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FORME E MANIFESTAZIONI DEL DEMONIO FRA SUPERSTIZIONI DEL POPOLO E DEMONOLOGIA DELLA CHIESA.

Nel corso della storia nacque l’idea che il Diavolo avesse tra i suoi servi alcuni uomini e donne; collaboratori umani, per così dire, delle schiere degli spiriti del male. La demonologia che apparve in alcuni dei testi ebraici era presente anche, in altra forma, nel Nuovo Testamento. Il ruolo di Satana era quello di combattere la nuova religione, il cristianesimo. Egli era il nemico di Gesù e dei suoi seguaci, complottava sempre per distogliere questi discepoli della loro devozione per distruggerli nel corpo e nell’anima. Il mondo intero veniva rappresentato come diviso in due parti, il regno di Cristo e il regno del Diavolo. Contrapposto al regno della cristianità stava il regno di Satana, dove prevalevano i poteri delle tenebre. Satana lottava per prevenire l’ampliamento del regno di Cristo, mentre la missione di Cristo era quella di distruggere il regno di Satana. Il potere del Diavolo si rivelò in tutto ciò che allontanava l’uomo da Dio e soprattutto in ogni forma di resistenza all’insegnamento cristiano. Il Diavolo era inoltre aiutato da una moltitudine di demoni minori, che tentavano gli uomini affinchè respingessero Gesù tormentandoli fisicamente.

I Padri della Chiesa immaginavano che Satana e i suoi demoni facessero una guerra incessante ai cristiani. Essi si soffermavano sui vari modi con i quali essi perseguitavano la nuova fede e i suoi adepti. Poiché il Diavolo non conosceva mai pace, non poteva lasciare in pace gli uomini; assieme ai suoi demoni provocava malattie individuali e disastri collettivi quali siccità, cattivi raccolti, epidemie tra gli uomini1. Per i Padri della chiesa i demoni erano presenti anche tra le divinità del mondo antico. Infatti, secondo loro, se un cristiano criticava nuove pratiche o credenze dopo che esse hanno ricevuto l’approvazione ufficiale della Chiesa, sotto ci doveva essere l’istigazione di una divinità pagana che agiva come un demone.

Per comprendere quanto la preoccupazione dei religiosi fosse divenuta ossessiva nel XIII secolo si possono prendere in considerazione alcuni degli aneddoti raccontati da due monaci tedeschi, Cesario, del monastero di Heisterbach in Renania, e Richalm. Le storie di Cesario sono dei vera exempla, racconti ammonitori destinati a essere usati nei sermoni. Satana, nelle sue opere appare come ostinatamente ribelle a Dio e un particolare

demone appare in forma umana nelle sembianze di un uomo grande e brutto vestito in nero. Addirittura, sempre secondo le testimonianze di Cesario un demone poteva entrare nel corpo di una persona e prendere residenza nelle sue viscere e nelle sue cavità: l’autore illustrò il problema con la storia di un ragazzo di cinque anni che inghiottì un demone bevendo del latte. Il demone continuò a tormentarlo finché fu adulto, quando gli apostoli Pietro e Paolo, mossi dalla sua devozione, lo liberarono. Richalm si interessava invece delle tentazioni e agli ostacoli con i quali i demoni provavano a sviare i monaci dalla loro ricerca della santità.

Tra il XIV e il secolo XVI secolo anche la stregoneria fu associata al culto del demonio, in particolare alla pratica della magia nera o malefica, cioè alla “fattura” di malefici mediante il ricorso di poteri misteriosi o sovrannaturali2. I maleficia erano per

definizione dannosi, in altre parole non benefici: erano diretti a colpire il corpo, a provocare malattie, morte, povertà o qualche altra sventura. Oltre al maleficium la stregoneria era associata a un altro aspetto, ovvero alla relazione della strega con il Diavolo, il nemico del Dio cristiano e la personificazione del male. Si affermò il concetto che le streghe fossero adoratrici del Diavolo: ciò le rendeva non solo eretiche, ma individui intrinsecamente malvagi che avevano deciso di servire il nemico di Dio, rinnegando la fede cristiana.

