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CARATTERIZZAZIONE FISICO-CHIMICA, BIOCHIMICA E PEDOGEOCHIMICA DEI SUOL

5. Caratterizzazione fisico-chimica, biochimica e pedogeochimica dei suol

5.1.1 Scelta dei punti di campionamento e analisi di laboratorio

5.1.1.4 Analisi biochimiche

Attività enzimatiche

Il suolo non deve essere considerato un ambiente isolato, in quanto sussistono interazioni dirette tra di esso ed i microrganismi, l’acqua, l’aria, le piante e gli animali (Drozdowicz, 1997).

La produttività dell’ecosistema suolo e la sua funzionalità ecologica si basa principalmente sulla relazione tra la sostanza organica e le proprietà biofisiche e chimiche e l’attività biologica del suolo (Masciandaro e Ceccanti, 1999; Marinari et al., 2000, 2007).

L'attività biologica del terreno merita una particolare attenzione per la sua rilevanza nella dinamica dell'ecosistema suolo nel favorire il miglioramento della salute del suolo e la produttività delle piante (Bertiller et al., 2009).

La biomassa microbica del suolo, in particolare, svolge un ruolo essenziale nei processi di trasformazione della materia organica e nella stabilizzazione della struttura del suolo (Doran e Parkin, 1994; Marinari et al., 2000).

La mineralizzazione della sostanza organica effettuata da una vasta comunità di organismi del suolo coinvolge un gran numero di processi metabolici mediati da attività enzimatiche (Alef e Nannipieri, 1995; Garcia e Hernandez, 1997; Nannipieri et al., 2002).

Le attività enzimatiche sono parametri non convenzionali che costituiscono degli specifici marcatori dei processi biologici nel suolo. Per attività enzimatica si intende quindi la capacità di un suolo, dovuta alla presenza di determinati enzimi, di “stimolare” alcune reazioni biochimiche che avvengono spontaneamente nel suolo. La misura delle attività enzimatica (cioè la produzione dei composti che si originano dalla reazione che l’enzima catalizza) permette di valutare quantità di enzimi attivi presenti in nel suolo.

Gli enzimi, prodotti soprattutto dai microrganismi del suolo, sono dei catalizzatori biologici di innumerevoli reazioni che si svolgono nel suolo. Essi sono considerati i mediatori di tutti i processi che caratterizzano il metabolismo del suolo e hanno un ruolo chiave nell’interazione tra i processi biologici, chimici e biochimici. Gli enzimi del suolo possono esistere in forma di enzimi extracellulari (presenti in fase acquosa, legati a complessi umo-enzimatici, etc.) oppure essere associati a microrganismi, come ad esempio la deidrogenasi (enzima intracellulare).

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che avvengono nel suolo, per cui sono in grado di fornire rapidamente informazioni accurate sui cambiamenti della qualità del suolo.

Le attività enzimatiche possono essere usate come indicatori utili per l'interpretazione del funzionamento degli ecosistemi del suolo e come indicatori della qualità e della condizione metabolica del suolo (Masciandaro e Ceccanti, 1999; Ceccanti e Masciandaro, 2003), grazie alla loro stretta relazione con la componente microbica del suolo (Frankenberger e Dick,1983), alla relativa facilità di misura, alla loro capacità di rispondere rapidamente ai cambiamenti indotti nelle proprietà del terreno dalle diverse pratiche di gestione del suolo (Dick e Tabatabai, 1994), dai cambiamenti di uso e copertura del suolo e da altri effetti esterni quali il clima avverso e lo stress ambientale (Acosta-Martinez et al., 2007).

Determinazione delle attività enzimatiche

Nella presente ricerca sono stati studiati quattro enzimi al fine di stabilire il loro specifico ruolo nella decomposizione della materia organica e nel ciclo dei nutrienti nei suoli studiati (Alef e Nannipieri, 1995; Makói e Ndakidemi, 2008).

L'estrazione di enzimi dal suolo è resa complicata dai molteplici microhabitat nei quali essi possono agire; è per questo che gli enzimi del suolo vengono studiati mediante la determinazione della loro l'attività. L'attività di un determinato enzima nel suolo è, in realtà, la risultante di diverse attività che possono essere associate con la componente biotica e abiotica del terreno.

