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In epoca pretridentina il matrimonio come atto appartenente alla dimensione privata era un fenomeno diffuso e accettato. Il momento dello scambio dei consensi in cui il tempo verbale era espresso al presente (sempre rigorosamente dopo la conclusione dei patti matrimoniali) avveniva nel luogo di domicilio della sposa o se nel caso di illustri cittadini anche nella “pubblica via”. Compaiono casi di sponsali alla presenza del notaio e non del parroco. Quando i sacerdoti partecipavano erano considerati dei semplici accessori: era vigente infatti in epoca medievale, e lo sarebbe stato fino al Concilio di Trento, il principio consensualistico del matrimonio che poneva come unico elemento indispensabile e costitutivo del vincolo lo scambio reciproco del consenso nuziale. Nel corso del Cinquecento l’unione tra uomo e donna diventò una cerimonia pubblica e solenne, svolta alla presenza di testimoni, celebrata da un uomo in Chiesa in uno spazio sacro, preceduta dalla pubblicazione dei bandi per tre giorni festivi e infine registrata negli appositi libri parrocchiali1. Questo processo di sacralizzazione e di clericalizzazione aveva rivoluzionato la prassi quotidiana che fino ad allora aveva caratterizzato il matrimonio come un contratto privato.

Il consenso degli sposi, alla base del vincolo medievale, non bastò più allorché il decreto tridentino Tametsi (approvato l’11 settembre 1563) stabilì che, di fronte alla chiesa e alla presenza di due o tre testimoni, il parroco, dopo aver annunciato per tre giorni festivi, durante la messa, l’intenzione di un uomo e di una donna di unirsi in matrimonio, doveva interrogare la coppia per accettarsi del loro vicendevole consenso e pronunciare le parole Ego vos in matrimonium coniungo, secondo la consuetudine del luogo; terminata la cerimonia, il parroco era tenuto a registrarla sul libro parrocchiale. Il Concilio, apertosi nel 1545, si trasferì a Bologna nel 1551 e si concluse, dopo una lunga interruzione, a Trento. Si rafforzò il ruolo del parroco, incaricato di svolgere una funzione di mediazione tra i fedeli e le gerarchie ecclesiastiche: a lui spettava il compito di istruire i parrocchiani nei rudimenti della fede, vigilare quotidianamente sui loro comportamenti e aiutarli ad affrontare i passaggi cruciali della loro vita, ossia la nascita, il matrimonio e la morte2.

1 D. LOMBARDI, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, Bologna 2008, p. 97.

2 Ivi, pp. 102-103. Per l’applicazione del canone matrimoniale tridentino cfr. S. LUPERINI, Concubini,

adulteri e sposi clandestini dopo il concilio di Trento. Uno studio sui processi criminali e matrimoniali nella diocesi di Pisa (1565-1595), tesi di laurea, Università degli studi di Pisa, rel. A. Prosperi, a. a. 1997-

La vera rivoluzione stava proprio nella figura del sacerdote: in passato era scelto dagli sposi o dalle loro famiglie come uno dei possibili garanti dell’avvenuta unione matrimoniale. Dal 1563 in poi la sua presenza divenne insostituibile. Il parroco non era più dunque uno dei canali di pubblicizzazione del consenso (come poteva essere il notaio), ma l’unica figura legalmente riconosciuta che, in virtù della sua partecipazione alla cerimonia, conferiva legittimità all’esistenza del matrimonio. Il sacerdote non poteva essere uno qualunque, ma il parroco dei contraenti, oppure un altro parroco, ma unicamente dietro alla presentazione dell’apposita licenza concessa dal vescovo o di colui che avrebbe celebrato l’unione. Il grande cambiamento coinvolse anche la scena del matrimonio, che da atto privato concluso all’interno della casa divenne una cerimonia pubblica svolta in chiesa, assumendo così tratti assolutamente sacri.

Nel sinodo indetto nel febbraio 1564 dall’arcivescovo Niccolini vi è la traduzione in volgare del decreto Tametsi; contestualmente, i decreti tridentini vi furono accolti come grande novità, dopo un anno abbondante dalla loro promulgazione. L’ultimo sinodo celebrato dal Rinuccini nel 1581 rivela un’attenzione particolare nei confronti di quest’aspetto: i decreti tridentini in materia matrimoniale vengono ampiamente ripresi e ribaditi. Un caso esemplare di prontezza nell’applicare le prescrizioni tridentine è quella di un parroco veneziano, che non solo si dimostrò diligente, all’indomani della conclusione del Concilio, nella scrittura dei libri della sua parrocchia, ma si preoccupò di unire in matrimonio, con tutte le formalità e solennità del nuovo rito, quelle coppie che vivevano insieme uno stato di concubinaggio di fatto3.

