INDICE SOMMARIO
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Premessa 04
Capitolo primo
Il processo di riforma degli istituti di
protezione: dall’interdizione
all’amministrazione di sostegno
09
1. Introduzione
09
2. La condizione giuridica del sofferente psichico. Il
profilo storico
11
2.1. Premessa
11
2.2. Il sistema “asiliare” della legge n. 36 del 1904
12
2.4. Il cambiamento della condizione sociale del malato di
mente: le leggi n. 180 e 833 del 1978
17
2.5. Le origini di una riforma: la “bozza Cendon”
20
3. L’amministrazione di sostegno 24
3.1. L’introduzione dell’istituto
24
3.2. Il ruolo centrale della persona
27
3.3. La scelta dell’amministratore
33
3.4. Ha ancora senso interdire?
36
Capitolo secondo
L’amministrazione di sostegno: la
responsabilità civile per il danno
cagionato ai terzi
46
1. Premessa 46
2. La capacità del beneficiario 48
3. Imputabilità e capacità d’intendere e di volere 53
5. Chi è il sorvegliante? 63
5.1. La natura della responsabilità e la prova liberatoria
68
6. L’amministratore è un sorvegliante? 72
Capitolo terzo
“Irresponsabilità” o “responsabilità”
dell’incapace?
75
1. Premessa 75
2. Colpevolezza dell’incapace? 77
3. Gli ordinamenti stranieri. Il sistema americano 84
3.1. Il sistema francese
86
4. La proposta italiana 91
5. “Irresponsabilità” o “responsabilità”? 93
Conclusioni 97
Bibliografia 99
Giurisprudenza 111
Siti internet 113
Premessa
L’amministrazione di sostegno, introdotta nel nostro
ordinamento con la legge n. 6 del 2004, è un istituto che ha innovato fortemente la disciplina in materia d’incapacità legale.
La condizione sociale del malato di mente non è sempre stata la stessa, si è passati da una protezione della società civile dal malato ad una protezione del malato stesso all’interno della società, il tutto grazie alla legge n. 180 del 1978, che ha abolito l’istituto del manicomio e ha aperto anche al malato di mente la possibilità di compiere
personalmente attività giuridica quotidiana.
Il cambio di prospettiva, realizzato con la legge n. 180, ha indotto psichiatri e giuristi ad un ripensamento dei trattamenti sanitari e degli istituti giuridici a protezione del soggetto infermo di mente.
Il soggetto infermo di mente, in passato, veniva escluso sia fisicamente - attraverso l’internamento in manicomio - sia
giuridicamente attraverso le pronunce di interdizione e inabilitazione -dalla vita di tutti i giorni: pertanto, la protezione che l’ordinamento stabiliva prescindeva completamente dai bisogni e dalle aspirazioni di questo.
L’amministrazione di sostegno realizza quindi una “rivoluzione copernicana” in materia di incapacità d’agire: al centro della misura di
protezione si trova il malato con tutti i suoi desideri, le sue aspirazioni, i suoi bisogni, i suoi interessi.
L’esclusione cede il passo al sostegno nei confronti del malato, la condizione dell’infermo di mente si avvicina sempre di più alla
condizione delle persone c.d. “normali”.
Il legislatore, nel ridisegnare con la legge del 2004 la nuova condizione del soggetto infermo, non ha però disciplinato alcuni aspetti fondamentali che interessano la sfera giuridica della persona malata di mente.
In materia di illecito extracontrattuale, infatti, è evidente un problema di coordinamento tra l’istituto dell’amministrazione di sostegno e gli artt. 2046 e 2047 del codice civile.
Le norme codicistiche disciplinano la responsabilità civile per il fatto dannoso commesso dall’incapace naturale nei confronti di terzi, prevedendo all’art. 2046 c.c. una irresponsabilità del soggetto incapace d’intendere e di volere ed individuando all’art. 2047, 1° comma, c.c. come responsabile del fatto dannoso colui che è addetto alla
sorveglianza dell’incapace stesso, salvo che il sorvegliante fornisca in giudizio la prova liberatoria di “non aver potuto impedire il fatto”.
In quest’ultima situazione, o laddove non vi sia una persona addetta alla sorveglianza dell’incapace, l’art. 2047, 2° comma, c.c., prevede l’eventualità che il giudice condanni lo stesso incapace alla corresponsione di un’equa indennità in favore della vittima del danno, derogando di fatto all’art. 2046 c.c.
Nel dimostrare il possibile collegamento tra l’amministrazione di sostegno e la responsabilità civile, la prima questione da analizzare consiste dunque nello stabilire se il beneficiario dell’amministrazione di sostegno sia un soggetto capace o meno d’intendere e di volere, per poterlo ritenere o meno imputabile ai sensi dell’art. 2046 c.c.
La capacità d’intendere e di volere è un presupposto e
un’eccezione della capacità legale d’agire; il nostro ordinamento ritiene che, ai fini dell’attività negoziale, rilevi essenzialmente la capacità d’agire, pur consentendo, ai sensi dell’art. 428, 1° comma, c.c. la possibilità di annullamento dell’atto unilaterale da parte dell’incapace stesso se questo ha provocato un <<grave pregiudizio economico>>, e, ai sensi dell’art. 428, 2° comma, c.c., la possibilità di annullamento di un atto bilaterale se oltre al <<grave pregiudizio economico>> vi è anche <<la mala fede>> dell’altro contraente nei confronti
dell’incapace.
Nella responsabilità ex art. 2047 c.c. rileva invece esclusivamente la capacità d’intendere e di volere, pertanto, anche se un soggetto è interdetto o inabilitato a niente rileva tale condizione: il giudice dovrà infatti procedere ad un accertamento caso per caso per verificare le condizioni in cui versava l’agente nel momento in cui ha commesso il fatto dannoso.
Una volta stabilita la capacità o meno d’intendere e di volere del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, la seconda questione da affrontare consiste quindi nello stabilire se l’amministratore di sostegno
risponda a i sensi dell’art. 2047, 1° comma, c.c., in qualità di sorvegliante.
L’amministratore di sostegno tra i compiti che il giudice, attraverso il decreto di nomina gli attribuisce, ha anche il compito di sorvegliare il beneficiario nel compimento di atti che cagionano un danno a terzi?
È ancora corretto deresponsabilizzare l’incapace nel campo dell’illecito extracontrattuale, e lasciare il giudice libero nella sua discrezionalità di condannare o meno l’incapace a corrispondere un’equa indennità nei confronti della vittima del danno?
Una parte della dottrina1, richiamandosi ad alcuni ordinamenti
stranieri, come quello francese e nord-americano, invoca il
superamento degli art. 2046 e 2047 c.c., sostenendo una concezione oggettiva della responsabilità e di conseguenza la responsabilità diretta dell’incapace per il fatto illecito commesso.
Tale forma di responsabilità si collega ad una teoria oggettivistica della colpa, che nel valutare come colposa l’azione del danneggiante incapace ritiene sufficiente riscontrare la realizzazione erronea della condotta, senza indagare sulle condizioni psichiche del soggetto.
In conclusione, l’obiettivo di tale contributo è quello di
dimostrare se in una società evoluta e moderna, come quella attuale, parlare d’incapacità d’intendere e di volere possa essere considerato ancora un privilegio per i soggetti infermi nella commissione di fatti
1 AA.VV., Un altro diritto per il malato di mente, 1988; P. PETRELLI, Questioni aperte in
tema di responsabilità civile, 2005, in L’amministrazione di sostegno: una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, a cura di G. FERRANDO.
dannosi, ovvero se l’introduzione di alcune norme dirette a
responsabilizzare l’incapace - oltre a rappresentare un ribaltamento della concezione della responsabilità civile - possa essere considerata anche una sorta di trattamento terapeutico per il malato stesso in linea ai principi stabiliti dalla legge n. 180 del 19782.