L’interpretazione di queste attività può fornire una opportunità unica per la valutazione biologica integrata del suolo a causa del loro ruolo fondamentale in diverse interazioni biologiche e la loro rapida risposta ai cambiamenti nelle pratiche di gestione del suolo (Bandick e Dick, 1999).

Le attività enzimatiche sono state determinate mediante prove effettuate in doppio. Parallelamente alle prove, ne sono state eseguite altre di controllo in cui è stato incubato il campione nelle stesse condizioni ma in assenza di substrato, allo scopo di determinare un’eventuale presenza nel campione del prodotto di reazione che prescinde dall’aggiunta del substrato e di correggere, in tal caso, le misure.

Tutte le soluzioni acquose impiegate nelle attività enzimatiche sono state rigorosamente preparate utilizzando acqua bidistillata.

185 β-Glucosidasi

La β-glucosidasi, enzima relazionato con il ciclo del carbonio, è una idrolasi ed è coinvolta nella degradazione microbica della cellulosa a glucosio (Alef e Nannipieri, 1995).

La β-glucosidasi idrolizza i gruppi terminali non riducenti del cellobiosio (dimero del glucosio derivante dalla degradazione della cellulosa) liberando β-D-glucosio, secondo lo schema di reazione seguente.

Questo enzima riflette pertanto lo stato della materia organica del suolo e la sua attività è strettamente legata alla presenza di composti del carbonio nel suolo (Cook e Allan, 1992). La degradazione e la mineralizzazione della cellulosa sono i principali processi del ciclo del carbonio nel suolo e quindi, l’attività β-glucosidasica è considerata un valido indicatore di turnover della sostanza organica in quanto “si attiva” quando vi sono in atto processi di degradazione delle strutture cellulosiche (Wick et al.,1998).

La determinazione dell’attività di quest’enzima si basa sul metodo di Garcia et al. (1993a). Tale metodo consiste nella determinazione per via colorimetrica del rilascio del para- nitrofenolo (PNF), dopo l’incubazione dei campioni di terreno con para-nitrofenil- glucoside (PNG) (substrato di reazione).

Nelle provette di plastica da 10 ml sono state preparate sia le prove sia i controlli.

• Prove: 0,5 g di terreno + 2 ml di tampone maleato 0,1M pH 6,5 + 0,5 ml di substrato PNG (4-nitrofenil-

β

-D-glucopiranoside) 0,05 M.

• Controlli: 0,5 g di terreno + 2 ml di tampone maleato 0,1M pH 6,5.

Le prove e i controlli sono stati messi ad incubare nel bagno termostatico (tipo Doubnoff) per 2 ore a 37°C sotto agitazione. Una volta terminato il periodo d’incubazione, anche nei controlli sono stati aggiunti 0,5 ml di substrato (PNG) e il tutto (prove e controlli) è stato posto a raffreddare a 4°C per 10 minuti per bloccare la reazione. Quindi a prove e controlli

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sono stati aggiunti 0,5 ml CaCl220 0,5 M e di 2 ml di NaOH21 0,5 M. È stato portato a volume (10 ml) con acqua bidistillata e in seguito si è centrifugato per 10 minuti a 3500 rpm. Il sopranatante è stato letto allo spettrofotometro ad una lunghezza d’onda di 398 nm. Le densità ottiche rilevate dallo strumento sono state trasformate in concentrazioni mediante una retta standard, ottenuta con concentrazioni note di PNF. I risultati sono espressi in µgPNF/gSS⋅h. Valore massimo di assorbanza accettato: 1.

Fosfatasi

Con il termine fosfatasi si indica un gruppo di enzimi che catalizzano l’idrolisi degli esteri fosforici a fosfato; secondo il seguente schema di reazione:

R O P O O O H2O + Fosfatasi ROH + O O P O H O

Si tratta quindi di enzimi legati al ciclo del fosforo. Rivestono nel suolo una particolare importanza, perché svolgono un ruolo fondamentale nella mineralizzazione del fosforo, presente principalmente in forma organica, a fosforo minerale (PO4) disponibile per la nutrizione delle piante.

Le fosfatasi possiedono una bassa specificità e sono quindi capaci di catalizzare reazioni a partire da diversi tipi di substrato (Alef e Nannipieri, 1995).

Il metodo è basato sulla determinazione per via colorimetrica del para-nitro-fenolo (PNF), prodotto dall’idrolisi del para-nitrofenil-fosfato-esaidrato (PNP) che è il substrato impiegato in questo saggio enzimatico (Nannipieri et al., 1980).