Verso la fine del Quattrocento, precisamente nel 1486, assunse un rilievo di primo piano la pubblicazione del Malleus maleficarum, che rappresentava il primo trattato incentrato sulla stregoneria. I suoi autori erano Heinrich Kramer, un anziano teologo e zelante difensore dell’autorità papale e della fede cattolica, nominato inquisitore nella Germania meridionale nel 1478, e Jacob Sprenger, docente di teologia all’Università di Colonia. Nel loro trattato, diviso in tre parti, i due autori del trattato intendevano dimostrare, in primo luogo, che la stregoneria esisteva davvero, e, in secondo luogo, che coloro che vi erano dediti costituivano un pericolo per la comunità. Inoltre, Kramer e Sprenger bollarono come eretico e nemico della vera fede chi negava l’esistenza delle streghe3.

I due autori intendevano demolire a colpi di maglio (che in realtà è il loro raffinato strumento teoretico) tutte le opinioni contrarie, e, reinterpretando a loro esclusivo beneficio i testi canonici, si appoggiavano su citazioni, opportunamente scelte, dei Dottori e dei Padri. Alla più forte delle ragioni filosofiche contro la realtà dei poteri vantati dalle 2 LEVACK, La caccia alle streghe, cit., pp. 8-9.

streghe, e cioè quella che affermava che nessun artificio può indurre in natura delle modificazioni sostanziali, si rispondeva che il Diavolo, previo permesso divino, può dare alla strega tale potere. Ora, chi si oppone a questo argomento è chiaramente eretico, come poteva essere facile vedere dal seguente ragionamento: le Scritture affermavano che il Diavolo operava nel mondo, la filosofia ci insegna che un puro spirito doveva ricorrere ad un opportuno intermediario per poter agire sulla materia, quindi chi non credeva che esistevano tali intermediari non credeva neppure nel diavolo; ma chi non credeva nella presenza dell’Angelo ribelle in questo mondo, rifiutava una parte delle Scritture; di conseguenza costui, non accettando uno degli argomenti della fede cattolica, era un infedele.

Dopo una prima parte più, per così dire, teorica, la parte successiva passava al vaglio le modalità con le quali il Demonio compieva i suoi sortilegi, e, più nello specifico, evidenziava i modi con cui le streghe interagivano con gli esseri umani, mettendone a repentaglio l’integrità: ad esempio, procurando la castrazione degli uomini, trasformandoli in bestie, infliggendo loro atroci malattie, uccidendo i bambini o procurando a questi ultimi atroci sofferenze. Le streghe potevano guastare la salute delle persone non solo direttamente, ma anche attraverso gli agenti atmosferici: ad esempio, provocando tempeste, saette e grandinate. Gli autori del Malleus proponevano, quindi, la serie dei rimedi offerti dalla Chiesa, a seconda dell’handicap indotto dalla magia diabolica. La terza e ultima parte riguarda il modo di perseguire le streghe, fornendo ai reggitori della societas christiana gli strumenti operativi da applicare nei procedimenti a danno di costoro: si passano, infatti, in rassegna il giudice competente, il numero dei testimoni necessari, il modo di arrestare, processare, eventualmente torturare e condannare il colpevole di stregoneria, e così via.

Grazie alla pubblicazione e alla lettura del Malleus, tra i rappresentanti del clero e fra i ceti dominanti si diffuse la convinzione che le streghe avessero fatto un patto con il Diavolo. Esso non costituiva solo il fondamento del reato di stregoneria, ma era anche il nesso principale tra la pratica della magia nera e ciò che veniva definito il culto del Diavolo. Oltre a fare patti con lui, le streghe lo adoravano collettivamente prendendo parte a riti a lui dedicati, che costituivano il cosiddetto sabba. Gli altri due elementi importanti che completavano il concetto di stregoneria erano il volo e la metamorfosi: alle streghe era attribuita la capacità di volare per raggiungere il luogo del sabba e la credenza secondo cui gli esseri umani potessero mutare di forma grazie a interventi di

qualche potere magico o sovrannaturale4. Dietro l’immagine di questi straordinari ed enigmatici viaggi sabbatici affiorava uno strato antichissimo di miti, adorazione di divinità, riti euroasiatici e contadini per invocare abbondanza e fertilità, combattimenti folli e metamorfosi animali. Nel dialogo Strix di Pico, di cui parleremo più avanti, Apistio domandò alla strega: «Hor su, strega, dimmi: andasti mai al giuoco di Diana, overo di Herodiade?», e l’interrogata risponde: «Sì, sono bene andata al giuoco, ma che’l sia o di Diana, o di Herodiade non il so».

