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ANALISI DI ALCUNI PROCESSI DI MERETRICI E DI STREGHE FRA CINQUE E SEICENTO AL SANT’UFFIZIO DI PISA.

Il processo contro Clarice – primo dei processi di cui trattiamo – prese avvio il 16 ottobre 1581, quando Alessandra del fu Antonio da Pisa si rivolse a frate Felice da Pistoia, notaio dell’inquisitore, riportandogli che Clarice da Pontedera, come le aveva riferito Caterina del Libraio circa quattro o cinque anni prima presso l’ospedale degli Innocenti, compiva incantesimi e malie. Infatti, negli atti del processo è scritto: «Die 16 mensis Octobris 1582. Alexandra filia quondam Antonii de Pisis personaliter comparuit coram fratre Felice de Pistorio in ecclesia Divi Francisci civitatis Pisarum»7, di fronte all’inquisitore Alessandra confessò: «Padre, per scarico della mia coscientia vi dico che donna Clarice dal Pont’ad Hera ha fatto mallie et incanti et credo che ancora ne faccia, et ciò lo so perché me lo disse di già credo siano intorno a quattro anni circa o cinque donna Catterina del Librario nello spedale delli Bastardelli; ed secondo lei mi disse la li crede»8.

Il procedimento iniziato dal Sant’Uffizio non mosse, dunque, da un’inquisitio, ma da una delazione. I tempi della macchina giudiziaria del Tribunale furono abbastanza rapidi, poiché, il 1° novembre di quell’anno, si procedette all’escussione del primo testimone, Artemio di Pisa, amico di Clarice e spettatore di un evento insolito: costui dichiarò, infatti, di aver visto Clarice in casa sua con tre candele accese in mano e un uomo intento a leggere un libro. Artemio comparve di fronte al padre inquisitore e depose quanto aveva visto con i suoi occhi. Alla domanda se costui conoscesse Clarice o sapesse che ella faceva malie e incantesimi, l’uomo rispose: «io la conosco circa quattro o cinque anni sono et è mia amica, imperò che quando mi ha richiesto di qualunque cosa l’esercita, et lei me; quanto poi se lei ha fatto incantesimi, io sono qua per dir la verità: sono incirca due anni che a sorte passando io una sera da casa sua et entrai in casa sua essendo l’uscio fuori al quanto aperto et ascesi su, et arrivando su la scala sentii leggere, et accostandomi alla porta della sua camera dalli fessi della porta veddi uno huomo, io hora non mi ricordo, delle sue qualità di persona non vi considerai, il quale havea uno libro in mano e leggeva con sommissa voce»9.

È da sottolineare l’ambiguità semantica del sostantivo amico: se, da una parte, esso potrebbe semplicemente rimandare a un rapporto di particolare cordialità fra Clarice

7 AAPi, Sant’Uffizio, c. 380v. 8 Ivi, c. 380v.

e Artemio, dall’altra non è irragionevole ritenere che i legami amicali che Clarice intratteneva con alcuni uomini (fra i quali vi era Artemio) celassero, in realtà, l’esercizio del lenocinio da parte di questi ultimi10. Come che sia, il dato da segnalare è il notevole scarto temporale fra i fatti imputati a Clarice e la denuncia al Tribunale, compiuta – a distanza di 4 o 5 anni – a causa della condizione di Alessandra, moribonda per la febbre e assalita dagli scrupoli di coscienza. Il secondo dato è che si era ormai affermato, nel giro di pochi decenni, il principio secondo il quale ogni buon cattolico avrebbe dovuto segnalare all’autorità ecclesiastica – così come si legge nell’Edictum in haereticos del vescovo veronese Giovanni Matteo Giberti (1524-1543) pubblicato il 10 aprile 1530 – «aliquam personam […] haereticam, diffamatam vel suspectam in vel de quacumque haeresi»11. Clarice era, in proposito, sospettata di eresia, in quanto qualcuno l’aveva vista

praticare riti sospetti con candele e formule magiche.