Sono state utilizzate provette di plastica da 10 ml, sia per le prove che per i controlli.

• Prove: 0,5 g di terreno + 2 ml di tampone maleato 0,1M pH 6,5 + 0,5ml di substrato PNP (para-nitrofenil-fosfato-esaidratato 0,115 M).

• Controlli: 0,5 g di terreno + 2 ml di tampone maleato 0,1 M pH 6,5.

Prove e controlli sono stati posti in agitazione nel bagno termostatico per 1 ora e 30 minuti

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Il CaCl2 viene aggiunto per bloccare la reazione e per prevenire la dispersione dei colloidi che interferirebbero con la lettura spettrofotometrica.

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a 37°C. Una volta terminato il periodo d’incubazione, sono stati aggiunti anche ai controlli 0,5 ml di substrato (PNP) e i campioni sono stati posti a raffreddare a 4°C per 10 minuti per bloccare la reazione. A questo punto a tutte le prove e ai controlli sono stati aggiunti 0,5 ml di CaCl222 0,5 M e 2 ml di NaOH23 0,5 M. I campioni sono stati portati ad un volume finale di 10 ml con acqua bidistillata e successivamente sono stati centrifugati per 10 minuti a 3500 rpm. Il sopranatante viene letto allo spettrofotometro ad una lunghezza d’onda di 398 nm.

Valore massimo di assorbanza accettato: 1.

Le densità ottiche rilevate dallo strumento sono state trasformate in concentrazioni mediante una retta standard ottenuta con soluzioni di PNF a concentrazione nota. I risultati sono espressi in µg PNF/gSS⋅h.

Proteasi

Le proteasi appartengono ad una classe di enzimi con la funzione di catalizzare l’idrolisi delle proteine in peptidi, che vengono poi idrolizzati dalle peptidasi in amminoacidi. Tali enzimi giocano un ruolo importante nel ciclo dell’azoto nel suolo; sono infatti responsabili della trasformazione dell’azoto proteico in azoto ammoniacale che viene assorbito delle radici delle piante. Le proteasi agiscono sui substrati dipeptidici, idrolizzandoli e liberando NH3. Vista l'abbondanza di proteine e peptidi nel suolo, le proteasi, probabilmente, forniscono gran parte dell'azoto biodisponibile.

Gli enzimi proteasi sono prodotti da una vasta gamma di batteri, attinomiceti e funghi (Kumar e Takagi, 1999) ehanno di solito un’alta substrato-specificità (Kalisz, 1988). Nel suolo la proteasi è un enzima principalmente extracellulare: in genere l’idrolisi del legame peptidico di proteine ad alto peso molecolare avviene infatti all’esterno della cellula microbica con produzione di piccoli peptidi e amminoacidi che vengono poi assorbiti dalle cellule microbiche e metabolizzati (Ceccanti e Garcia, 1994).

In provette di plastica da 10 ml sono stati preparati sia le prove sia i controlli.

• Prove: 1 g di terreno + 2 ml di tampone fosfato 0,1 M + 0,5 ml di substrato BAA (N-

α

-Benzoil-L-

α

-Arginammide-Hydrochloride) 0.03 M

• Controllo: 1 g di terreno + 2 ml di tampone fosfato 0,1 M

22 Il CaCl

2 previene la dispersione dei colloidi, che interferirebbero con la lettura. 23 L’NaOH serve per salificare il prodotto ottenuto, conferendogli un colore giallo.

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Prove e controlli, una volta preparati, sono stati incubati a 40°C per 1 ora e 30 minuti. Terminata l’incubazione, sono stati aggiunti anche ai controlli 0,5 ml di substrato. Successivamente, sia le prove che i controlli sono stati portati a volume (10 ml) con acqua bi distillata e centrifugati a 3000 rpm per 10 minuti. Successivamente, sono stati prelevati dalle prove e dai controlli 0,5ml di estratto chiaro (non più di 1 ml) che è stato trasferito in nuove provette da 10ml. Lavorando sotto cappa, sono stati aggiunti 2,5 ml della soluzione di salicilato-Na/NaOH, 1ml di dicloisocianurato di sodio e si è portato a volume (10ml). Si è agitato e si è lasciato riposare per 30 minuti.