Contestualmente, i decreti di matrice tridentina propugnavano l’adozione di comportamenti sobri e austeri, proibendo a tutti, sposi e invitati, di arrivare in ritardo, ridere e scherzare, cantare e ballare, baciare e offrire doni alla sposa, pronunciare formule magiche che scongiurassero eventuali malefici. Ma soprattutto il Concilio di Trento mutò anche il modo di concepire il rapporto fra promessa e matrimonio, svuotando la prima del suo significato di avvio al matrimonio. In altre parole, la promessa e il matrimonio diventarono due istituti nettamente distinti, e solo per il matrimonio (non per la promessa) fu elaborato un preciso rituale, senza l’osservanza del quale veniva a mancare il valore giuridico dell’atto. Tutto ciò obliterava anche l’istituto del matrimonio presunto, giacché lo sposalizio non era presumibile se non era stato celebrato secondo la norma tridentina. Di conseguenza, la promessa cominciò a perdere quel carattere di legittimazione dei

rapporti sessuali che aveva le sue radici nei diritti consuetudinari, oltre che nell’antico diritto canonico, anche perché il concilio riaffermò l’esclusiva giurisdizione ecclesiastica sulle questioni matrimoniali.

Per disciplinare la vita matrimoniale dei fedeli la Chiesa si rivolse ai tribunali diocesani, sempre più impiegati per la repressione delle trasgressioni sessuali di ecclesiastici e laici. Circoscrivere la sessualità legittima nei confini del vincolo matrimoniale fu un obiettivo precipuo dei riformatori del Concilio di Trento: ciò significava estirpare quelle consuetudini che consentivano alle giovani coppie di avere una certa intimità sessuale prima della conclusione del matrimonio4. I padri conciliari

bollarono come illegittimi gli approcci sessuali tra promessi sposi e tentarono di imporre una rigida moralizzazione dei costumi giovanili. In questo clima di forte rigorismo morale, persino le innocenti chiacchierate tra giovani di sesso diverso potevano essere considerate pericolosissime insidie alla castità e istigazioni alla lussuria5. Come scrive Daniela Lombardi, «se leggiamo i trattati dei moralisti cattolici ne emerge una concezione dell’amore del tutto negativa: l’amore produce sperdimento, indebolimento della volontà e della ragione; è una forza cieca e violenta che toglie alla persona il dominio di sé»6. Paradossalmente, l’enfasi moralizzatrice dei riformatori tridentini finì con il produrre una certa erotizzazione del linguaggio del corpo, insieme a una accentuazione della sua carica sensuale. Negli scritti dei moralisti, ad esempio, il ballo fu sovraccaricato di significati sessuali e diventò luogo privilegiato dei peccati dei sensi; in Toscana, nella lotta contro balli e amoreggiamenti, il granduca Cosimo III emanò delle leggi, negli anni tra il 1677 e il 1687, in cui si proibivano le danze intorno alle chiese nei giorni di festività religiose7.

Ma il Concilio di Trento cambiò anche il modo di concepire i rapporti sessuali tra uomini e donne: in mancanza delle celebrazioni stabilite dal Concilio stesso, le donne non ebbero più la possibilità di ricorrere al matrimonio presunto per ottenere il riconoscimento della validità del legame con il partner con cui avevano avuto rapporti sessuali; di conseguenza, la promessa seguita dalla copula non poteva più far presumere il matrimonio. Da allora in poi le ragazze avrebbero dovuto vigilare con molta più attenzione sulla propria virtù, per evitare di essere sedotte e poi abbandonate. I sinodi

4 Ivi, p. 116. 5 Ivi. 6 Ivi, p. 116. 7 Ivi, p. 118.

post-tridentini insistevano, infatti, nel proibire alle coppie di avere rapporti sessuali prima della celebrazione del matrimonio in chiesa e nel raccomandare di accorciare il più possibile i tempi tra la pubblicazione dei bandi e la celebrazione delle nozze8. Risultarono significative le volontà di alcune chiese locali di perseguire con estremo rigore i comportamenti trasgressivi. Nella diocesi di Pisa, per esempio, durante gli anni Ottanta del Cinquecento furono applicate pene esemplari: i lavori forzati per lui; il bando dalla diocesi e l’umiliazione di stare inginocchiata davanti alla chiesa con una candela in mano durante la messa, per lei9.