Le escussioni dei testi che seguirono a quella di Artemio, tuttavia, non procedono lungo un rigido ordine cronologico, in quanto il verbalizzante – il notaio dell’inquisitore pisano – non annotò le sedute attenendosi alla loro successione nel tempo, ma, per così dire, a salti: ciò è evidente con l’interrogatorio di Alessandra del fu Antonio, listato, nonostante fosse avvenuto il 2 novembre 1581, successivamente a quello di Iacopo del fu Nicolao di Lucca, teste escusso il 6 novembre dello stesso anno. Questa circostanza induce a ritenere che il notaio disponesse di scartafacci approntati durante la registrazione delle deposizioni, riordinati in un secondo momento e riportati sul verbale del processo secondo una non rigorosa cronotassi. Iacopo figlio del fu Nicolo da Lucca riferì che Clarice gli aveva detto di aver compiuto un incantesimo ai danni di Giuliano Brancacci, riferendo all’inquisitore: «sono otto anni che io la conosco qui in Pisa che stava con Giuliano Brancacci et dapoi lei ha fatto casa da sé, et ho mangiato et bevuto in casa sua, et anco dormito più volte, et stato seco ragionando con gran femiliarità. Lei è meretrice come sa tutta Pisa, et io ho visto entrare in casa sua gente di qualsivoglia sorte di giorno et notte. Uno giorno raggionando seco mi disse che lei havea fatta una malia a Giuliano Brancacci»12.

10 Sull’ambiguità del termine amico insiste S. MANTIONI, Donne della storia, cit., specialmente p. 26. 11 La citazione nel testo da Iohannis Matthaei episcopi Veronensis ecclesiasticae disciplinae ante Tridentinam Synodum istauratoris solertissimi opera, Veronae 1733, pp. 232-34. Per il Giberti cfr. A. TURCHINI, Giberti, Gian Matteo in Dizionario Biografico degli Italiani, LIV (2000), in rete sul portale treccani.it, con amplia bibliografia.

In questo caso, la particolare promiscuità che fa da cornice alla figura di Clarice era anche l’humus ideale in cui i sospetti di stregoneria potevano combinarsi con i malintesi e gli screzi tra le persone, magari alimentati da antipatie e piccole rivalità personali. La teste Alessandra fu escussa il 2 novembre. Ella riferì che Clarice era una donna «ribalda», ossia di malaffare, una cortigiana13. E, interrogata, rispose nuovamente: «la conosco sono cinque anni qui in Pisa, per donna ribalda et so di certo et chiaro che lei ha fatto mallie»14.

Fu Caterina, affacciata a una finestra dell’ospedale degli Innocenti, a rivelarle la sua attività di fattucchiera: in particolare, Clarice aveva ammaliato ser Giuseppe Cappelli con l’aiuto di tre candele benedette, rette da tre fanciulle vergini mentre un uomo leggeva un libro. Si trattava di un rito, com’è evidente, di magia simpatica, nel quale la postura diritta delle tre candele aveva evidentemente una simbologia d’amore: si trattava, in altre parole, di indurre, attraverso l’imitazione della candela, l’amore verso Clarice nella persona del Cappelli15. D’altra parte, come nota Corisande Anderson, il possesso di

candele benedette era assai diffuso fra la popolazione, giacché «mediating between authorizaed sacramental practice and ritual magic, these blessed and ephemeral objcets were relied upon to answer the needs and necessities of lay people by protecting them from danger and harm»16.

È la vicenda della malia nei confronti del Cappelli a costituire il fuoco dell’intero processo, intorno al quale si concentrò l’attenzione delle autorità inquisitoriali. La moglie di Cappelli, infatti, lamentò il fatto che il marito non la desiderasse più, e Iacopo da Lucca sostenne: «io ho inteso che la moglie di detto Gioseppe si lamenta che non torna a casa o di rado a mangiare et a dormire et ciò ho inteso dal figlio di messer Francesco et che detto Gioseppe seguita di continuo con grande scandolo detta Clarice»17. Anche se le parole di

13 Ivi, c.383r. Cfr. la relativa voce in Grande dizionario della lingua italiana, in rete sul portale <http://www.gdli.it>.

14 Ivi, c. 383 r.

15 Per un esempio di rito simpatico nell’Italia d’età moderna cfr. V. DE ANGELIS, Le streghe son tornate, Milano 2003, p. 445; per una panoramica dell’uso delle candele nei riti, ad esempio, dei Circassi e dei bramini cfr. J. FRAZER, The Golden Bough, New York and London 1901, pp. 57, 73 e passim. Quello attuato da Clarice era un rito effettuato «basandosi sul principio che il simile produce il simile», giacché «spesso i riti consistono in un'imitazione dell'effetto che la gente vuole produrre» (ivi, p. 32). Anche la celebre strega Gostanza da Libbiano confessò di «havere un pezzo di candela bianca di quelle tre che si accendono la mattina di sabato santo sulla canna, la quale candela la mette a dosso et in seno alle donne quando sono in sopraparto» (PROSPERI, Inquisitori e streghe, p. 135).