Lo Stato deve occuparsi dei cittadini per ciò che fanno o per ciò che sono? Michel Foucault avrebbe dovuto porre questa domanda ai nostri attuali legislatori.
2 “Negare la responsabilità significa non richiamare l’uomo alla sua responsabilità” affermava
Capitolo 1
Il processo di riforma degli istituti di
protezione: dall’interdizione
all’amministrazione di sostegno
1. Introduzione
L’amministrazione di sostegno è la più importante riforma del diritto dei soggetti c.d. “deboli” che si è avuta negli ultimi anni.
Tuttavia, nell’ambito della responsabilità civile per fatto illecito commesso da questi il legislatore non ha previsto alcuna modifica del precedente assetto normativo.
Parte della dottrina ha ravvisato, pertanto, la necessità di un coordinamento tra la riforma e le norme codicistiche in materia di responsabilità degli incapaci d’intendere e di volere.
Gli artt. 2046 e 2047 c.c. non sono stati modificati dalla legge n. 6 del 2004, nonostante alcuni progetti di legge, i quali auspicavano una modifica di entrambi.
Di fronte ad una modifica delle norme in materia di tutela dei soggetti “deboli” e all’inerzia del legislatore nei riguardi della loro responsabilità per fatto illecito, la questione da risolvere è quella della possibile applicazione analogica degli artt. 2046 e 2047 c.c.
Prima di addivenire a possibili soluzioni è necessario ripercorrere le tappe storiche fondamentali che hanno prodotto una rivalutazione della condizione sociale del malato di mente e soprattutto occorre sottolineare il grande “impatto” che la legge n. 6 ha prodotto in materia di tutela dei soggetti “deboli”.
Il presente capitolo ha come obiettivo, infatti, quello di voler mettere in risalto la novità dell’amministrazione di sostegno in relazione ai precedenti istituti a tutela dei soggetti bisognosi di protezione e di evidenziare come nella realtà tale istituto, oramai, sia diventato il principale strumento di tutela di questi.
Le caratteristiche essenziali dell’amministrazione di sostegno e la sua applicazione giurisprudenziale saranno trattati al fine di dimostrare come la filosofia del legislatore in materia di tutela della persona si sia conformata al rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo e alla dignità di questa.
2. La condizione giuridica del sofferente psichico. Il profilo
storico
2.1. Premessa
Per comprendere l’importanza e la portata innovativa dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto con la legge n. 6 del 2004, è necessario ripercorrere le tappe fondamentali in materia di assistenza psichiatrica.
Il percorso storico, alla luce dei mutamenti culturali e scientifici verificatisi nella scienza psichiatrica, ha indotto il legislatore a predisporre adeguati strumenti giuridici idonei a soddisfare le esigenze dei sofferenti psichici, senza restringere il godimento, da parte di questi, dei diritti fondamentali dell’individuo.
Il susseguirsi di riforme nel campo psichiatrico, insieme alle nuove concezioni della malattia da parte della psichiatria, è il punto di partenza per comprendere la ratio della legge in materia di amministrazione di sostegno e l’importanza che questa ha assunto nel settore della tutela dei disabili.
2.2. Il sistema “asiliare” della legge n. 36 del 1904
La legge n. 36 del 1904, “ Disposizioni sui manicomi e gli alienati.
Custodia e cura degli alienati”, all’art. 1 stabiliva che “debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi”; inoltre secondo l’art. 2,
l’ammissione nel manicomio doveva essere chiesta “ dai parenti, tutori o
protutori” e poteva esserlo “ da chiunque altro nell’interesse degli infermi e della società”.
La finalità di tale legge era dunque quella di assicurare alla collettività una protezione attraverso l’internamento in manicomio e prevenire possibili atti dannosi da parte degli infermi psichici.
Lo strumento principale per proteggere la società era il manicomio: un luogo di emarginazione del malato mentale, simile al carcere, dove il disabile veniva rinchiuso automaticamente in presenza di un’alienazione mentale3.
3 S. PATTI, L’amministrazione di sostegno, 2005, p. 29 dove si afferma che “ il ricovero in
manicomio comportava ad un tempo l’emarginazione fisica del malato dalla società e la sua esclusione da ogni attività giuridica. Finché esistevano i manicomi la persona che vi entrava perdeva i rapporti con il resto del mondo”.
L’obbligatorietà dell’internamento rifletteva le concezioni e i pregiudizi che la società aveva nei confronti dei disturbati mentali; la “follia” era un pericolo per la società e, secondo le concezioni della scienza psichiatrica di fine ‘800 e inizi ‘9004, i disturbi che i malati mentali avevano non erano in
alcun modo guaribili; pertanto si preferiva isolare ed escludere dalla trama dei rapporti sociali e giuridici il malato.
La concomitante azione di custodia con quella terapeutica che il ricovero coatto in manicomio realizzava evidenziava una netta prevalenza della prima rispetto alla seconda, in conformità alle intenzioni “segregative” e “asiliari” dell’epoca5.
La legge del 1904, ispirata ad una legge francese del 1838, stabiliva un sistema “asiliare”, incentrato sia sull’obbligatorietà del trattamento
manicomiale sia sul principio di pericolosità sociale del malato di mente6; la
finalità, pressoché esclusiva, di protezione sociale trovava la sua più evidente manifestazione nel procedimento di ricovero coatto in manicomio.
Inoltre, l’aspetto coercitivo del ricovero si manifestava nell’assenza di limiti temporali alla degenza manicomiale, una volta concluso il periodo di
4 S. PATTI, op. cit., p. 107. Vedi anche G. FERRANDO, G. VISINTINI, Follia e diritto,
2003, p. 245 dove si afferma che: “la legge esprimeva le concezioni e i pregiudizi dell’epoca intorno alla <<follia>> e, attraverso l’organizzazione e la cultura manicomiali, li ha tramandati nel nostro patrimonio culturale ove sono riconoscibili ancora oggi”.
5 P. CENDON, Il prezzo della follia, 1984, p. 80.
6 Il principio di pericolosità sociale del malato di mente era il frutto della “nozione di malattia
psichica elaborata dalla scienza medica dell’ultimo Ottocento ossia l’idea del disturbo mentale come sorta di inspiegabile forma di <<alienazione>> forma imputabile a sua volta ad una colpa più o meno remota dell’individuo, e in ogni caso corrispondente a un processo morboso di carattere organico/funzionale”, P. CENDON, Il prezzo della follia, 1984, p. 80.
osservazione di un mese, con conseguente internamento definitivo e perdita della capacità legale7.
Insieme al manicomio vi era poi tutta una serie di norme giuridiche restrittive dell’autonomia dei soggetti disabili psichici.
L’art. 420 c.c.8 stabiliva che in seguito all’internamento in manicomio
vi erano l’automatico inizio del procedimento di interdizione e la possibilità di nomina di un tutore provvisorio.
L’interdizione dunque si affiancava al ricovero coatto andando a privare in maniera assoluta il malato di mente della capacità legale d’agire9.
Altre norme prevedevano la sospensione del diritto di voto per i ricoverati10, l’obbligo di denunciare, a carico di chi esercita una professione
7 L’ammissione nella struttura manicomiale veniva stabilita in via ordinaria dal pretore, sulla
base di un certificato medico e su richiesta dei parenti, tutore e di “chiunque altro nell’interesse degli infermi e della società”(art. 2. commi 1-2). Più spesso si ricorreva alla procedura di ricovero d’urgenza, delegando quindi all’autorità di pubblica sicurezza il compito di ordinare lo stesso in via provvisoria, dovendo quest’ultima riferire, entro tre giorni, al procuratore del Re (poi della Repubblica). L’estrema facilità con cui si poteva ricorrere a questo
provvedimento e la contemporanea assenza di garanzie per l’individuo spiegano l’abuso che fu fatto di questo strumento. (…) il certificato medico, che legittimava il ricovero, doveva essere redatto in modo dettagliato (…) ma spesso si riduceva ad una indicazione di un generico stato di alterazione psichica, utilizzando, una formula, alquanto vaga, di “agitazione psicomotoria”. (…) dopo un periodo di osservazione di un mese, su indicazione del direttore, poteva scattare il procedimento giudiziario (…) con il conseguente internamento definitivo del paziente e con la perdita della sua capacità d’agire in senso giuridico, La storia dell’amministrazione di sostegno, in www.altrodiritto.unifi.it.