Un altro strumento con cui la Chiesa cercò di reprimere e controllare la vita sessuale dei fedeli era la confessione, sacramento che, proprio dal XVI secolo, si trasformò da obbligo da assolvere solo durante la Pasqua in esperienza di introspezione da ripetere frequentemente. Attraverso la confessione, la vita sessuale doveva essere sottoposta a un controllo minuzioso e continuo, nel segreto di quei confessionali introdotti nel tardo Cinquecento dall’arcivescovo milanese Carlo Borromeo (1564-1584), ma pensati già da Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona, con lo scopo di separare i penitenti dai confessori attraverso le nuove strutture lignee e di garantire la pubblicità del sacramento collocando i confessionali negli spazi aperti delle chiese10. Furono soprattutto le donne, appunto, a qualunque ceto sociale appartenessero, ad accostarsi ai nuovi confessionali ed avvertire il bisogno di intrattenere rapporti stabili e profondi con preti di loro conoscenza. Era proprio nei confronti delle donne che la chiesa stava profondendo il suo impegno maggiore allo scopo di disciplinare i comportamenti ricorrendo anche a punizioni esemplari.

Nel mondo cattolico post-tridentino si andavano affermando delle forme di protezione dal momento che, come si è detto, le nuove norme sulla celebrazione del matrimonio stabilirono rigidi confini tra la condizione di donna coniugata e quella di nubile. Le protezioni giuridiche di cui la nubile aveva goduto fin dal medioevo a difesa del suo onore cominciarono a essere messe in discussione. Si moltiplicarono difatti gli istituti di assistenza per le nubili povere che rispondevano a bisogni diversi: salvaguardare l’onore sessuale delle più giovani, recuperare quello perduto di chi già aveva avuto esperienze di vita peccaminose, fornire doti per potersi sposare, offrire segretezza per

8 Ivi, p. 119. 9 Ivi, p. 120. 10 Ivi.

sgravarsi di un parto illegittimo11. La reclusione che, per le donne cadute nel peccato, indubbiamente aveva un carattere di punizione/espiazione, era comunque finalizzata al recupero della vita matrimoniale e familiare, o in alternativa, conventuale. L’offerta di assistenza rafforzava in tal modo i consueti ruoli femminili, incoraggiando le ragazze “ancora oneste” a perseguirli con maggiore determinazione e dando un’opportunità di ritornare sulla buona strada a quelle “disoneste”12.

Quanto, però, i principi esposti dai padri conciliari trovassero un’effettiva attuazione è da vedere; nemmeno il clero, infatti, almeno nella Pisa a cavallo fra Cinque e Seicento, rispondeva agli standard che ci sarebbe aspettati da uomini di Chiesa impegnati a propagandare i valori evangelici e, anche, quelli elaborati al Concilio di Trento: il monaco Michele da Cesena, conventuale del monastero di S. Michele degli Scalzi, rivelò infatti che, insieme al confratello Cosimo da Volterra, aveva soggiornato presso una meretrice a Lucca, di nome Lucrezia, e di essersi congiunto carnalmente con lei, come già abbiamo descritto nel paragrafo precedente.

Per dare conto di alcune pratiche magiche relative alla vita matrimoniale, non pare inutile richiamare alcune usanze ancora presenti in Sicilia: qui, infatti, la morale sessuale impostasi in età tridentina ha lasciato forti evidenze e, in alcune zone la nozione di verginità va dalle prime mestruazioni alla loro cessazione13. Di questo arco temporale la prima notte di nozze è il momento semioticamente più pregnante, durante il quale si compie, grazie all’uomo, il naturale e necessario completamento della donna: essa non solo diventa madre, ma si avvia a perdere quelle manie che la cultura popolare associa al pari della condizione virginale. Il controllo si irrigidiva fortemente al momento del fidanzamento: la “vigilanza delle ragazze vergini”, esse stesse custodi della loro purezza, nella società tradizionale siciliana era tale da ridurre notevolmente il rischio di sorprese al momento delle nozze. Allo sposo spettava dunque il maggiore “onere della prova” della verifica sul corpo della donna, in una situazione in cui la tensione per lungo tempo accumulata portava all’angoscia di non poter procreare14.

