La figura dell’amministratore di sostegno si caratterizza per l’ampiezza e la varietà dei poteri che il giudice tutelare gli attribuisce, al fine di provvedere alla cura della persona e del patrimonio del beneficiario.
Il Tribunale di Venezia in una pronuncia del 2005 ha affermato che “l’amministratore di sostegno non riveste di per sé alcun ruolo di garanzia con
la conseguenza che non incombe sul medesimo, per il solo fatto di ricoprire questo ufficio pubblico, alcun compito di vigilanza o sorveglianza rilevante ex art. 2047 c.c.”135.
L’amministratore di sostegno non può pertanto essere considerato, in via generale, un sorvegliante del beneficiario incapace d’intendere e di volere.
Tuttavia, in alcune situazioni, tra i poteri che il giudice tutelare attribuisce all’amministratore vi possono rientrare i doveri di vigilanza nei confronti del beneficiario incapace naturale.
Se l’amministratore di sostegno si occupa esclusivamente della gestione patrimoniale dei beni del beneficiario ed è chiamato a compiere soltanto atti in
veste di rappresentante, difficilmente potrà essere considerato responsabile dei fatti dannosi compiuti materialmente dall’incapace di intendere e di volere.
Viceversa nel caso in cui l’amministratore sia un familiare che convive con il disabile incapace naturale136, la maggiore ampiezza dei poteri attribuiti
dal decreto consentirà con alta probabilità di individuare nel medesimo un vero e proprio sorvegliante nel senso voluto dalla norma dell’art. 2047 c.c.137.
Come sostenuto in dottrina, “la responsabilità del sorvegliante andrà
commisurata ai poteri che il giudice tutelare gli abbia, concretamente, attribuito, quindi non potrà che dipendere, di volta in volta, dall’esame del concreto caso, ponendosi attenzione al <<profilo quantitativo dell’assistenza che viene prestata>> e dal fatto che, contemporaneamente, ci sia, oppure no, un’altra persona destinata alla sorveglianza dell’incapace”138.
Concludendo, il fatto che l’amministratore di sostegno a priori non possa ricoprire il ruolo di sorvegliante del beneficiario incapace naturale, non esclude che tale incarico gli venga attribuito dal giudice a posteriori, in considerazione delle circostanze concrete.
Le particolari condizioni psichiche del beneficiario e il contenuto del decreto di nomina dell’amministratore di sostegno sono dunque le cause dell’applicazione, in via analogica, degli artt. 2046 e 2047 c.c. nei confronti dell’amministrazione di sostegno.
136 Continua la pronuncia del Trib. Venezia “nei limiti in cui le predette responsabilità non
siano insite nel ruolo di fatto rivestito dall’amministratore di sostegno (familiare o meno) di effettivo “controllo” del beneficiario”.
137 In tal senso G. BONILINI e A. CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, 2007. 138 G. BONILINI e A. CHIZZINI, op. cit., p. 330.
Capitolo 3
dell’incapace?
1. Premessa
L’applicazione analogica degli artt. 2046 e 2047 c.c. al beneficiario dell’amministrazione di sostegno autore di un fatto dannoso nei confronti dei terzi è ritenuta, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, la soluzione preferibile.
Alla luce dei principi contenuti nella legge n. 180 del 1978 e nella legge n. 6 del 2004, tuttavia, una parte della dottrina e alcuni ordinamenti stranieri hanno ritenuto tale soluzione “anacronistica”139, auspicando una equiparazione
nel trattamento giuridico tra i soggetti infermi di mente e quelli privi di handicap.
La riforma dell’assistenza psichiatrica, infatti, ha prodotto un
ribaltamento del trattamento terapeutico nei confronti dell’infermo di mente ed ha sollecitato il legislatore a prospettare una riformulazione delle norme in materia di responsabilità civile degli incapaci d’intendere o di volere.
La scienza psichiatrica ha evidenziato la necessità di superare l’attuale trattamento giuridico dell’incapace naturale, incentrato sulla
139 E. CARBONE, Libertà e protezione nella riforma dell’incapacità d’agire, in
deresponsabilizzazione di questo, evidenziando le finalità terapeutiche e sociali di una sua responsabilizzazione.
La stessa legge n. 6 del 2004 ha attribuito al beneficiario una maggiore capacità di autodeterminarsi140, ha superato la visione del malato di mente
come soggetto tendenzialmente privo di capacità legale d’agire.
Per tali motivi, l’”irresponsabilità” di questo in ambito aquiliano è apparsa ingiustificata agli occhi di parte della dottrina.
La maggiore libertà d’azione e l’attribuzione di diritti e poteri ai soggetti infermi di mente, secondo alcuni autori, dovrebbe comportare una maggiore rigorosità in ambito aquiliano.