16 C.C. ANDERSON, The Material Culture of Domestic Religion in Early Modern Florence, c. 1480-

1650, York 2007, p. 42.

17 AAPi, Sant’Uffizio, II c. 382v. Cfr. a questo riguardo il Malleus maleficarum a proposito degli incantesimi d’amore compiuti dalle streghe: «così qualcuno scaccia la moglie spesso più bella e se ne va con una donna assai turpe» (cfr. KRÄMER, SPRENGER, cit., p. 296).

Iacopo inducono a ritenere che la malia a Giuseppe Cappelli avesse funzionato, visto che quest’ultimo non desiderava più giacere accanto alla moglie («non toccasse mai la moglie»), mette conto osservare che quelle analizzate fino ad adesso sono testimonianze dettate dalla voce del popolo; all’inquisitore, soprattutto, mancava una vera e propria ‘prova regina’, mentre l’impianto accusatorio sembra basarsi su una serie di indizi vaghi e indefiniti, alimentati perlopiù dal sentito dire, alimentato , a sua volta, dalle vanterie di Clarice (quanto alimentate da una sorta d’autopromozione? E quanto non manipolate a bella posta da chi le aveva sentite? Magari in ragione della rivalità femminile?) circa le sue abilità magiche.

Tre giorni dopo fu la volta dell’interrogatorio di Nicolosa, serva dell’accusata: «imperocchè essendo serva è forza che sappia qualche cosa, come ha fatto in far detta malia»18, ella ammise di essersi chiusa in camera insieme a Clarice e di aver pronunciato

un’orazione. Quest’ultima, inoltre, aveva confessato a Nicolosa di aver compiuto magie e incantesimi, ospitando in casa sua Caterina. Nicolosa rispondendo all’inquisitore sostenne: «è vero che con la Bice ci rinchiudevamo in camera lei et io; et pigliava una candela benedetta in mano e un’oratione volgare a sancto Agostino, la quale io tengo essere buona da intercedere ogni gratia da Dio, et così addimandata da detta Bice io sapevo qualche oratione per questo effetto, io gli risposi che io sapevo questa, et così facendo male dire; et in detta camera non vi era altro che lei et io perché in quelle cose non si fidava d’altro che di me»19. Ed ecco che, a questo punto, la versione di Alessandra

trovò un riscontro: Caterina e Clarice, infatti, furono viste da Nicolosa nel mentre che pronunciavano un’orazione, in compagnia di un uomo intento a leggere un testo, e di tre ragazze. Tuttavia, il movente della riunione apparì tutt’altro che sacrilego o, addirittura, demoniaco: Clarice e Caterina, infatti, non stavano praticando un rito teso a evocare le forze del Maligno, ma, anzi, stavano recitando un’orazione a sant’Agostino, per invocarne l’intercessione nei confronti della Divinità («et un’oratione volgare a sancto Agostino, la quale io tengo essere buona da intercedere ogni gratia da Dio»). Incalzata dalle domande dell’inquisitore, Nicolosa diede sfoggio di una saggezza pratica e intuitiva, asserendo che le serve non potevano che conformarsi e obbedire alla volontà delle padrone (anche se, come mostra il caso della serva Claudia Corona, indagato da Domizia Weber, non era sempre detto che andasse così)20. A quanto si apprende, quindi, non vi

18 AAPi, Sant’Uffizio, II, c.383v. 19 Ivi, c. 383 v.

era un intento prettamente stregonesco nelle pratiche seguite da Clarice, ma anzi una specie di “magia cristiana”, dei riti fai da te per attirare il favore della divinità21. Siamo,

dunque, nel contesto di quella che Adriano Prosperi ha definito «ambiguità», nel quale «anche le preghiere alla Vergine e ai santi entrarono negli elenchi delle formule sospette o proibite quando nel rituale e nelle circostanze in cui venivano usate si ravvisò qualcosa di insolito o di superstizioso»22.