Il mancato consumo del rapporto sessuale con la donna si attribuiva a un’azione incantatoria che nei paesi dei Nebrodi, ma in genere in tutta la Sicilia, prende il nome di

11 Ivi, p. 130. 12 Ivi.

13 S. D’ONOFRIO, La vergine e lo sposo legato, «Quaderni Storici», XXV (1990), pp. 859-868, p. 862. 14 Ivi, p. 865.

“ligu” o “ligatura”15. Esistono diverse credenze all’uso di questo Ligu, ma tutte vogliono

che esso venga recitato durante la cerimonia nuziale. Chi, per conto proprio o su richiesta di terzi, faceva la “legatura” doveva procurarsi qualcosa che, secondo un principio di magia simpatica, sia stata a contatto con la vittima designata: un oggetto personale, o meglio, un capello da sistemare in chiesa sotto il leggio dove il prete pone il messale16. L’intenzionato a mettere in pratica il rito magico si doveva trovare dentro la chiesa prima dell’arrivo degli sposi, dove avrebbe dovuto recitare per tre volte la prima parte della formula. La seconda parte del ligu è recitata,ancora tre volte e con l’annodamento di un nastrino, al momento dell’elevazione17. Tale nastrino era conservato dall’operatore

magico che lo avrebbe bruciato soltanto quando ci si fosse rivolti a lui per l’azione contraria di scioglimento.

Lo sdilligu o scioglimento veniva recitato, stavolta ad alta voce, in presenza della persona interessata o di un oggetto che le apparteneva: “In nomu di la Madonna iu ti sdilligu e senza dannu a mari iu lu mannu a un avi pinsieri pi circallu cerca tuttu u funnu du mari e mai l’avi a truvari”18. Dentro il materasso era sistemato un pezzo di ferro o un

oggetto tagliente e/o un indumento attorcigliato affidato alle cure di qualche fattucchiera. Quest’ ultima sarebbe intervenuta due-tre giorni dopo sullo stesso indumento qualora gli sposi non fossero riusciti a congiungersi. Nei casi più gravi la “ligatura” poteva essere sciolta da un maiaru chiamato dai genitori, il quale recitava l’orazione assistendo talvolta alla congiunzione nascosto dietro a una tenda19.

Perché la legatura potesse avere effetto la donna doveva essere vergine: il racconto di due contadini, Filippo e Grazia, ce lo testimonia: «quando si coricavano il fidanzato con la fidanzata? Quando tornavano dalla chiesa, quella era la prima sera. Ora, siccome in chiesa ci si arrivava con la donna che non era ancora toccata, c’erano persone che si passavano questo piacere, si mettevano al fonte e sapevano le cose che dovevano dire; gli facevano la legatura e loro non potevano fare niente. Per potersi congiungere dovevano

15 Ivi. Del resto, già il Malleus maleficarum attribuiva alle streghe la capacità di «impedire la potenza generativa», «impedendo direttamente l’erezione del membro» (cfr. KRÄMER, SPRENGER, Il martello

delle streghe, cit., pp. 212-213. Inoltre, scrivono: «un simile impedimento è praticato sia dall’interno che

dall’esterno. Lo praticano dall’interno in due modi: in primo luogo impedendo direttamente l’erezione del membro necessaria all’unione feconda […]. In secondo luogo, impediscono il getto degli spiriti diretti ai

membri in cui risiede la capacità motrice, come otturando i condotti seminali affinché il seme non scenda verso i vasi della generazione, né vi sia emissione o eiaculazione»).

16 Ivi. 17 Ivi. 18 Ivi. 19 Ivi.

cercare chi aveva fatto la legatura, uscire i soldi, altrimenti si separavano»20; e poi ancora: «ce ne fu una che al fidanzato gli fecero la legatura, donna S. si chiamava. Lui non la cercò per nulla la notte e lei se ne tornò nuovamente dal padre. Poi il marito si prese quella che gli aveva fatto la legatura. La legatura si fa all’uomo, ma patiscono entrambi, certo il marito di più patisce»21.

Poiché la verginità della ragazza era condizione necessaria alla “legatura” dello sposo il giorno delle nozze, il rimedio più sicuro perché ciò non avvenisse era la congiunzione prematrimoniale. La congiunzione preventiva, che in apparenza sembra rispondere soltanto al richiamo delle passioni o al timore di una “legatura” dello sposo, consentiva a quest’ultimo di decidere di fronte alla presunta impurità della donna, giacché la simulazione della legatura consentiva allo sposo di guadagnare tempo22.