8 L’art. 420 c.c. era così formulato: << Internamento definitivo in manicomio – La nomina del
tutore provvisorio può essere altresì disposta dal tribunale con lo stesso provvedimento col quale autorizza in via definitiva la custodia di una persona inferma di mente in un manicomio o in un altro istituto di cura o in una casa privata. In tal caso, se l’istanza d’interdizione non è stata proposta dalle altre persone indicate nell’art. 417, è proposta dal pubblico ministero>>.
9 R. CATERINA, Le persone fisiche, 2012, p. 48, dove si afferma che: <<la totale incapacità
d’agire degli interdetti ben si armonizzava con il loro normale internamento in manicomio: “una persona che sia rinchiusa entro le mura di un’istituzione totale non stipula contratti importanti, non firma assegni o cambiali, non entra in nessuna associazione, non provoca incidenti stradali, non si sposa e non adotta bambini”. Negli stessi termini, P. CENDON, Profili dell’infermità di mente nel diritto privato, in Un altro diritto per il malato di mente, AA.VV., 1988, p. 29.
sanitaria, “ le persone da loro assistite o esaminate che sono affette da malattie
di mente o da gravi infermità psichiche, le quali dimostrino o diano sospetto di essere pericolose per sé ed agli altri”11, il divieto di tenere e allevare i figli.
Infine, sia per il ricovero sia per le dimissioni, vi era l’annotazione nel casellario giudiziale12.
Le soluzioni che la scienza psichiatrica e il legislatore predisponevano nei riguardi del trattamento del sofferente psichico iniziano però ad essere criticate a partire dagli anni ’60.
2.3. La legge n. 431 del 1968
Nel 1960 vengono ripensate positivamente le concezioni psicoanalitiche di Freud e da parte della psichiatria vi è una rilettura della malattia mentale.
L’intenzione della scienza psichiatrica non è più quella di proteggere la società dal malato di mente, ma è quella di individuare le cause della malattia mentale e offrire le possibili soluzioni per una guarigione.
Al principio di protezione sociale si affianca un principio volontaristico che trova disciplina nella legge n. 431 del 1968, “Provvidenze per l’assistenza
psichiatrica”13, la quale abroga la legge del 1904.
11 Art. 717 c.p. ed art. 153 T.U.L.P.S. 12 Art. 604 c.p.p. del 1930.
13 Per un commento sistematico alla legge n. 431 del 1968 vedere L. BRUSCUGLIA,
Da soggetto irrecuperabile per il quale ordinare in maniera coatta il ricovero in manicomio, il malato di mente diventa un soggetto bisognoso di aiuto e libero di decidere se ricoverarsi o meno.
Il ricovero volontario14 previsto dalla legge del 1968 è un trattamento
terapeutico che si affianca al ricovero obbligatorio, senza sostituirlo, e costituisce la premessa per la nascita di nuove categorie di malati.
Il malato di mente è un soggetto recuperabile alla vita di relazione e la malattia mentale è posta sullo stesso piano delle altre malattie a carattere collettivo.
Il carattere terapeutico dei trattamenti sanitari comincia ad emergere, venendo meno l’aspetto “custodialistico” ed emarginante previsto dalla disciplina precedente.
L’abrogazione dell’annotazione del ricovero e delle dimissioni nel casellario giudiziale elimina anche quell’ulteriore “stigma”15 imposta al malato
di mente.
14 L’art. 4 della legge n. 431 del 1968 stabiliva che: “ L’ammissione in ospedale psichiatrico
può avvenire volontariamente, su richiesta del malato, per accertamento diagnostico e cura, su autorizzazione del medico di guardia. In tali casi non si applicano le norme vigenti per le ammissioni, la degenza e le dimissioni dei ricoverati di autorità”.
2.4. Il cambiamento della condizione sociale del malato di
mente: le leggi n. 180 e n. 833 del 1978
Il dibattito sulla condizione giuridica del malato di mente comincia ad animarsi in seguito alla legge n. 180 del 1978, “ Accertamenti e trattamenti
sanitari volontari e obbligatori”, la quale condanna senza appello l’istituto del
manicomio.
Un contributo significativo alla legge è stato dato dal completamento di quel processo di riforma culturale e scientifica iniziato già a partire dalla legge n. 431 del 1968 e dalla rinnovata concezione della malattia mentale da parte della psichiatria.
L’idea dell’isolamento in manicomio, secondo le nuove concezioni, anziché aiutare il malato aveva l’effetto di acuirne la patologia; inoltre la partecipazione del malato stesso alle relazioni sociali e giuridiche è ritenuta capace di fornire un indubbio effetto terapeutico e psicologico16.
L’attenzione della scienza psichiatrica si sposta verso la cura del disabile, l’integrazione di questo nella società con il compimento di atti di vita quotidiana.
16 S. PATTI, L’amministrazione di sostegno, 2005, p. 28, dove si afferma che “al meccanismo
della custodia-esclusione si sostituisce quello del recupero-inserimento nella società di cui il malato continua a far parte”.
Il mutamento di orientamento della scienza psichiatrica trova la sua affermazione normativa nella legge n. 180 del 1978, nota ai più come “legge Basaglia”, dal nome dello psichiatra Franco Basaglia, che per primo ha adottato nuove metodiche nel trattamento delle malattie mentali17.
La chiusura dei manicomi comporta l’apertura di una serie di servizi psichiatrici dislocati sul territorio e di centri di aiuto mentale; inoltre
l’abrogazione dell’art. 420 c.c. elimina definitivamente l’automatismo alienazione mentale-internamento.
La legge, tuttavia, non procede semplicemente ad una
“deospedalizzazione” del trattamento dell’infermo di mente ma allinea la legislazione ai principi della Costituzione18, in particolar modo al principio di
solidarietà sociale e più in generale al rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo19.
La legge n. 180 confluisce nella riforma del Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N), legge n. 833 del 1978, la quale attua il principio volontaristico contenuto nell’art. 32 Cost.20
17 “Secondo lo studioso la psichiatria tradizionale, responsabile della creazione dei manicomi,
era concentrata soltanto sulle basi organiche della malattia, trascurando l’origine sociale dei disturbi psichici. La psichiatria avrebbe dovuto invece sottolineare l’origine sociale dei disturbi psichici e impegnarsi politicamente per trasformare la società”, in www.salute24.ilsole24.com.
18 “L’attenzione si sposta dalla malattia mentale (vista come “oggetto” a se) al paziente ed alla
sua sofferenza, nonché al suo rapporto con il corpo sociale”, La storia dell’amministrazione di sostegno, www.altrodiritto.unifi.it.
19 S. PATTI, L’amministrazione di sostegno, 2005, p. 108, dove si afferma: <<la “persona”,
l’individuo, i suoi diritti fondamentali, quelli che la nostra Costituzione riconosce all’”uomo”: la dignità, l’uguaglianza, l’autodeterminazione, la libertà, il diritto alla salute anche mentale, non erano presi in adeguata considerazione”.
20 L’art. 32 Cost. stabilisce: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
La ratio di tale principio è consentire al malato la partecipazione a tutte le fasi del trattamento terapeutico; centrale diventa il libero consenso di questi anche nei trattamenti psichici.
Inoltre il rispetto della volontà e della dignità del paziente, assieme alla salvaguardia dei diritti civili e politici, trovano un riconoscimento normativo.