Il 6 novembre fu chiamato a testimoniare Iacopo del fu Nicolao di Lucca, che rivelò di conoscere Clarice da 8 anni, fin dal tempo, cioè, in cui si era messa con Giuliano Brancacci. Iacopo, inoltre, confermò di essere consapevole della professione dell’accusata, dedita al meretricio pubblico, con la quale egli aveva giaciuto. Proprio per ammaliare il Brancacci, Clarice aveva adoperato una magia, ed è qui un punto controverso: il teste, infatti, rivelò che l’accusata gli aveva chiesto di «trascrivere» un libro. Iacopo sostenne: «non so che volte mi disse, se io gli volevo far servitio di cavar et trascrivere uno libricciuolo havuto, diceva lei, da una sua amica»23. Si consideri che dalla

deposizione non emerse se Iacopo aiutò effettivamente l’accusata a confezionare i suoi incantesimi, benché, come svelò egli stesso, il Brancacci si fosse talmente infatuato di Clarice da non staccarsi più da lei.

Sulla base delle deposizioni appena ricordate, Clarice fu condotta in prigione il 17 novembre: in appena un mese dalla denuncia di Alessandra, dunque, l’inquisitore aveva raccolto sufficienti indizi da consentire la carcerazione della presunta rea. Contestualmente, fu chiamata a deporre Maddalena, allevata nell’ospedale degli Innocenti, che narrò alla corte che 5 anni prima l’accusata aveva consegnato una candela benedetta a Caterina del Libraio. Nell’interrogatorio proseguì dicendo: «lei mi addimandò ch’io gli dessi una candela benedetta per l’amor di Dio, et io gliela diedi senza addimandarli et cosa ne voleva fare»24. Il filo rosso che legò i racconti dei testimoni convocati dal Sant’Uffizio sembrò dunque essere quello dell’uso delle candele benedette da parte di Clarice25. Trapelò, in altre parole, quella che potremo definire la fama stregonesca di Clarice, il suo essere riconosciuta dalla comunità come una donna dalla moralità già compromessa in partenza e dedita a pratiche eterodosse, riti magici e

21 Cfr. COHN, I demoni dentro, cit., p. 135: «in realtà, quali che fossero i sacrifici offerti, Dio era ancora invocato e la sua onnipotenza confermata. Ma questo non rendeva i comportamenti degli invocatori meno blasfemi, li rendeva anzi ereticali, se giudicati nei termini della dottrina cattolica».

22 PROSPERI, Inquisitori e streghe, cit., p. 247. 23 AAPi, Sant’Uffizio, II, c 382v.

24 Ivi, c. 385r. 25 Ivi.

incantesimi. Proprio questo giudizio comunitario dovette essere l’elemento principale a determinare la condotta di Clarice.

L’interrogatorio cui fu sottoposta quest’ultima cominciò il 20 novembre: a partire da questa data, il Sant’Uffizio cominciò ad escutere direttamente Clarice. Fu in questo contesto che si venne a conoscenza dei dati biografici dell’accusata: ella raccontò, infatti, di essere originaria di Pontedera, nel contado pisano, di risiedere nei pressi della Sapienza e di essersi inurbata a Pisa all’età di 17 anni, facendo cominciare il computo del tempo «da Pietro Strozzo in qua»26. Ammettendo, dunque, che Clarice si riferisca allo Strozzi maresciallo di Francia, che tenne Montalcino fino al 1556, la nascita di costei va collocata intorno al 1540: all’epoca del processo, dunque, ella aveva poco più di 40 anni, mentre, nel momento in cui si erano svolti i fatti relativi alla malia contro il Cappelli, ne aveva all’incirca 3527. L’imputata sostenne: «io sono dal Ponte d’Hera figlia di Rosa; et sono

circa sedici o diciassette anni ch’io sono in Pisa et l’età da Pietro Strozzo in qua. Io sono stata in diverse case per stanza in Pisa, hora sto appresso la Sapienza»28.

Nelle fasi iniziali dell’interrogatorio, l’imputata si dimostrò molto sicura di sé, e dinanzi all’inquisitore respinse ogni capo d’accusa: «interrogata an unquam dixerit aliquibus, respondit: fratre no; io non ho detto cosa alcuna»29. Ella, inoltre, insisté riguardo al rito magico compiuto in casa con tre ragazze vergini: «respondit admirative: io non so nulla, et se mi sarà detto in faccia, io haverò patienza et gli dirò che se ne mentono». Clarice, donna ribelle e dal forte temperamento, negò di conoscere Caterina e Artemio, così come di aver compiuto magie o incantesimi. Con sicumera, Clarice rispose alle domande dell’inquisitore: «io non mi posso immaginare che sì sia: et dicendo così io mi salverò, dicendo altrimente io mi perderei»30. Il tenore delle risposte di Clarice apparve tanto più sorprendente quanto più si consideri la determinazione dimostrata dall’inquisitore, che si diceva sicuro delle accuse «certitudinaliter», ossia senza alcuna possibilità di dubbio. L’interpretazione che possiamo dare di quest’atteggiamento è che le minacce dell’Inquisizione non fossero prese troppo sul serio da Clarice; e che, in altre parole, quest’ultima si aspettasse di ricevere pene non troppo severe da parte della corte.