Il punto di partenza per comprendere l’orientamento della dottrina più sensibile alle esigenze dei soggetti infermi di mente è senza alcun dubbio il rapporto tra imputabilità e colpevolezza.
Alla luce delle varie riforme in materia di infermità mentale che dal 1978 si sono susseguite è stata ravvisata “la tendenza a scorporare la nozione
di imputabilità da quella della colpevolezza in relazione ai soggetti infermi di mente”141.
2. Colpevolezza dell’incapace?
140 P. PETRELLI, op. cit., p. 178 ss., dove si afferma che: << il nuovo istituto
dell’amministrazione di sostegno suppone che il soggetto abbia conservato e mantenga una qualche capacità naturale che gli consenta il compimento di certi atti, intendendone il significato e il valore giuridico e soprattutto spinge alla ricerca continua del consenso e dell’autodeterminazione del soggetto>>.
Per stabilire se l’incapace d’intendere e di volere possa essere considerato colpevole di un fatto dannoso cagionato a terzi è necessario riprendere le considerazioni già svolte con riferimento al rapporto tra imputabilità e colpevolezza.
La teoria tradizionale142 considera l’imputabilità un elemento intrinseco
della colpevolezza; pertanto, sul presupposto che il soggetto infermo di mente difetta della capacità di discernimento e quindi dell’imputabilità, non è
possibile considerarlo colpevole di un fatto dannoso143.
Questa teoria sostiene dunque che l’irresponsabilità dell’incapace, stabilita all’art. 2046 c.c., sia una mera esplicitazione della norma
fondamentale in materia di responsabilità extracontrattuale, disciplinata all’art. 2043 c.c., la quale prospetta una responsabilità fondata essenzialmente sul principio della colpa.
Dall’accoglimento di questo principio, come sostenuto da autorevole dottrina, “le conseguenze sono, anzitutto, che l’intera normativa deve essere
interpretata alla luce del criterio della colpa144 e, in secondo luogo, che le ipotesi eccezionali non riconducibili in alcun modo al principio della colpa personale costituiscono fattispecie eccezionali di responsabilità oggettiva”145,
142 A tale proposito A. DE CUPIS, op. cit., 1979.
143 C. SALVI, La responsabilità civile dell’infermo di mente, in Un altro diritto per il malato
di mente: esperienze e soggetti della trasformazione a cura di AA.VV., 1988, p. 816 ss. dove si afferma che: << Secondo l’orientamento tradizionale, principio generale dell’istituto è che si risponde per un comportamento rimproverabile, e quindi per un atto colposo, del quale la capacità di intendere e di volere è un elemento intrinseco e essenziale>>.
144 Per quanto concerne, ad esempio, la prova liberatoria dell’art. 2047, 1° comma, c.c.,
l’interpretazione, in linea alla concezione tradizionale, è quella che si sia in presenza di una presunzione relativa di colpa.
come ad esempio l’art. 2047, 2° comma, c.c., che contempla l’ipotesi di una responsabilità sussidiaria dell’incapace d’intendere e di volere, nel caso in cui il sorvegliante dell’incapace non vi sia146 o fornisca validamente in giudizio la
prova liberatoria <<di non aver potuto impedire il fatto>>.
La teoria tradizionale dunque considera l’art. 2047, 2° comma, c.c. una fattispecie di responsabilità oggettiva e il suo fondamento è da ravvisarsi nell’equità147.
L’art. 2047, 2° comma, c.c. stabilisce che: “nel caso in cui il
danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l’autore del danno a un’equa indennità”.
L’indennità148viene considerata dai fautori della teoria tradizionale uno
strumento di protezione dell’incapace d’intendere e di volere149; infatti,
l’irresponsabilità del soggetto incapace viene attenuata sia attraverso la
discrezionalità del giudice nello stabilire l’indennizzo, sia attraverso l’equità e le condizioni economiche delle parti che lo orientano nella determinazione dell’ an e del quantum.
146 Cass. 28.01.53, n. 216, ha stabilito la massima che “nel caso di danno causato da persona
incapace d’intendere e di volere questa può essere condannata ad una equa indennità, anche se manchi la persona obbligata alla sua sorveglianza”.
147 Vedi A. DE CUPIS, op. cit., e anche G. QUAGLIARIELLO, op. cit.
148 L’indennità viene considerata una forma di ristoro del danno che non corrisponde o potrebbe
non corrispondere all’integrale copertura in denaro del danno cagionato.
149 M. FRANZONI, op. cit., 2004, p. 616, dove si afferma che “il fondamento dell’indennità
La condotta tenuta dall’incapace naturale è del tutto irrilevante ai fini di una sua responsabilità; infatti il pagamento eventuale dell’indennizzo
scaturisce dal solo rapporto di causalità materiale.