La riforma del S.S.N. realizza anche l’obiettivo di rimettere alla libera autodeterminazione del paziente la scelta del trattamento medico, pertanto l’intervento pubblico diventa un correttivo da attivare in casi estremi, ovvero di fronte a possibili inefficienze della libera iniziativa dei privati21.
Con tale riforma il legislatore effettua una scelta sociale di abbandono del malato di mente a se stesso e alla sua famiglia22.
Il superamento del principio di pericolosità del malato di mente e la fine delle istituzioni totalizzanti assieme al riconoscimento dei diritti fondamentali del malato e della dignità della sua persona sollevano il problema del
coordinamento con gli istituti che il codice civile predispone nei confronti di tali soggetti.
L’eterogeneità delle cause delle malattie mentali veniva risolta con strumenti rigidi e formali23, inadeguati a far fronte alle esigenze concrete del
21 C. CASTRONOVO, La legge 180, la Costituzione e il dopo, in Un altro diritto per il malato
di mente, AA.VV., 1988, p. 192 ss. dove si afferma che: << il passaggio della disciplina relativa alla salute mentale da un versante prevalentemente pubblicistico a uno
prevalentemente privatistico emerge non appena si ponga mente che <<gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari>>(art. 33, l. 833/1978, 1° comma), sono cioè rimessi alla libera determinazione del paziente. (…) la misura pubblicistica è considerata dalla legge quale correttivo, da attivare in casi estremi, delle possibili inefficienze della libera iniziativa: qualcosa di simile a certo intervento pubblico in economia di mercato>>.
22 Ibidem.
23 S. PATTI, op. cit., p. 28: << le malattie mentali esigono un approccio molto sfumato e
soggetto, bisognoso innanzitutto di strumenti di assistenza e di aiuto più che di tutela del suo patrimonio.
Come emerge dalla relazione Cendon , vi era il concreto pericolo “ che
lo stesso tramonto del manicomio, se non si trasformano anche le risposte del codice civile (…) diventi una conquista più apparente che sostanziale, e che tutto il cambiamento si riduca”, alla fine, “ad un semplice passaggio di consegne fra due diverse camicie di forza24”.
2.5. Le origini di una riforma: la “bozza Cendon”
A fronte di una situazione di disturbo psichico il codice civile stabiliva la possibilità di una pronuncia giurisdizionale di interdizione o inabilitazione; tali strumenti di tutela risultavano eccessivamente restrittivi dell’autonomia e delle responsabilità dell’infermo di mente.
Altra caratteristica degli istituti tradizionali era l’attenzione pressoché esclusiva alla tutela del patrimonio del sofferente, della famiglia e dei terzi, quasi senza alcun riferimento alla cura e alle esigenze concrete del malato.
La legge Basaglia, mutando lo status sociale del malato di mente, sollecita il legislatore ad un adeguamento normativo in linea con le mutate condizioni sociali, nell’ottica dell’assistenza personale e di una maggiore responsabilizzazione dell’infermo di mente, superando la logica dell’esclusione
24 P. CENDON, Profili dell’infermità di mente nel diritto privato, in Un altro diritto per il
dal traffico giuridico e dalle relazioni sociali, in virtù di un’integrazione sociale e di una partecipazione il più possibile diretta dello stesso infermo alla vita quotidiana.
Un primo tentativo in tale direzione è il testo finale di un convegno tenutosi a Trieste, nel 1986, coordinato dal prof. Paolo Cendon con la
partecipazione di avvocati, giuristi, professori universitari e psichiatri, i quali contribuirono ad avviare una discussione sulle possibili soluzioni normative da adottare in materia di infermità mentale.
La bozza di legge, denominata “bozza Cendon”, è considerata il testo ispiratore di quella che sarà, a distanza di molti anni, la legge
sull’amministrazione di sostegno.
La finalità di tale testo è quella di introdurre un istituto che sia rivolto essenzialmente alla cura e all’assistenza del malato di mente; “assistenza” e “sostegno” sono i nuovi termini con i quali il legislatore deve confrontarsi.
La bozza criticava l’interdizione come strumento di tutela, perché privava l’infermo di mente della capacità legale d’agire e risultava essere una risposta eccessivamente severa frutto di concezioni ormai superate in
psichiatria, funzionali soprattutto all’interesse dei terzi e dei familiari25.
L’interdizione comprime i diritti fondamentali della persona ed è del tutto sproporzionata alle effettive necessità di salvaguardia del malato di mente26.
25 P. CENDON, Le origini dell’amministrazione di sostegno, in www.personaedanno.it., p.
1395 ss.
26 Le principali caratteristiche dell’interdizione erano: la creazione di un regime denominato
“morte civile” della persona, la mancanza del valore terapeutico di tale misura, l’enfasi solo economica e l’eccessivo costo, la scarsa trasparenza della procedure e la complessità delle revoche e delle modifiche.
La bozza criticava anche l’istituto dell’inabilitazione, lo considerava anch’esso un istituto di stampo patrimoniale e di scarsa utilità, il quale comprimeva al pari dell’interdizione le libertà fondamentali e la capacità di autodeterminazione dell’infermo di mente.
Come affermava lo stesso Cendon, la bozza mirava a colmare “il
grande vuoto27” del sistema italiano in materia di trattamento della persona
bisognosa di protezione; si auspicava infatti, l’introduzione di un istituto elastico e flessibile che comprimesse al minimo i diritti e le possibilità d’iniziativa del disabile.
L’istituto avrebbe dovuto estendersi anche a tutta una serie di soggetti cosiddetti borderline non riconducibili all’art. 415 c.c. e per i quali l’istituto dell’interdizione appariva troppo severo.
Un’altra critica contenuta nella bozza era il rischio dell’ “effetto
ingessamento” il quale poteva verificarsi a causa dell’“eccessiva ampiezza con
cui è ammessa l’annullabilità degli atti, con la possibilità che il tutto si traduca in un ulteriore fonte di discriminazione sociale per la persona protetta”28.
Importanti erano anche le modifiche al codice civile: si proponeva di modificare il Titolo XII del Libro I c.c., “ Delle misure di protezione dei
maggiorenni disabili”, si introduceva il Capo I, “ Dell’amministrazione di sostegno”, contenente gli artt. dal 404 al 413; il Capo II, “Dell’interdizione e inabilitazione”, dagli artt. 414 a 432, veniva parzialmente modificato; infine
27 P. CENDON, op. ult. cit., p. 1396.
l’art. 428 c.c. veniva abrogato, anche se il suo contenuto veniva ripreso e in parte modificato dall’art. 432 bis c.c., inserito nel Capo III, “Dell’incapacità
d’intendere e di volere”.
Oltre alle modifiche formali, la bozza conteneva anche un cambio di filosofia: l’introduzione di un istituto rivolto alla protezione delle persone “in difficoltà” era previsto come un modello generale per la soluzione dei problemi civilistico-patrimoniali di tutta una serie di soggetti indicati all’art. 12 della bozza29, a titolo esemplificativo malati mentali, lungodegenti, alcoolisti, e
“chiunque abbia bisogno di essere protetto nel compimento degli atti di vita
civile”30.
La capacità d’agire del beneficiario veniva ridotta e attenuata in
relazione ad alcuni atti che il giudice tutelare riteneva meritevoli di assistenza o rappresentanza da parte dell’amministratore, per il resto era mantenuta in capo al destinatario della misura protettiva.
Nella relazione che accompagnava la bozza si stabiliva che, oltre a individuare analiticamente i poteri dell’amministratore, il giudice nominava l’amministratore, stabiliva la durata del suo incarico e gli atti per i quali era necessaria un’autorizzazione giurisdizionale.
Il nuovo istituto disciplinato dalla bozza non sostituiva però gli istituti tradizionali, bensì si affiancava a questi, lasciando loro uno spazio residuo di applicazione.
29 L’art. 12 della bozza era così formulato: << Destinatari del provvedimento di
amministrazione di sostegno – Può beneficiare dell’amministrazione di sostegno il
maggiorenne che, per effetto di un disturbo fisico o mentale, ha bisogno di essere protetto nel compimento degli atti di vita civile.
Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno conserva la capacità nell’esercizio dei propri diritti, salvo per quanto si riferisce agli atti indicati nell’art. 411>>.
L’interdizione avrebbe dovuto, secondo le prime interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali, essere applicata nelle situazioni più gravi e irrecuperabili; l’applicazione dell’inabilitazione avrebbe riguardato solamente i casi di prodigalità, risultando ormai un istituto desueto e inutile; sarebbe rimasta la compatibilità con l’incapacità di intendere e di volere, mentre sarebbe caduta la presunzione di irresponsabilità dei soggetti incapaci naturali in materia di fatti illeciti, con la possibilità che il giudice in via equitativa riducesse l’obbligo di risarcimento del danno.
In seguito alla bozza numerosi furono i disegni di legge presentati in Parlamento con i quali si delineavano le principali caratteristiche che oggi contraddistinguono l’amministrazione di sostegno; tuttavia è solo a partire dal 2004, con l’approvazione della legge n. 6, che anche l’ordinamento italiano, in linea con le altre esperienze straniere, vedrà l’introduzione
dell’amministrazione di sostegno.
3. L’amministrazione di sostegno
3.1. L’introduzione dell’istituto
Con l’approvazione della legge n. 6 del 2004 il legislatore disciplina l’amministrazione di sostegno, introducendo un istituto a tutela dei disabili
flessibile ed elastico e modificando, senza sostituirli, gli istituti tradizionali dell’interdizione e inabilitazione.
L’introduzione di questo istituto ha comportato una rivalutazione della persona “diversa”; questa viene riconosciuta a pieno titolo un soggetto al pari degli altri.
Se è vero che l’ordinamento ha da sempre mostrato una certa attenzione in materia di tutela dei soggetti “deboli”31, prevedendo istituti volti a
proteggere il soggetto da eventuali pregiudizi derivanti dal compimento di atti giuridici, i rimedi offerti apparivano troppo rigidi e severi in quanto la
situazione di incapacità d’agire, assoluta o relativa, in cui versava l’infermo di mente, lo rendeva totalmente privo di quella autonomia necessaria per
soddisfare le normali esigenze di vita quotidiana32.
L’interdizione produceva la “morte civile”33 del soggetto e trovava “una sua logica in una società che relegava in istituzioni chiuse manicomiali i deboli mentali e i sofferenti psichici”34.
L’inabilitazione era di fatto limitata ai soli casi di prodigalità e abuso abituale di alcol e sostanze stupefacenti.
31 I soggetti “deboli” sono “coloro che siano privi in tutto o in parte di autonomia
nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana”, in M. PALADINI, Amministrazione di sostegno e interdizione giudiziale: profili sistematici e funzionalità della protezione alle caratteristiche relazionali tra il soggetto debole e il mondo esterno, estratto dalla Riv. Dir. civ., 2005, p. 586.
32 V. ROPPO, Diritto privato, IV, 2014, p. 141, dove si afferma che “la protezione deve essere
forte ed efficace, ma non soffocante: deve impedire al soggetto di danneggiarsi da solo, ma deve lasciargli spazi di libertà compatibili con il suo stato”.
33 M. DOSSETTI, M. MORETTI, C. MORETTI, L’amministrazione di sostegno e la nuova
disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, 2004, p. 115.
L’amministrazione di sostegno realizza quella che da alcuni autori è stata denominata la “rivoluzione copernicana”35 in materia di trattamento della
persona bisognosa di protezione; ribaltando completamente il rapporto capacità-incapacità d’agire e ponendo fine all’equazione infermità di mente-incapacità d’agire.
Da una situazione generale d’incapacità d’agire si passa ad una situazione generale di capacità, “dove si stagliano alcune isole, più o meno
vaste, relative agli atti che l’interessato non può compiere o che non può compiere da solo”36.
Lo Stato, alla luce delle trasformazioni e dell’evoluzione della società, introduce “un progetto di sostegno esistenziale, nell’ambito del quale le
problematiche di tipo patrimoniale, pur rilevanti, non rappresentano l’unico aspetto possibile della vicenda umana, essendo invece altrettanto importante la cura e l’assistenza della persona”37.
Se con gli istituti tradizionali l’attenzione del legislatore era pressoché rivolta alla tutela del patrimonio, all’indomani della legge del 2004 la persona diventa il centro d’interessi da proteggere dinanzi a qualsiasi tipo di
pregiudizio.
La protezione che interdizione e inabilitazione assicuravano alla famiglia e alla società nei riguardi degli atti compiuti dall’infermo di mente
35 M. SOLDANI, L’amministrazione di sostegno tra capacità e incapacità, in
L’amministrazione di sostegno: applicazioni pratiche e giurisprudenza, a cura di A. BORTOLUZZI, 2005, p. 30.
36 G. FERRANDO, Il beneficiario, in L’amministrazione di sostegno, a cura di S. PATTI,
2005, p. 31.
37 P. CALABRO’, Il nuovo rapporto tra amministrazione di sostegno e interdizione, 2008, p. 1
diviene protezione e valorizzazione del disabile, soprattutto in riferimento ai suoi interessi personali.
La legge del 2004 nasce, dunque, al fine di promuovere la dignità e i diritti fondamentali della persona; attribuisce un ruolo preminente alla volontà del soggetto e alla sua capacità di autodeterminarsi e si adegua ad una nuova concezione della disabilità.
La disabilità non è più vista nell’ottica della impossibilità, e quindi ragione di esclusione, ma nella ricerca delle potenzialità residue della persona38.
3.2. Il ruolo centrale della persona
Nell’esaminare le caratteristiche essenziali dell’istituto
dell’amministrazione di sostegno, è necessario soffermarsi sul ruolo centrale che la persona interessata dal provvedimento ha assunto alla stregua dei principi costituzionali.
I soggetti beneficiari dell’amministrazione di sostegno sono individuati all’art. 404 c.c.39, il quale ricomprende non solo gli infermi mentali, ovvero
coloro che non sono in grado di cogliere appieno il significato e il valore delle
38 M. DOSSETTI, M. MORETTI, C. MORETTI, op. cit., p. 157.
39 L’art. 404 c.c. stabilisce che: “La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una
menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio”.
azioni compiute, ma anche coloro che si trovino di fronte ad un’impossibilità di natura fisica o psichica tale da non consentire loro di provvedere alla cura dei propri interessi.
È necessario in primo luogo soffermarsi sulle cause che possono dar luogo all’applicazione di tale provvedimento.
Le cause del provvedimento di amministrazione di sostegno sono qualsiasi “forma di patologia, più o meno grave, quale ne sia la causa di
natura fisica o psichica”40.
Con il termine patologia si fa riferimento a qualsiasi alienazione mentale, disturbo psichico o labilità psichica anche temporanea che non consenta al soggetto di provvedere al soddisfacimento dei propri interessi di natura personale o patrimoniale.
Il riferimento, invece, alla natura fisica o psichica solleva il problema di quelle forme di patologia meramente fisiche che non comportano
un’alterazione della lucidità mentale del soggetto.
Infatti, procedendo ad una lettura testuale dell’art. 404 c.c., sembrerebbe che anche semplici impedimenti fisici, come ad esempio i problemi di deambulazione, siano sufficienti per un provvedimento di amministrazione.
La dottrina, in realtà, ha sottolineato come l’infermità o la
menomazione fisica è causa di impedimenti di fatto del disabile nella cura dei propri interessi; tuttavia se l’infermità rimane circoscritta esclusivamente ad una perdita di abilità fisica, l’applicazione dell’amministrazione di sostegno, oltre che sovrabbondante, rischia di essere eccessivamente penalizzante per il
soggetto, in quanto la sua capacità d’agire sarebbe limitata nonostante la pienezza delle facoltà mentali41.
