 c.c. costituiscano espressione di un unico principio da intendersi alla luce del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione. Tale impostazione appare pienamente in linea con l’intenzione del legislatore del 1942. Dalla lettura dei lavori preparatori del Codice civile emerge come l’art. 1175 c.c. ha sempre rappresentato una manifestazione di un dovere di solidarietà sociale espressione del principio di buona fede che impone “di comportarsi in modo da non ledere l’interesse altrui fuori dai limiti della legittima tutela dell’interesse proprio”671. Inoltre, la medesima Relazione ministeriale al Codice civile, precisa che il canone di correttezza e buona fede “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore672.

Per le ragioni sopra indicate, deve ritenersi che il riferimento alla correttezza non è apprezzabile come riferimento ulteriore e autonomo, con significato differente rispetto al principio di buona fede di cui costituisce un mero rafforzamento673. Si tratta, pertanto, di termini omologhi espressione di un dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 della Costituzione che impone a ciascuna parte di agire in modo

buona fede di chi intenda avvalersi dell’eccezione, prevista dal secondo comma della citata norma, deve essere intesa come un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, risulti ragionevole e logico in senso oggettivo”

669 F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, XIII ed., 2007, p. 548 ss. L’A. non condivide il

tentativo di parte della dottrina di distinguere tra principio di correttezza e principio di buona fede oggettiva […]. La contrapposizione, infatti, “non corrisponde ad una diversità di contenuto, ma piuttosto individua la reazione di una identica regola di fronte a situazioni diverse. La regola è quella del principio di solidarietà previsto e disciplinato dall’art. 2 della Costituzione, un principio che impronta di sé non solamente la materia delle obbligazioni, ma l’intero campo del diritto privato”; Cfr. ex multis G.ALPA, Pretese del creditore e normativa di correttezza, in Riv. Dir.

Commerciale, II, 1971, p. 277 ss; C.M.BIANCA,Diritto civile, 3. Il contratto, Milano, 2000, p. 472 ss.; V.ROPPO, Il contratto, in Trattato di diritto privato, G. Iudica, P. Zatti (a cura), Milano, 2001, p. 493.

670 Cass. civ., S.U., 15 novembre 2007, n. 23726. Secondo i giudici della Suprema corte “viene in

rilievo l’ormai acquisita consapevolezza della intervenuta costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce all’un tempo forza normativa e ricchezza di contenuti”.

671 C. A. CANNATA, L’oggetto dell’obbligazione, in Trattato di diritto privato (diretto da P.

Rescigno), vol. IX, I, Torino, 1999, p. 43 ss.

672 Cass. civ., S.U., 25 novembre 2008, n. 28056, in Repertorio del Foro italiano, 2008, p. 161. 673 G. DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione

da preservare gli interessi dell’altra a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali674.

Da questa interpretazione non è dato discostarsi neppure in considerazione dell’espressione “nel settore di attività del professionista” che nell’ambito della definizione di diligenza professionale segue il richiamo alla buona fede675.

Come chiarito in dottrina676, il riferimento al “settore” serve solo a declinare i doveri di custodia, informazione e protezione, adeguandoli alle aspettative dei consumatori destinatari della pratica commerciale.

Si può, dunque, a buon diritto, riconoscere come ogni comportamento giuridicamente rilevante, che risulti idoneo a incidere sulla situazione soggettiva di terzi, debba essere attuato nel rispetto del principio di correttezza e buona fede677 che in ragione della sua ampiezza si presta a orientare ogni manifestazione

dell’agire imprenditoriale nei confronti del consumatore678. Come chiarito in

dottrina679, la buona fede di cui all’art. 18, lett. h, Codice del consumo, coincide con il parametro che governa e ispira il controllo di vessatorietà delle clausole dei contratti conclusi tra professionisti e consumatori. E’ la buona fede (in senso oggettivo), infatti, a rappresentare il fondamentale nesso di congiunzione fra la disciplina delle clausole vessatorie e quella delle pratiche commerciali scorrette che costituiscono i due grandi pilastri del sistema delle regole cui devono attenersi i professionisti.

674 Cass. civ., n. 5348/2009.

675 M. LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche

commerciali scorrette, cit, p. 93 ss.

676 Cfr. tra gli altri M.LIBERTINI, op. ult. cit., p. 94 ss. 677 F.LUCCHESI, sub art. 18, cit., p. 5 ss.

678 Il riferimento al principio generale di buona fede e correttezza era già presente nel Codice del

consumo ancor prima del recepimento nell’ordinamento italiano della disciplina comunitaria in materia di pratiche commerciali sleali. L’art. 39 del Codice del consumo, contiene, infatti, una disposizione estremamente significativa in tal senso, la quale dispone che “le attività commerciali sono improntate al rispetto dei principi di buona fede, di correttezza e di lealtà, valutati anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori” . Dalla lettura del testo citato emerge una stretta relazione tra la norma appena richiamata e l’art. 18, lett. h, Codice del consumo. La stessa Relazione al D.Lgs. 206/2005 esplicita l’obiettivo di considerare, attraverso l’art. 39, i principi de quibus applicabili all’intero atto di consumo. È, dunque, evidente l’anticipazione dei principi ispiratori della Direttiva 2005/29/CE di cui il legislatore italiano aveva già tenuto conto data la rispondenza con l’impianto sistematico dello stesso Codice. Cfr. sul tema G.VETTORI, sub

art. 39, Codice del consumo. Commentario, G. Alpa, L. Rossi Carleo (a cura di), Padova, 2007, p. 413 ss.; A.BARENGHI, sub art. 39, Codice del consumo, V. Cuffaro (a cura di), Milano, 2006, p. 12 ss.

Un sistema essenzialmente imperniato su due fondamentali divieti imposti ai professionisti: i) il divieto di inserire clausole vessatorie nei regolamenti negoziali destinati a disciplinare i rapporti intercorrenti con i consumatori; ii) il divieto di ricorrere a pratiche commerciali scorrette in funzione della promozione dei suddetti rapporti ovvero in sede di svolgimento ed esecuzione degli stessi680. Alla luce di tali considerazioni, il principio in commento costituisce “lo strumento