La giurisprudenza di legittimità, in una sentenza del 1953, ha espresso in maniera chiara tale concetto stabilendo che: “il principio enunciato dall’art.
2046 c.c. in virtù del quale l’incapace d’intendere e di volere non risponde delle conseguenze del fatto dannoso commesso (…) è stato attenuato dal legislatore, il quale ha stabilito la responsabilità oggettiva dello stesso incapace”150.
La teoria151 che invece sostiene il rapporto di reciproca autonomia tra
l’imputabilità e la colpevolezza, afferma che l’assenza di discernimento dell’incapace naturale non esclude a priori la possibilità che l’atto compiuto da questi sia colpevole.
L’idea, da un lato, di non abbandonare del tutto il principio generale della responsabilità soggettiva e, dall’altro, di evitare che un nesso troppo stretto tra imputabilità e colpevolezza conduca alla paradossale conseguenza che la vittima del danno cagionato dall’incapace goda di una protezione fin troppo estesa, in quanto avente diritto ad un risarcimento del danno anche di fronte a comportamenti oggettivamente incolpevoli152, ha indotto parte della
dottrina e della giurisprudenza a superare la visione oggettivistica dell’art. 2047, 2° comma, c.c., attraverso l’introduzione del concetto di colpa “oggettiva”.
150 Cass. 28.01.1953, n. 216. 151 F. D. BUSNELLI, op. cit., 1991. 152 C. SALVI, op. cit., p. 817.
La “rivoluzione copernicana” della funzione della responsabilità civile ha provocato una maggiore considerazione della posizione del danneggiato in luogo della condotta del danneggiante e ha modificato il concetto di colpa.
La colpa che nella concezione tradizionale era considerata in senso “soggettivo”, ovvero come alterazione delle condizioni personali del soggetto agente, in questa nuova concezione viene considerata in senso “oggettivo”, ovvero come difformità da un comportamento tenuto da un soggetto c.d. “normale”, il quale viene assunto come modello generale e parametro di confronto dal giudice153.
Questa nuova valutazione della colpa comporta una diversità di trattamento a seconda delle condizioni del soggetto autore del fatto dannoso, poiché la colpa “oggettiva” è considerata un criterio eccezionale per valutare la responsabilità dei soggetti incapaci d’intendere e di volere, mentre per tutti gli altri soggetti la valutazione del comportamento dell’autore del fatto è da effettuarsi sulla base di parametri “soggettivi”.
L’indennità, secondo tale concezione, non è un’eccezione all’art. 2046 c.c., bensì è un correttivo; infatti al danneggiato viene assicurata la possibilità di ottenere un ristoro per il danno subito da un fatto colpevole dell’incapace d’intendere e di volere.
L’art. 2047 c.c. ricomprende al suo interno due situazioni: la prima ha ad oggetto quei fatti dannosi provocati da un incapace naturale, per i quali risponde il sorvegliante a causa dell’omessa diligenza nella vigilanza; la
153 M . BUSSANI, La colpa soggettiva, 1991, p. 1 ss., dove si afferma che: <<Nell’ambito
della colpa aquiliana, l’insegnamento tradizionale vuole che ciascun consociato adegui la propria condotta al metro di diligenza esigibile presso il c.d. uomo medio: il comportamento di ognuno deve rapportarsi, cioè, al livello di quella finzione di individuo che – oggi come nel passato – si suppone dotato di conoscenze comuni, muscolatura usuale, reattività ordinarie, abilità e costumi standardizzati, intelligenza e memoria del tutto normali>>.
seconda ha ad oggetto quei fatti dannosi e colposi non riconducibili ad una colpa del sorvegliante, per i quali risponderà l’incapace pagando un
indennizzo154.
Lo stesso art. 2047, 2° comma, c.c., è dunque considerato, secondo tale orientamento dottrinale, una forma di responsabilità per colpa “oggettiva”.
Il fondamento di tale orientamento dottrinale è un’esigenza di tutela del danneggiato contemperata con l’esigenza di tutelare l’incapace stesso, il quale può essere condannato soltanto al pagamento di un’equa indennità.
Occorre ora soffermarsi sul concetto di indennità e sui suoi presupposti. L’indennità non è determinata con gli stessi criteri del risarcimento del danno155, poiché è considerata una semplice forma di ristoro “connessa a condotte lecite o giustificate da cui derivano ingiuste conseguenze che motivi di giustizia sociale, solidarietà ed equità che presiedono all’ordinamento vigente e a una pacifica convivenza sociale, impongono di considerare ponendovi riparo”156.
L’equità e le condizioni economiche delle parti sono i parametri che il giudice deve tenere in considerazione per condannare l’incapace d’intendere e di volere al pagamento dell’indennità.