Alcuni documenti milanesi che risalivano a un periodo anteriore all’istituzione dell’Inquisizione testimoniavano l’esistenza della “Società di Diana” o “Compagnia di Diana”: si trattava di raggruppamenti di persone che si incontravano di notte per praticare il culto della dea; a queste riunioni partecipavano numerose donne del tempo. Secondo le parole di Carlo Ginzburg all’assemblea: «prendono parte anche uomini vivi e morti, eccetto però i decapitati e gli impiccati. Ivi si uccidono animali, le cui carni si mangiano e se ne ripongono le ossa nelle pelli: la “Signora Oriente” li risuscita. Dio non è mai nominato: la Signora insegna alle sue compagne di virtù delle erbe e risponde, dicendo sempre la verità, alle loro domande sulle malattie, sui furti e i malefici […] Quando vuole recarsi all’assemblea chiama lo spirito “Lucifelus” il quale accorre subito presentandosi in forma d’uomo, la porta al giuoco e la istruisce in quello che lei desidera»5. Lo stesso

Lucifero, personificazione del Diavolo, era presente a tali riunioni. La celebre strega Gostanza da Libbiano lo descrisse «in forma di un animale, cioè di un capretto, et vi montavo su et mi portava in un luogho dove si ballava et cantava et mille feste». Questi incontri avvenivano in «uno palazzo di circuito tanto grande, che io non ho mai veduto la fine et al mio vedere non vi mancava nulla et quivi si mangiava et quivi si beveva et attendeva a guazzare», e il Diavolo «usava insieme con esso noi», cioè quel Diavolo Maggiore con esso me, et quelli altri con quell’altre donne»6.

Si diffuse, così, la convinzione che esseri malvagi e il Diavolo stesso avessero acquisito poteri straordinari e che fossero addirittura in grado di influenzare il corso delle vicende umane. Le streghe, in quanto adoratrici del Diavolo, erano viste dall’élite come

4 Icastiche appaiono, a questo proposito, le notazioni di L. FUMI, Usi e costumi lucchesi, Lucca 1907, p. 95, che riconduce l’intero fenomeno alla suggestione: «una volta creduta la trasformazione, facile l’andare, libero lo stare, sicuro il godere; e lì in tresche e bagordi dilaga la fantasia degenerata. Il sogno più corrotto si rendeva in atto, secondo che più lusingasse la passione. E donne, tanto ignoranti quanto voluttuose, perdute dietro a vaneggiamenti e follie, dominate dalla suggestione, trasportano l’idolo della loro fantasia in un mondo immaginario, che è creduto vero, come di provati godimenti notturni, dove non sono che sogni agitati da incubi e subincubi».

5 GINZBURG, Storia notturna, cit., pp. 17-19. 6 Gostanza, la strega di San Miniato, cit., pp. 149, 199.

cospiratrici politiche pronte a sovvertire l’ordine gerarchico della società e, quindi, come coloro che potevano mettere a repentaglio la preminenza politica delle classi dominanti. Con la Controriforma, al clero si richiedeva di rafforzare la fede nel laicato e di riconquistare la devozione religiosa dei singoli individui e delle comunità. Le streghe adoratrici del Diavolo commettevano una gravissima eresia per aver rinnegato non solo la fede in Dio, ma anche la purezza dei principi della religione e della moralità dell’individuo: esse, infatti, praticavano malefici e malie, alla base dei quali c’era una ridda di credenze superstiziose e pagane che la Chiesa cattolica intendeva abolire.

Una testimonianza dell’attività delle streghe si ricava dall’emanazione, il 5 dicembre 1484, della bolla pontificia Summis desiderantes affectibus, emanata dal papa Innocenzo VIII, informato che alcune parti dell’alta Germania erano infestate dalle streghe. Il documento comprende tre parti: nella prima, il papa poneva l’accento sul fatto che la cura delle anime doveva essere oggetto di costante attenzione da parte dei pastori, dichiarando di aver appreso con dolore che in molte regioni della Germania, specie nelle diocesi renane, numerosi fedeli rifuggivano la religione cattolica e avevano rapporti carnali con i demoni; nella seconda parte, Innocenzo VIII enumerò i crimini di coloro che avevano stipulato l’alleanza con il Diavolo; nella terza, infine, dichiarava di rimettersi alla sagacia degli inquisitori tedeschi, conferendo loro pieni poteri per punire i colpevoli7. La demonologia, l’adorazione del Diavolo e la figura della strega divennero elementi di primo piano nell’ambito delle pratiche religiose atte a sconfiggere l’eresia. Il Dialogus in tres libros divisus, cui titulus est Strix di Giovanfrancesco Pico della Mirandola, pubblicato nel 1523, s’inserì nel quadro della codificazione inquisitoriale definita dal Malleus maleficarum. La Strix rappresentò un’evoluzione ulteriore delle tematiche già affrontate dal Malleus (cui, del resto, Pico si richiama esplicitamente)8: quel trattato, infatti, accentuò gli elementi legati alla fisicità e alla corporeità della strega, come il volo, la celebrazione del sabba (benché non ancora unanimemente accettato) e il patto scellerato che unì le streghe al Demonio, la cui adorazione, come abbiamo detto sopra, costituiva la prova della loro apostasia. Grazie alla sua formazione umanistica, Pico immise un gran numero di fonti classiche nella fitta rete delle manifestazioni demoniache già illustrate dai predecessori. La profusione di citazioni dirette e indirette, tratte da autori