26 Ivi, c. 385v.

27 Su Piero Strozzi cfr. R. PALMAROCCHI, Strozzi, Piero in Enciclopedia Italiana (1936), in rete sul portale treccani.it.

28 Ivi, c. 385v. 29 Ivi.

Il rapporto con la serva Nicolosa è descritto come improntato a una solida fiducia reciproca. Alla domanda dell’inquisitore se Nicolosa fosse o meno sua amica, Clarice rispose a tono: «se gli è conversata con me 7 overo 8 anni, non volete ch’io la conosca? Et ancora è stata mia serva mesi tre. Et che sappia io fra lei et me non vi è inimicitia et credo ch’ella mi voglia bene; et io non credo che lei diponesse contra di me bugia alcuna. In somma, la detta Nicolosa io l’ho per donna dabbene et io l’ho et la tengo per donna degna di fede, cioè che si debbia credere a ciò ch’ella dice et particolarmente di me perché è mia amicissima sempre donna di verità»31. Inoltre Clarice, ferma nelle sue idee, continuò a negare la conoscenza di vari cittadini pisani, mentre si pronunciò circa alcuni suoi nemici: «Menichetto luchese io l’ho per inimico mortale; io a lui non gli ho fatto male nessuno, ma sempre bene: et io non credo che lui deponesse querelle al Santo Ufficio contra di me»32. Alla volontà dell’inquisitore di conoscere il suo eventuale

coinvolgimento nel confezionare magie e incantesimi, ella rispose: «io non conosco queste persone et se lo credessi che me ne andassero le braccia io non voglio dire nulla perché non ho fatto cosa alcuna»33.

Dopo 14 giorni, Clarice fu di nuovo convocata, ma ella continuò a negare di conoscere Caterina e di aver chiamato un uomo a leggere in casa sua. Ella teneva, in altre parole, un contegno improntato all’ostinazione, cioè al rifiuto di collaborare con le autorità ecclesiastiche, mostrandosi assolutamente restia ad ammettere come vere le accuse. Dinanzi alle domande postele dall’inquisitore, ella continuava a negare: «io non so nulla patre; et dicto sibi et admonita, interrogata quanto tempore et cetera respondit: io non ho mai fatto cosa alcuna»34. L’atteggiamento non mutò neppure davanti alla minaccia di essere sottoposta ai supplizi della tortura. Così si interruppe l’interrogatorio con la promessa di riprenderlo «sed gravius»: comparativo dell’avverbio che lasciava intendere il ricorso, da parte del Sant’Uffizio, ai tormenti. L’inquisitore con toni duri, accesi e minacciosi prosegue l’interrogatorio e considera Clarice già una pericolosa eretica, a causa della sua ostinazione a non rivelare nulla circa la sua condotta eterodossa: «et cum ipsam ostinatam viderimus ipsi protestati sumus contra ipsam ut hereticam»35; Clarice da parte sua reagì con parole di minaccia e disse: «quando verrà la grandine quassù mi

31 Ivi.

32 Ivi, c. 385v. 33 Ivi.

34 Ivi, c. 386r. 35 Ivi.

aiuterà»36. Ella dava mostra di non temere il confronto con l’autorità ecclesiastica, neanche quando l’inquisitore usava toni più duri. Davanti all’ennesimo rifiuto di collaborare, l’inquisitore la invitò nuovamente a rivedere le sue posizioni, e ad assumere un atteggiamento conciliante, ossia a dichiarare quel che il S. Uffizio si sarebbe voluto sentir dire, quello che si aspettava da lei, e che risultava coerente con il quadro tratteggiato dai testimoni che abbiamo richiamato sopra.

L’esame della presunta rea proseguì nel dicembre, all’interno degli spazi del tribunale pisano. È al 6 di quel mese che possiamo ascrivere un colpo di scena che costituì una vera e propria svolta nell’andamento del processo. Davanti a una nuova e concreta minaccia della tortura da parte del frate Geronimo, Clarice cambiò la propria strategia, ammettendo di aver compiuto effettivamente malie ed incantesimi. Essa si dichiarò