154 L’incapace naturale è tenuto al pagamento di un indennizzo e non di un risarcimento dei
danni perché l’ordinamento ritiene comunque necessario proteggerlo, in quanto risulta essere sempre non imputabile.
155 Come sostenuto dalla dottrina, M. COMPORTI, op. cit., p. 39, “l’indennità si distingue (…)
dal risarcimento perché è dovuta in forza dell’equità, e, proprio perché la norma si basa su regole diverse da quelle generali delle fattispecie di responsabilità, essa non comprende le componenti normali del risarcimento (danno emergente e lucro cessante ex artt. 1223, 2056 c.c.) ma corrisponde ad un ristoro pecuniario comunque inferiore al risarcimento integrale”.
L’equità è “una clausola generale che comporta l’applicazione di un
giudizio non vincolato da regole rigide, perché possa essere calibrato alle variabili che si presuppongono caratterizzare la fattispecie oggetto di valutazione su cui deve essere pronunciata la regola concreta”157.
Il riferimento, invece, alle condizioni economiche delle parti è una peculiarità della norma, “ignota ai principi in tema di responsabilità civile”158.
Come sostenuto da un autore159, “la responsabilità dell’incapace dipende dalle condizioni economiche delle parti; essa aumenta, si attenua o addirittura scompare a seconda che l’incapace abbia la ventura di
danneggiare, col suo atto incosciente, un individuo facoltoso o non ed in relazione alla entità del suo patrimonio; quasi che la ricchezza e la povertà assurgano al rango di categorie giuridiche”160.
Anche la giurisprudenza, in merito alle condizioni economiche delle parti, si è allineata a quanto affermato dalla dottrina rilevando che l’equa indennità può subire delle riduzioni rispetto al risarcimento dei danni in relazione ad una situazione florida del patrimonio del danneggiato161.
157 M. AGRESTA, op. cit., p. 234. L’equità viene definita anche giustizia del caso concreto. 158 M. MANTOVANI, op. cit., p. 87.
159 G. QUAGLIARIELLO, op. cit. 160 G. QUAGLIARIELLO, op. cit., p. 98.
161 Trib. Macerata, 20.05.1986, dove si afferma che: “la determinazione dell’equa indennità
dovuta dal danneggiato incapace dipende sia nell’an che nel quantum da una valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti, da svolgersi in via equitativa previa la ricostruzione concreta delle componenti del danno da riparare”.
Nel caso di specie, tuttavia, la corresponsione dell’indennità da parte del giudice non era dovuta al raffronto delle situazioni economiche delle parti, ma al raggiungimento nel corso del giudizio da parte del danneggiante della maggiore età e della titolarità di un reddito in grado di far fronte al pagamento dell’indennità.
Occorre, infine, chiedersi quale delle due teorie sia quella più in linea con i principi della riforma in materia di assistenza psichiatrica e in materia di amministrazione di sostegno.
Sicuramente la concezione tradizionale, collegando inscindibilmente l’assenza di discernimento alla colpevolezza, non è diretta a responsabilizzare maggiormente l’incapace d’intendere e di volere162; viceversa la tesi che
individua la colpa “oggettiva” come presupposto della responsabilità degli incapaci naturali è in linea con le sollecitazioni della scienza psichiatrica dirette ad una maggiore rigorosità dello statuto aquiliano dell’infermo di mente.
A tal proposito, la dottrina163 più sensibile alle istanze della scienza
psichiatrica, con riferimento anche ad alcuni ordinamenti stranieri, ha
evidenziato come siano del tutto irrilevanti le condizioni personali del soggetto agente rispetto alla valutazione della colpa e di conseguenza è arrivata ad affermare una responsabilità diretta del soggetto incapace naturale.
Questa responsabilità diretta, seppur in linea con i principi delle riforme in materia di infermità mentale, tuttavia, non può essere trasferita in
ordinamenti giuridici come il nostro che, in materia di responsabilità dei soggetti incapaci d’intendere o di volere, si fondano sul principio di solidarietà sociale164.
162 Alcuni autori collegano la deresponsabilizzazione dell’incapace naturale ad un favor che il
diritto attribuisce alla condizione dei soggetti infermi, vedi ad esempio, A. DE CUPIS, Il favor del diritto civile per gli incapaci, in Riv. Dir. civ., 1982, e ID., Postilla sul favor del diritto civile per gli incapaci, in Riv. Dir. civ., 1984.
163 Il riferimento è a P. CENDON, op.cit.
164 Il principio di solidarietà sociale è affermato all’art. 2 della Costituzione: << … richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale>>. Tale principio non è applicato solo in materia di responsabilità civile degli incapaci, ma è rinvenibile anche in altri istituti, ad esempio, per quanto riguarda la funzione sociale del diritto di proprietà (art. 42 Cost., 2° comma).