7 BONOMO, La caccia alle streghe, cit., pp. 166-168.

8 Cfr. G. PICO, Strega o delle illusioni del demonio, a c. di A. Biondi, Venezia 1989, p. 103: «i mi ricordo di havere letto nelli libri di frate Arrigo e di frate Giacobo thodeschi, maestri in theologia dell’ordine dei frati predicatori, qualmente egli è narrato di una strega, la quale passava quelli spatii in tutti duoi e’ modi».

dell’antichità greca e romana, assunse, in effetti, delle proporzioni sconosciute alla letteratura precedente, gettando le basi di quella che possiamo definire una letteratura umanistica sulla stregoneria.

L’aspetto forse più interessante dell’opera pichiana è non tanto la sua forma di dialogo, ma che essa porta sulla scena una strega a parlare in prima persona, interrogata dai personaggi che dibattono fra loro. La risonanza dello scritto di Pico fu notevole, tanto che, fra i secoli XV e XVI, egli contribuì in modo determinante a inserire la letteratura stregonesca all’interno di un movimento intellettuale e religioso e a produrre la figura di uno studioso cristiano impegnato nella lotta contro la corruzione morale e religiosa, specchio, a sua volta, della presenza del demonio nel mondo. Sconfiggere il Diavolo e ricostruire le basi morali e religiose – e di conseguenza politiche – della cristianità erano obiettivi che non potevano essere dissociati l’uno dall’altro. Infatti, i processi celebrati a Mirandola negli anni 1522-1523, da cui scaturì la Strix, racchiusero come in un microcosmo tutti questi straordinari elementi.

Nello svolgimento del dialogo, Dicasto mise in secondo piano la prova dell'esistenza del Sabba stregonesco, concentrandosi sul fatto che la Strega aveva comunque offeso la religione cristiana, poco importa se con il corpo o solo con la mente: la donna doveva essere perciò punita per difendere la Chiesa e la dottrina della fede. Fronimo disse che come i miracoli confermavano l'esistenza del divino e rafforzavano la fede cristiana, così anche la stregoneria e i demoni si ostinavano a indurre le persone a peccare, confermando l’esistenza di Dio. Se esistevano il Diavolo e il male, dovevano esistere anche Dio e il bene. E, alla fine del dialogo, Apistio cambiò il proprio nome in Pistico, cioè colui che crede.

In una fase tanto delicata, nella quale era in gioco la salvezza del gregge cristiano, Pico paventava l’opera del Demonio, che andava sì combattuto con una vigorosa armata intellettuale, ma anche con un impegno pratico-politico adeguato. Ritornare alle fonti del cristianesimo aveva per Pico un alto valore pratico, poiché la battaglia da intraprendere contro il Demonio era la stessa che avevano combattuto i padri contro il paganesimo di cui egli percepiva i segni allarmanti di una rinascita9. L’impostazione così rigidamente anti-demoniaca degli intellettuali d’ispirazione cristiana si legò alla postura assunta dalla gerarchia ecclesiastica.

All’aprile 1530 risalì, infatti, l’Edictum in haereticos del vescovo veronese Giberti, la cui importanza risiedette nell’aver anticipato – prima del Concilio di Trento – alcuni aspetti salienti nella difesa dell’ortodossia cattolica e nella lotta contro l’eresia. Secondo l’Edictum, ciascun eretico (definito infectus) avrebbe dovuto rivolgersi, entro 8 giorni dalla pubblicazione del documento, al presule o al suo vicario generale, al fine di ottenere uno speciale sconto di pena; a coloro che rifiutavano di riconoscersi colpevoli dinanzi alla Curia del Giberti sarebbe stata negata qualsiasi misericordia. Ma i soggetti interessati dalle disposizioni del vescovo di Verona non erano soltanto gli eretici, ma tutti coloro che conoscevano l’esistenza di persone deviate rispetto all’ortodossia cattolica: essi avrebbero dovuto rivolgersi alle autorità diocesane entro 30 giorni dalla pubblicazione dell’editto se avessero avuto notizia che qualcuno era solito «maleficia facere, vel docere».