In definitiva, affinché le patologie di natura fisica giustifichino il provvedimento di amministrazione di sostegno, è necessario che tali patologie “si traducano in incertezze o timore di fare scelte”42, ovvero siano a tutti gli
effetti considerate al pari di un disagio “che può impedire una corretta
gestione della propria sfera di esigenze”43.
La generalità dei presupposti per l’applicazione dell’istituto del 2004 consente, da un lato, l’estensione di tale istituto a soggetti che presentano un’infermità mentale lieve o grave e dall’altro lato un’applicazione anche a soggetti capaci d’intendere e di volere.
I principi ispiratori che contraddistinguono l’amministrazione di sostegno sono:
Flessibilità Proporzionalità
La flessibilità consiste nella previsione da parte del giudice tutelare dei compiti e dei poteri dell’amministratore.
41 M. DOSSETTI, M. MORETTI, C. MORETTI, op. cit., p. 28 dove si afferma che: “se
l’infermità o la menomazione fisica causano debolezza e insicurezza, che si traducono in incertezza o timore di fare scelte, si è di fronte ad un disagio, che può impedire una corretta gestione della propria sfera di esigenze, e che può integrare una forma di <<impossibilità parziale>> a provvedere ai propri interessi, …”, “se invece la menomazione o l’infermità incidono esclusivamente sulle abilità fisiche della persona, ossia sulla possibilità di occuparsi materialmente di quanto la riguarda e compiere gli atti relativi, la nomina di un amministratore di sostegno appare non solo sovrabbondante, ma anche contraddittoria, poiché comunque comporterebbe una formale e duratura limitazione della capacità di un soggetto, anche se eventualmente ben circoscritta, quando non ve ne sono i presupposti, in contrasto con lo stesso art. 1, legge n. 6/2004, che impone la <<minore limitazione possibile della capacità>>.
42 Ibidem. 43 Ibidem.
La scelta dei poteri e dei compiti che individuano “l’oggetto dell’amministrazione” non viene effettuata a priori dal legislatore ma dal giudice in relazione alle concrete esigenze del soggetto beneficiario.
La proporzionalità consiste, invece, nel commisurare i poteri che l’amministratore ha, e di conseguenza la riduzione di capacità d’agire, alle effettive necessità del beneficiario44.
La flessibilità e la proporzionalità sono però corollari di un principio più generale: il principio di autodeterminazione del beneficiario
dell’amministrazione di sostegno.
Il ruolo della volontà del soggetto e la sua partecipazione attiva alla misura di protezione sono il risultato tangibile sia del riconoscimento della personalità del disabile sia del suo completo inserimento nella società.
L’art. 408, 2° comma, c.c.45 consente al soggetto di autoregolarsi in
vista di una futura situazione d’incapacità e di indicare in via preferenziale quale sarà la persona che andrà a ricoprire l’incarico di amministratore.
L’art. 410, 2° comma, c.c.46 disciplina i c.d. “doveri d’informazione”
che intercorrono tra amministratore e beneficiario nel compimento di tutti gli atti, in modo tale da consentire la partecipazione dello stesso interessato in relazione alla sua capacità di discernimento.
44 G. FERRANDO, op. cit., p. 37.
45 L’art. 408, 2° comma, c.c. afferma che: “ L’amministratore di sostegno può essere designato
dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata”.
46 L’art. 410, 2° comma, c.c., stabilisce che: “l’amministratore di sostegno deve
tempestivamente informare il beneficiario circa gli atti da compiere nonché il giudice tutelare in caso di dissenso con il beneficiario stesso”.
L’art. 409, 1° comma, c.c.47 considera il beneficiario capace d’agire per
tutti quegli atti non limitati dal giudice nel decreto, per i quali è richiesta la rappresentanza o l’assistenza dell’amministratore.
Infine, l’art. 409, 2° comma, c.c.48 attribuisce al beneficiario la capacità
di compiere gli atti necessari a soddisfare le normali esigenze della vita
quotidiana; tale capacità “rappresenta anche l’esplicazione della personalità di
un individuo, e <<prova>>,(…), della sua appartenenza al consorzio sociale”49.
Le suindicate norme rappresentano la massima espressione dell’attuazione del principio di autodeterminazione del beneficiario.
La centralità della persona è messa in risalto anche da quella che viene denominata la “funzione promozionale”50 del diritto.
L’art. 410, 1° comma, c.c. infatti stabilisce che: “Nello svolgimento dei
suoi compiti l’amministratore deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario”.
L’interessato, dunque, non viene considerato un riferimento astratto al quale applicare in via meramente formale tutta una serie di norme limitative, più o meno, della capacità d’agire, ma viene considerato una persona a pieno titolo, “con una sua personalità, con una storia e un bagaglio di esperienze
47 L’art. 409, 1° comma, c.c., stabilisce che: “il beneficiario conserva la capacità d’agire per
tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministrazione di sostegno”.
48 L’art. 409, 2° comma, c.c., stabilisce che: “il beneficiario dell’amministrazione di sostegno
può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”.
49 M. DOSSETTI, M. MORETTI, C. MORETTI, op. cit., p. 78. 50 M. DOSSETTI, M. MORETTI, C. MORETTI, op. cit., p. 82.
alle spalle, che proprio per questo può essere aiutata ad attivare le sue potenzialità residue: in sintesi con un passato da valorizzare e ancora con un futuro”51.
In conseguenza di ciò, la funzione promozionale si manifesta nel compito educativo che la legge volge nei confronti del disabile e nella promozione di nuovi comportamenti e nuove mentalità che devono investire tutto il corpo sociale.
Alla luce delle considerazioni fin qui esaminate è possibile affermare che la “rivoluzione copernicana” è compiuta: così come Copernico nella teoria eliocentrica affermava la centralità del Sole nell’universo, rigettando la teoria geocentrica, che, invece, collocava la Terra al centro di questo; in materia di tutela dei soggetti “deboli”, la centralità della figura del beneficiario, inteso come persona da proteggere e assistere, sostituisce una nuova visione alla precedente dove al centro del sistema vi era semplicemente il patrimonio e la protezione di questo nei confronti dei terzi.
3.3. La scelta dell’amministratore
Un’altra norma fondamentale della riforma del 2004 è l’art. 405 c.c.52,
laddove si fa riferimento al procedimento attraverso il quale il giudice tutelare nomina l’amministratore e delinea i poteri di questo.
Attraverso la scelta e i poteri attribuiti all’amministratore è possibile ricavare anche le caratteristiche e le generalità del beneficiario del
provvedimento, in quanto la tutela che l’amministrazione di sostegno offre è specifica e modellata in relazione alle caratteristiche dell’interessato.
Già l’art. 1853 della bozza Cendon faceva riferimento al decreto con il
quale viene scelto l’amministratore ed i poteri che questo ha nell’esercizio della misura protettiva, stabilendo le caratteristiche di analiticità e la necessità dell’autorizzazione giurisdizionale con riferimento agli atti di straordinaria amministrazione.
L’art. 405, 5° comma, n. 3-4, c.c., mantiene le caratteristiche della bozza, eliminando, tuttavia, il riferimento all’autorizzazione giurisdizionale per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione.
52 Nell’art. 405 c.c. è disciplinato il procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, in
particolar modo è importante sottolineare come al quinto comma, numeri 3 e 4 si stabilisca che il decreto di nomina deve contenere “ l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario” e “gli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno”.
53 L’art. 18 della bozza Cendon stabiliva che: “ Poteri dell’amministratore – Il giudice,
nell’emettere il decreto di amministrazione di sostegno, stabilisce quali sono gli atti relativi al patrimonio del beneficiario che l’amministratore ha il potere di compiere in nome di
quest’ultimo. Può disporre altresì che determinati atti debbano essere compiuti dal beneficiario con l’assistenza dell’amministratore. Salvo che il giudice non disponga diversamente, gli atti di straordinaria amministrazione che rientrano tra quelli indicati nel 1° comma del presente articolo non possono essere compiuti dall’amministratore senza l’autorizzazione del giudice tutelare. In mancanza, tali atti possono essere annullati su istanza dell’amministratore o del beneficiario o dei suoi eredi o aventi causa. L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui l’atto è stato compiuto”.
