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I processi che ho messo in luce nelle pagine precedenti suggeriscono un ricorso alle pratiche magiche fondate su una ‘letteratura’ di settore, costituita da testi come la Clavicula Salomonis, ossia un libro magico che circolava clandestinamente nell’Europa d’età moderna. Un processo tenutosi a Venezia nel 1632 attesta, infatti, che un soldato addetto alle bombarde lo aveva compulsato per ottenere successi in amore e per tutelarsi durante le attività belliche1. Si trattava, in realtà, di una congerie composita di testi riuniti sotto un unico nome, «scritti magici diversi utilizzati per scopi pratici e attribuiti dalla credenza popolare e da leggende diffuse in tutto il Mediterraneo al biblico Salomone»2. Il processo contro Elena da Travale invece, mostra che costei attingeva al retaggio di una tradizione dalla sopravvivenza plurisecolare, sopravvissuta alla cristianizzazione delle campagne avviata in epoca carolingia; al contrario, coloro che, nel 1596, si recarono – come vedremo fra poco – a Gavorrano alla ricerca di un tesoro, lo fecero sulla scorta degli incantesimi letti sulla Clavicula, specificamente deputati alla ricerca dell’oro3. Certamente, si ravvisano anche dei punti di contatto: ad esempio, anche Elena dimostra un’attenzione particolare alla cintola del bersaglio dell’incantesimo, così come Solomea aveva piazzato la calamita nella cintura di Ludovico; e anche Elena, così come le donne di cui abbiamo parlato, confezionava incantesimi per assicurarsi l’amore di qualcuno (in questo caso, usando dei nidi di rondine, pratica che rimanda, ancora di più, a usanze ancestrali).

Per rimanere al confronto fra le due tipologie di processo, quello di Elena mostra una Chiesa ancora pienamente calata nella societas christiana, in cui le istituzioni ecclesiastiche e quelle laiche si compenetravano, o quantomeno operavano in simbiosi (si consideri, ad esempio, che 50 fiorini che Elena avrebbe dovuto pagare come sanzione per i suoi malefici avrebbero dovuto essere distribuiti fra i poveri di Travale da due uomini, l’uno scelto dal Comune di Travale, l’altro designato dal pievano di Radicondoli). La stessa pena inflitta a Elena, del resto, doveva espiarsi in uno spazio pubblico e laico, cuore pulsante della città. (la piazza del Comune del caput diocesis). Al contrario, la Chiesa

1 G. MINCHELLA, Pratiche di magia nella Repubblica di Venezia in età moderna, in Magia, superstizione,

religione: una questione di confini, Roma 2015, pp. 67-99.

2 Cfr. M. INFELISE, I libri proibiti. Da Gutenberg all'Encyclopédie, Roma-Bari 1999, p. 77.

3 Anche Oriana, la strega, originaria di Pienza e trasferitasi a Siena, studiata da Oscar Di Simplicio, era abile nell’imbastire incantesimi per trovare i tesori (DI SIMPLICIO, Autunno della stregoneria, cit., p. 289).

della Controriforma operava in assoluta autonomia, non di concerto con le ma al di sopra delle autorità secolari: tutto il procedimento, dall’istruttoria alla pena, era seguito dal padre inquisitore; la pena, poi, doveva espletarsi in uno spazio sacro, come una chiesa (ad esempio quella di S. Francesco di Pisa), e il ruolo delle magistrature laiche era soltanto quello di obbedire ai mandati dell’inquisitore.

Il processo di Clarice, invece, ha mostrato la completa supervisione della vicenda da parte del padre inquisitore. L’Inquisizione, in altri termini, si configurava come un’istituzione sopra e non tra le altre, anche se i poteri sui quali essa agiva potevano ben risentirsene. Così avvenne, appunto, proprio nel caso di Clarice: chiusasi la vicenda della rea con la solenne assoluzione nel dicembre 1581, infatti, uno dei redattori del nostro processo, frate Lattanzio, inserisce a quest’altezza un flash-back, particolarmente interessante per l’analisi dei rapporti fra autorità inquisitoriali e istituzioni politiche nella Toscana dell’età di Francesco I. Frate Geronimo aveva inviato il proprio notaio dal bargello pisano per farsi consegnare due donne – una delle quali era la nostra Clarice – che dovevano essere esaminate dal Sant’Uffizio. Lattanzio condusse con sé la lettera granducale che, sostanzialmente, autorizzava l’inquisitore ad applicare a quel «palleologo» del bargello le censure ecclesiastiche nel caso in cui quest’ultimo non avesse voluto collaborare4.