L’attenzione della Chiesa nei confronti delle alterazioni della dottrina cattolica filtrò, com’era naturale, all’interno delle disposizioni della Controriforma, anticipate non solo dall’attivismo pastorale del vescovo veronese Matteo Giberti, cui si è accennato nelle pagine precedenti, ma anche da episodi di vera e propria intolleranza, sfociata, nella Val Camonica a cavallo del 1518, in vera e propria persecuzione10. Un esempio lampante delle tendenze controriformistiche è costituito dall’impegno del cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, per conformare il territorio diocesano ai dettami del Concilio: ad esempio, commissionando ai preti un dossier (che oggi costituisce l’Index superstitionum, conservato presso l’Archivio Arcivescovile di Milano) nel quale elencare le devianze rispetto all’ortodossia riconosciute nel Milanese. Un efficace strumento a disposizione dell’arcivescovo furono le visite pastorali, come quella condotta in Valle Mesolcina nel novembre 1583, svolta per gettare luce sulle accuse lanciate dall’inquisitore Borsato11. Del resto, già a partire dal 1568, il Borromeo aveva emanato il

decreto De magicis artibus, veneficiis divinationibusque prohibitis, con il quale egli cercò di sradicare le pratiche stregonesche dall’arcidiocesi ambrosiana.

Connesso al problema del rispetto dell’ortodossia era quello della propagazione di idee eretiche e pericolose attraverso la stampa. Il 10 febbraio 1616, come si ricava da un documento dell’Archivio Arcivescovile di Pisa, frate Gottardi da Rimini emanò una

10 M. PREVIDEPRATO, Tu hai renegà la fede. Stregheria ed inquisizione in Valcamonica e nelle Prealpi

lombarde dal XV al XVIII secolo, Brescia, 1992.

11 Cfr. A. AGNOLETTO, Religione popolare, folklore e magia nei documenti borromaici, in San Carlo e

il suo tempo. Atti del convegno internazionale nel IV centenario della morte (Milano, 21-26 maggio 1984),

disposizione da applicarsi a tutti i librai pisani, affinché costoro non rilegassero manoscritti o libri senza l’autorizzazione preventiva del Tribunale dell’Inquisizione12.

Del resto, come scrive in proposito Rosa Lupoli,

tutto ciò che girava intorno al libro, dalla sua produzione alla sua circolazione, non doveva sfuggire al ‛buon Inquisitore’, infatti gli spettavano la visita alle botteghe dei librai e dei tipografi, le ispezioni doganali, il controllo sulle biblioteche dei privati (e non solo, anche Principi e Cardinali non si potevano sottrarre); in generale una vigilanza scrupolosa sulle letture dei fedeli e il controllo su tutte le opere a stampa (e manoscritte) che si stampavano nella sua giurisdizione13.

Non mancano esempi di inquisitori particolarmente zelanti nell’opera di censura dei libri potenzialmente eterodossi, o di oscuramento di alcune loro parti non conformi: si rammenti il caso dell’inquisitore milanese fra Giulio da Cremona, i cui freghi sono stati riconosciuti su alcuni volumi attualmente alla Biblioteca Braidense14. Un caso in questi anni portato all’attenzione da Andrea Del Col fu quello di Cristoforo Flammeo di Tolmezzo, giudicato dall’inquisitore di Udine alla metà del Seicento15. Il rischio che le

autorità volevano evitare era quello della diffusione, come abbiamo visto nell’analisi dei nostri processi, di scritture magiche che potevano essere utilizzate per compiere malie, incantesimi e riti contrari alla dottrina cattolica.

Le condannate da noi esaminate erano aduse consultare scritture magiche allestite e diffuse in ambito popolare, oppure avevano una certa dimestichezza con libri e opuscoli di vario argomento, appartenenti al medesimo ambiente folklorico, come “secreti” medicinali, ricette domestiche, predizione delle sorti e della ventura e, anche, di formule amorose, rubriche e orazioni. Riguardo ai testi magici, vi sono studi che ne analizzano i