L’amministrazione di sostegno, dunque, è un “contenitore, suscettibile
di essere riempito con gli aspetti organizzativi più svariati, non più indicati genericamente in atti di ordinaria e straordinaria amministrazione”54.
La scelta dell’amministratore e la contemporanea individuazione dei suoi compiti si coordina con l’art. 410, 2° comma, c.c., con l’art. 408, 2° comma, c.c.(i quali si riferiscono alla capacità di autodeterminazione del beneficiario) e con l’art. 44. delle “Disposizioni di coordinamento e transitorie
al c.c.”, il quale stabilisce che: “il giudice tutelare può convocare in qualunque momento (…) l’amministratore di sostegno allo scopo di chiedere
informazioni, chiarimenti e notizie sulla gestione (…) dell’amministrazione di sostegno, e dare istruzioni inerenti agli interessi morali e patrimoniali (…) del beneficiario”.
Il coordinamento delle suindicate norme è espressione di nuovo della centralità della persona e della sua concreta realizzazione, al di là di aspetti, meramente patrimoniali.
La scelta dell’amministratore, in ogni caso, deve avvenire con esclusivo riguardo alle esigenze e alle aspirazioni dell’interessato.
Con riferimento ai poteri che l’amministratore ha nell’esercizio delle sue mansioni, in dottrina si è discusso circa il potere del giudice tutelare di attribuire compiti di natura meramente patrimoniale o anche personale.
Il giudice nel delineare i poteri dell’amministratore non deve far
riferimento esclusivamente agli atti di natura patrimoniale, poiché la cura della persona è un aspetto importante dell’istituto; allo stesso modo non potrà però
54 L. MILONE, Il beneficiario, il giudice tutelare, l’amministratore di sostegno: le relazioni, in
escludere totalmente l’aspetto patrimoniale, in quanto questo continua a svolgere un ruolo essenziale all’interno della misura protettiva.
Sempre con riferimento ai rapporti tra amministratore e beneficiario, la collaborazione tra i due soggetti deve perdurare per tutta la durata del
provvedimento, infatti nella relazione annuale che l’amministratore invia al giudice tutelare, al di là delle informazioni relative alla gestione patrimoniale, un ruolo principale viene assunto dalle difficoltà incontrate nella gestione e dai rapporti con l’amministrato.
In conclusione anche la scelta dell’amministratore è direttamente collegata alle caratteristiche e necessità concrete del beneficiario, infatti “la
grande novità della figura dell’amministrazione di sostegno (…) è senz’altro da condividere, in quanto tende a graduare la tutela della persona a misura d’uomo, cioè nei limiti in cui effettivamente la persona ha bisogno di essere protetta attraverso una forma giuridica che la metta al riparo dai pregiudizi dei suoi stessi atti e che al tempo stesso, le consenta di realizzare le
aspirazioni e i bisogni della propria vita”55.
3.4. Ha ancora senso interdire?
55 C. M. BIANCA, Premessa, in L’amministrazione di sostegno, a cura di S. PATTI, 2005, p.
Ogni riforma deve misurarsi con l’applicazione da parte della giurisprudenza; solo così si può comprendere l’effettiva portata dei suoi contenuti.
Il legislatore del 2004, di fronte alla possibilità di abrogare gli istituti tradizionali e creare un nuovo strumento di protezione dei soggetti “deboli”, il quale andasse a disciplinare tutte le situazioni di disturbo psichico del soggetto, ha deciso di non scegliere, limitandosi ad aggiungere tale misura alle altre e a modificare queste ultime.
L’inerzia del legislatore ha attribuito alla giurisprudenza il compito di definire il ruolo centrale o residuo dell’amministrazione di sostegno, in altre parole il giudice si trova di fronte ad un bivio: applicare l’amministrazione di sostegno nei casi in cui difettino i presupposti dell’interdizione e
dell’inabilitazione, oppure applicare in via generale l’amministrazione di sostegno e in via residuale gli altri istituti.
Nonostante la mancata scelta del legislatore, è possibile, attraverso un’interpretazione sistematica delle norme in materia di amministrazione di sostegno, notare come la generalità dei presupposti (alla stregua dell’art. 404 c.c., della modifica della rubrica dell’art. 414 c.c.56, con il venir meno
dell’automaticità dell’interdizione in presenza di un’infermità mentale grave e abituale e con l’introduzione del criterio dell’adeguata protezione necessario per il provvedimento di interdizione57) siano indici di una trasversalità delle
56 La rubrica del vecchio art. 414 c.c. era: “ Persone che devono essere interdette”, mentre
l’attuale rubrica del medesimo articolo è “ Persone che possono essere interdette”.
57 L’art. 414 c.c. stabilisce che: “ Il maggiore d’età e il minore emancipato, i quali si trovano in
condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione”.
misure protettive e di una tendenza a ritenere l’amministrazione di sostegno una tutela a carattere generale.
La possibile coincidenza dei tre istituti ha sollevato, in dottrina e in giurisprudenza, un dibattito circa il criterio da utilizzare al fine di stabilire quale sia la misura di protezione più idonea nei confronti del soggetto infermo di mente.
Nei primi anni dall’approvazione della legge n. 6, la giurisprudenza di merito ha adottato un criterio “quantitativo” basato sulla gravità dell’infermità di mente; i giudici di merito, in presenza di un’infermità di mente grave, abituale e irreversibile propendevano per l’interdizione, viceversa, in presenza di disturbi mentali lievi e recuperabili, l’amministrazione di sostegno era considerato l’istituto più idoneo.
Il Tribunale di Torino in una pronuncia del 2004 stabiliva che: “Il
destinatario del provvedimento di amministrazione di sostegno deve mantenere quanto meno in misura ridotta una propria autonomia e capacità: la Legge n. 6/04 riferendosi ai soggetti privi in tutto o in parte di autonomia
nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, presuppone non già un’incapacità, bensì un’impossibilità dei beneficiari di provvedere ai propri interessi(art. 404 c.c.) da cui di desume che il legislatore abbia avuto a mente fattispecie di impedimento a provvedere ai propri interessi non coincidenti con l’incapacità posta a fondamento dell’interdizione, e abbia quindi disciplinato interventi di sostegno alla persona e non di integrale sostituzione alla stessa (…)”58.
58 Trib. Torino 22.05.04, in Foro.it, 2004, fasc. 10, 8. Dello stesso avviso anche Trib. Roma
18.11.04, in Juris Data 2.05, dove si afferma il principio che “anche l’amministrazione di sostegno presuppone una residua capacità naturale che consenta di compiere autonomamente
Il criterio “quantitativo”, però, era criticato da una parte della dottrina e della giurisprudenza in quanto non rispettoso delle finalità della riforma del 2004 e di quella valorizzazione che la persona disabile aveva ottenuto.
Inoltre, sia l’art. 404 c.c. sia l’art. 427, 1° comma, c.c.59, modificato
dalla riforma, il quale nel disciplinare gli effetti dell’interdizione, esclude l’incapace d’agire dal compimento di qualsiasi atto di natura patrimoniale, ad eccezione di quegli atti di ordinaria amministrazione autorizzati dal giudice con sentenza d’interdizione o provvedimento successivo, non lasciavano
intravedere una prevalenza dell’interdizione nonostante la presenza di un’infermità grave e abituale60.
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza ha adottato in passato un criterio basato sulla consistenza e complessità del patrimonio, sostenendo l’applicabilità dell’amministrazione di sostegno tutte le volte in cui la gestione del patrimonio fosse particolarmente complessa; viceversa, nel caso di gestioni
quantomeno gli atti necessari al soddisfacimento delle esigenze di vita quotidiana; di conseguenza l’assoluta incapacità di provvedere autonomamente alle proprie necessità per totale incapacità d’intendere e di volere dovuta ad abituale infermità compromettente le facoltà mentali rende necessaria l’adozione di un provvedimento d’interdizione”.