Ricollegandosi a tale concetto è esemplare una testimonianza che risale al 1531 di un tale Sebastian, di un villaggio di Willisau che si sentiva perseguitato da una donna che, con le sue azioni e i suoi poteri, aveva ridotto la sua vita a uno stato di vero e proprio terrore. Egli era impotente con la moglie e non aveva dubbi che quest’opera fosse di opera di Sturmlin, specializzata in cure magiche23.

Le credenze connesse alla “legatura” dello sposo avevano trovato terreno fertile anche nella Pisa della Controriforma. Ne è spia, come abbiamo già detto nel paragrafo precedente, la vicenda del milanese Bartolomeo Benzoni, che si presentò – all’inizio del 1622 – al Sant’Uffizio pisano per denunciare di essere stato vittima di un incantesimo da parte di una meretrice di nome Ginevra, soprannominata La Bianca, originaria di Lucca24. La malia aveva prodotto i suoi effetti dal giorno di S. Giovanni, a partire dal quale non era più stato in grado di avere rapporti sessuali con la moglie. Per questa ragione, in preda allo sconforto, egli aveva provato a seguire le indicazioni di una donna conosciuta all’osteria, che gli aveva raccomandato di urinare presso un fonte battesimale profferendo una formula magica. Se la causa dell’impotenza dell’uomo, con un buon grado di certezza, potrebbe ricondursi a una malattia venerea trasmessagli da Ginevra, il milanese, parlando davanti all’inquisitore, fu sicuro nell’attribuirne la ragione a un incantesimo lanciato dalla donna: soprattutto, perché i sintomi della malia sembravano scomparire

20 Ivi. 21 Ivi. 22 Ivi.

23 COHN, I demoni dentro, cit., p. 256.

24 Su questo punto cfr. C. JEMOLO, Il matrimonio nel diritto canonico. Dal Concilio di Trento al Codice

secondo il volere di costei («Ginevra mi disse: o tu sei il bel matto; va’ a casa questa sera e vederai che usarai con tua moglie, e tornando a casa fu vero ciò che mi disse, e dall’hora in qua non ho potuto più usarli»).

L’argomento sociale dello “scandalo” si prestava bene per motivare la condanna nei confronti dei rapporti sessuali fra i promessi sposi, una condanna che indicava e puniva come responsabili soprattutto i maschi: lo sposo, ma anche il padre, i fratelli e gli altri parenti della sposa. Si trattava dell’usanza di consumare il matrimonio qualche tempo prima (forse appena pochi giorni prima) della sua benedizione da parte del sacerdote, ma successivamente agli sponsali: una pratica diffusissima, e non solo in Toscana. Questo costume soddisfaceva anche esigenze d’ordine economico-sociale quali il progressivo consolidamento di legami familiari e la conferma delle promesse dotali che trovava una motivazione più profonda nella cultura folklorica mediterranea: la paura che il momento pubblico della celebrazione per verba de praesenti costituisse l’occasione più propizia per mettere in atto i sortilegi capaci di “legare”, cioè rendere impotente lo sposo sin dagli inizi dell’unione, al fine di provocare il fallimento matrimoniale con tutto il suo ovvio strascico di nefaste conseguenze non solo per i diretti interessati, ma anche per i rispettivi gruppi familiari.

Così, per parare eventuali malefici stregoneschi si ricorreva ad un rimedio preventivo: bastava invertire l’ordine temporale fra la celebrazione e la consumazione del matrimonio perché la fattura del “legamento” perdesse gran parte della sua efficacia o, almeno, diventasse meno dannosa per il contesto sociale. La Chiesa, a sua volta, non negava l’esistenza di questo tipo di malefici in ambito coniugale, però non accettava questa forma di prevenzione e proponeva un rimedio post-factum con una particolare Oratio pro impeditiis in matrimonio a demone, vel maleficiis: una risposta tardiva, che non eliminava le tensioni prevedibili tanto fra i familiari che fra gli stessi coniugi, oltre a negare implicitamente la valenza magico-sacramentale attribuita dalla cultura folklorica alla consumazione del matrimonio25.

L’apposito rito per sciogliere la legatura dello sposo recitava: «sacerdos cum super pelliceo et stola super vitìrum et mulierem impeditos sequentem orationem dicit videlicet» (il prete con il cappuccio e la stola pronuncia la seguente orazione sopra il