La cornice in cui avvennero questi fatti è quella del «rafforzamento dei tribunali e degli organi di controllo centrali» promosso da Cosimo I (pur nel contesto di una forte tenacia delle «strutture e forze comunitative»5). Che il bargello non considerasse vincolanti le disposizioni dell’inquisitore lo dimostra il fatto che l’ufficiale sostenne che la lettera del granduca non riguardava il caso specifico («la quale lettera lui disse che era cosa particolare, et che non si estendeva a queste donne»), e, anzi, davanti alle proteste

4 Forse il sostantivo «palleologo» impiegato nel testo del processo ha l’accezione di scismatico, eretico; potrebbe rappresentare anzi un’antonomasia da Palleologo, il famoso eretico nato nell’isola di Scio fra il 1520 e il 1530: cfr. G. COLOMBO, Notizie e documenti inediti sulla vita di M. Giovanni Francesco

Bonomi, Vescovo di Vercelli, «Miscellanea di Storia Italiana», XVIII (1879), pp. 523-624, p. 589. I bargelli

erano «nominati direttamente dal sovrano», ed erano «coadiuvati da luogotenenti e da un numero variabile di birri» (EDIGATI, Gli occhi del Granduca, cit., p. 111).

5 E. FASANO GUARINI, Considerazioni su giustizia, Stato e società nel Ducato di Toscana del

Cinquecento, in Florence and Venice: comparisons and relations, Firenze 1979, II, pp. 135-168:156. A

questo proposito, cfr. anche la lettera di Francesco I all’inquisitore di Toscana ed. in L. GALEOTTI,

L’archivio centrale di Stato nelle sue relazioni con gli studi storici, «Archivio Storico Italiano», II/2 (1855),

pp. 63-115: 105: «nei nostri Stati non vogliamo altri padroni che noi, né che alcuno pretenda di legare i nostri vassalli senza noi». L’A. fa anche cenno alla vicenda particolare del nostro bargello («e quando l’inquisitore di Pisa aveva annunziato un grande spettacolo per due povere donne,

ed il popolo era già convocato, il commissario rispose che non poteva consegnarle senza l’ordine del Granduca»).

del notaio dell’inquisitore, l’ufficiale rispose che aveva faccende più impellenti da sbrigare, come catturare alcuni banditi che infestavano il territorio pisano («ho inteso che sono qua certi banditi e bisogna che io vada et non importa che si avia più oggi che un altro giorno»)6.

Fu così che il bargello si trovò sottoposto a solenne scomunica («però io li tengo per excomunicati et sospeti di eresia»)7, revocata direttamente dalla Sede Apostolica (come suggerisce un’annotazione marginale sulla carta) il 9 gennaio 1582. Del resto, la titubanza del bargello pisano deve essere letta anche alla luce del precario controllo territoriale che i meno di 30 uomini – secondo i calcoli di Franco Angiolini – di cui costui disponeva riuscivano ad attuare; tanto più che la cattura e la repressione dei banditi erano attività «largamente ricompensate dalla vasta legislazione premiale vigente»8. Come

sottolineato anche da Elena Fasano Guarini, «non è difficile constatare la scarsità delle forze dell’ordine (sbirri, bargelli) prima della tarda istituzione di un corpo di polizia»9.

Ma potrebbe esserci anche di più della necessità di reprimere i banditi, e cioè la volontà di «ricordare ai frati che l’aiuto del “braccio secolare” doveva essere negoziato», all’insegna di un logoramento delle prerogative del S. Uffizio toscano10.

Il processo ai danni di Lucrezia, invece, vide una proficua collaborazione fra le autorità secolari e l’Inquisizione. Davanti alla muta reticenza della donna, frate Felice da Pistoia – che in quel momento agiva sia in qualità di «proinquisitore» (ossia supplente dell’inquisitore titolare della sede inquisitoriale pisana), sia di notaio verbalizzatore del procedimento giudiziario – fu costretto a chiamare segretamente i birri del bargello di Pisa, per concretizzare ai suoi occhi la minaccia di condurla in prigione («hora hora ti farò menare in prigione»11).

6 AAPi, Sant’Uffizio, II, c. 392v. 7 Ivi.

8 F. ANGIOLINI, Le bande medicee tra “ordine” e “disordine”, in Corpi armati e ordine pubblico in Italia

(XVI-XIX sec.), a c. di L. Antonielli, C. Donati, Soveria Mannelli 2003, pp. 9-47: 27; E. FASANO

GUARINI, Potere centrale e comunità soggette nel Granducato di Cosimo I, «Rivista storica italiana», LXXXIX (1977), pp. 490-538; Ead., Gli “ordini di polizia” nell’Italia del ‘500: il caso toscano, in Policey.

Im Europa der Frühen Neuzeit, a cura di M. Stolleis, Frankfurt am Main 1996, pp. 55-95: 81, EDIGATI, Gli occhi del Granduca, cit., p. 112 (da cui le citazioni relative al bargello).; J.K. BRACKETT, Criminal justice and crime in late Renaissance Florence, 1537-1609, Cambridge 1992.

9 Fasano Guarini, Gli “ordini di polizia”, cit., p. 91.

10 A. PROSPERI, L’inquisizione romana: letture e ricerche, Roma 2003, p. 203. 11 AAPi, Sant’Uffizio, II, c. 373r.

FORME E MANIFESTAZIONI DEL DEMONIO FRA SUPERSTIZIONI DEL