59 L’art. 427, 1° comma, c.c. stabilisce che: “ nella sentenza che pronuncia l’interdizione o
l’inabilitazione, o in successivi provvedimenti dell’autorità giudiziaria, può stabilirsi che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento ovvero con l’assistenza del tutore, o che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore”.
60 La stessa giurisprudenza di merito in alcune pronunce evidenziava già il ruolo residuale
dell’interdizione, vedi ad esempio Trib. Modena 15.11.04, in Juris Data 2.05., dove si affermava che: “dopo la costituzione della figura dell’amministratore di sostegno,
l’interdizione della persona inferma di mente è divenuta facoltativa e va adottata da parte del giudice solo quando è necessario per assicurare la adeguata protezione dell’infermo di mente, quale rimedio meramente residuale, limitato ai casi in cui l’amministrazione di sostegno delle persone non in grado di provvedere ai propri interessi sia inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario”. Negli stessi termini Trib. Messina 14.09.04.
In Trib. Venezia 13 ottobre 2005, cit.: “La pericolosità della persona non può di per sé essere ritenuta causa di esclusione aprioristica dalla possibilità di utilizzazione preferenziale dell’amministrazione di sostegno anziché dell’interdizione”.
complesse e problematiche l’interdizione, nata come strumento di tutela patrimoniale, risultava la tutela più idonea61.
Il criterio patrimoniale aveva il pregio dell’“oggettività” e della facilità di accertamento da parte dei giudici; il problema, tuttavia, è che la condizione patrimoniale svolgeva il ruolo di criterio discriminante in riferimento anche ai c.d. atti personali62.
L’esclusione dal compimento di tali atti personali, travolti dalla condizione patrimoniale, risultava contraria al principio di uguaglianza sostanziale63.
In alcune decisioni più recenti, la giurisprudenza ha optato per un criterio fondamentalmente basato sulla pregiudizialità della conservazione della capacità d’agire in capo al disabile.
La scelta tra le varie misure protettive, secondo tale orientamento giurisprudenziale, si fonda sui diversi effetti che le due misure comportano nei riguardi del disabile; l’interdizione, anche a seguito delle modifiche
intervenute, considera sempre il disabile incapace d’agire, mentre
61 Secondo parte della dottrina “di fronte ad una situazione patrimoniale particolarmente
florida, e che richieda una gestione svolgentesi in una molteplicità di direzioni (beni immobili, titoli obbligazionari, partecipazioni sociali) lo strumento di tutela più adeguato resterebbe l’interdizione”, R. CATERINA, Le persone fisiche, 2012, p. 55.
Il criterio della consistenza del patrimonio è stato utilizzato anche in giurisprudenza, vedi ad esempio Trib. Roma 10.2.05, dove tra i motivi dell’applicazione dell’amministrazione di sostegno vi è l’attività di gestione del patrimonio poco complessa.
62 In breve per quanto attiene il compimento degli atti personali, l’incapace d’agire a seguito
della sentenza di interdizione veniva escluso dal compimento di questi e con lui anche il suo rappresentante, viceversa, a seguito del provvedimento di amministrazione di sostegno, il beneficiario capace d’agire era legittimato a compiere tali atti, i quali erano in linea alla valorizzazione e al riconoscimento del disabile come persona “normale”.
63 La situazione che si veniva a creare era la seguente: di fronte a condizioni patrimoniali
particolarmente floride il soggetto veniva interdetto ed escluso dalla possibilità, ad esempio di contrarre matrimonio, viceversa, in situazioni opposte l’amministrazione di sostegno non comportava tale esclusione.
l’amministrazione di sostegno parte dal presupposto che il disabile sia sempre capace.
In conseguenza di tali effetti, se la conservazione della capacità d’agire del disabile comporta il rischio che questi sia sottoposto al compimento di una serie di atti a sé pregiudizievoli, la misura protettiva più idonea è senz’alcun dubbio l’interdizione, che dunque diventa una sorta di protezione “passiva” dell’incapace; viceversa, quando l’attività giuridica residua è minima il giudice opta per l’amministrazione di sostegno, rappresentata come una misura
“attiva”, diretta al compimento di tutta una serie di atti individuati dal giudice tutelare.
Il criterio discretivo dei vari istituti dunque è la pericolosità dei danni derivante dal mantenimento della capacità d’agire residuale nel disabile64.
Constatata la molteplicità dei criteri adottati dalla dottrina e dalla giurisprudenza e il problema della delimitazione dei confini tra le varie misure protettive, occorre soffermarsi sulla soluzione fornita dalla Corte
Costituzionale, con la sent. 440 del 2005, in quanto chiarisce la portata effettiva dei vari istituti a tutela dei soggetti c.d. “deboli”.
La Corte Cost. afferma due principi fondamentali:
il principio di gradualità degli istituti di protezione
64 U. ROMA, Commento alla sent. N. 440/2005 della Corte Cost., in N.G.C.C., p. 875,dove si
afferma: “in altri termini, l’ablazione totale o puntuale della capacità di agire non può fondarsi unicamente ( e quasi automaticamente) sulla constatazione della totale compromissione delle facoltà mentali e della titolarità, in capo al disabile, di un complesso patrimoniale più o meno esteso, ma deve conseguire all’accertamento in concreto della <<pericolosità>> che
comporterebbe la conservazione della capacità legale”.
Dello stesso avviso Trib. Pinerolo, 4.11.2004.: “Poiché al centro dell’istituto
dell’amministrazione di sostegno vi sono i bisogni e le aspirazioni della persona (…) nonché le esigenze di protezione della medesima (…), può affermarsi che il beneficiario
dell’amministrazione di sostegno, ove abbia perso la naturale capacità d’intendere e di volere, può sempre conservare la capacità legale d’agire per tutti gli atti il cui compimento, non essendo in concreto attuabile e prospettabile, non può neppure essere pregiudizievole”.
il principio di residualità dell’interdizione e dell’inabilitazione La gradualità delle misure a tutela degli incapaci è rinvenibile
direttamente negli artt. 404, 414 e 415 c.c.
I presupposti ampi e generali dell’amministrazione di sostegno, uniti alla facoltatività dell’interdizione e all’introduzione del criterio dell’adeguata protezione, sono indici della generalità dell’applicazione dell’amministrazione di sostegno anche in presenza di un’infermità di mente grave e abituale65.
La trasversalità sulla quale si collocano le misure protettive deve essere in qualche misura regolata dai giudici e graduata in riferimento alle finalità della legge del 200466, in particolar modo alla dignità e ai diritti fondamentali
della persona.
La gradualità tra interdizione e inabilitazione invece era già prevista all’art. 415 c.c.67, e la giurisprudenza di legittimità ha chiarito la portata
applicativa delle due misure.
La Cassazione con varie sentenze ha ritenuto che l’inabilitazione è uno strumento da applicare sia nei casi in cui il disabile, in presenza di una
65 In linea alle valutazioni della Corte Cost., vedere Cass. 29.11.06, n. 25366, in Giur. it., 2007,
che riporta il principio della Cass. 12.06.06., n. 13584, ovvero che “il nuovo istituto ha la finalità di offrire a chi si trovi nell’impossibilità, anche parziale e temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minore misura possibile la capacità d’agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti di protezione, quali appunto l’interdizione e la inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla l. n. 6 del 2004. Rispetto a tali istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno” … “va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado d’infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa”.
66 L’art. 1 della legge n. 6/04 stabilisce: “la finalità di tutelare, con la minore limitazione
possibile della capacità d’agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”.
67 L’art. 415 c.c. stabilisce al primo comma che: “il maggiore d’età infermo di mente, lo stato