Successivamente i campioni sono stati letti allo spettrofotometro alla lunghezza d’onda di 690 nm. Valore massimo di assorbenza accettato: 1,5 (per valori maggiori è necessario eseguire una diluizione).

Le densità ottiche rilevate dallo strumento sono state trasformate in concentrazioni mediante una retta standard. I risultati sono stati espressi in µg NH3/gSS⋅h.

Deidrogenasi

Le deidrogenasi sono enzimi intracellulari, appartengono al gruppo delle ossidoreduttasi e catalizzano l’ossidazione di composti organici con separazione di due atomi di idrogeno che sono trasferiti alla molecola del NAD+ o NADP+.

Il processo della deidrogenazione può essere così riassunto: XH2 + A ⇔ X + AH2

dove XH2 è un composto organico donatore di idrogeno e A è l’accettore.

L’enzima deidrogenasi viene utilizzato comunemente come una misura dell’attività metabolica globale del suolo (Masciandaro et al., 2000).

Il substrato della reazione è costituito dalla sostanza organica, mentre il cofattore sintetico utilizzato per la misura dell’attività deidrogenasica è costituito dall’INT (p-iodio-Nitro- Tetrazolium-chloride) che per riduzione forma un prodotto colorato (INTF) (p-Iodo-Nitro- Tetrazolium-Formazano) determinabile per via spettrofotometrica.

Questa attività enzimatica si determina secondo il metodo messo a punto da Garcia et al. (1993).

I campioni e le prove sono stati preparati in provette di plastica da 10 ml.

Prove: 0,5 g di terreno + 0,2 ml di substrato INT (p-Iodo-Nitro-Tetrazolium- chloride) allo 0,4% in H20 deionizzata + 0,1 ml d’acqua bidistillata (per portare il

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terreno al 60% della capacità di campo).

• Controlli: 0,5 g di terreno + 0,3 ml d’acqua bidistillata (per portare il terreno al 60% della capacità di campo).

Prove e controlli sono stati fatti riposare per 20 ore al buio; non occorre tappare le provette perché l'INT prevale sull’ossigeno (il naturale substrato della deidrogenasi,) nell'accettare gli elettroni, è quindi sufficiente coprire le provette con della carta stagnola. L'INTF, che è il prodotto della reazione di ossido-riduzione, è insolubile in acqua, ed è stato estratto mediante aggiunta, con pipetta di vetro di precisione, di 5 ml di una soluzione estraente composta da tetracloroetilene e acetone (1:1,5). Si è agitato meccanicamente per circa 1 minuto. Successivamente, prove e controlli sono stati centrifugati a 3500 rpm per 10 minuti. Dopo la centrifugazione si è formato un sistema bifasico, in cui lo strato inferiore (quello più pesante) risulta colorato di rosa. Utilizzando delle pipette di vetro Pauster è stata prelevata la soluzione colorata, che stata poi trasferita nelle cuvette di quarzo/vetro per la lettura spettrofotometrica. Le letture sono state effettuate alla lunghezza d'onda di 490nm (le cuvette sono state avvinate, di volta in volta, con la soluzione estraente).

Valore massimo di assorbanza accettato: 0,4.

Le densità ottiche rilevate dallo strumento sono state trasformate in concentrazioni, espresse in µg INTF/gss⋅h, mediante una retta standard ottenuta con concentrazioni note di INTF.

Glomalina

La glomalina è una glicoproteina prodotta da funghi micorrizici arbuscolari (AMF - Arbuscular Mycorrhizal Fungi), appartenenti al phylum Glomeromycota e all’ordine Glomales (Schubler, 2001), che vivono in associazione con le radici della maggior parte delle piante terrestri (Wright et al., 1996; Wright e Upadhyaya, 1996; Wright et al., 1998a, Wright et al., 2006).

Le piante e i funghi simbionti interagiscono con mutuo beneficio: i funghi colonizzano le radici ottenendo composti del carbonio che sono incapaci di sintetizzare, mentre le piante ricevono i macro e i micro nutrienti presenti nel suolo assorbiti e traslocati dalla rete ifale extraradicale (Smith e Read, 1996; Giovannetti et al., 2001; Giovannetti e Avio, 2002). Tali funghi sono quindi organismi chiave del sistema pianta/suolo, sono di fondamentale importanza sia per la fertilità del suolo che per la nutrizione della pianta, le loro ife sono

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infatti capaci di estendersi per molti metri nel terreno e di assorbire e traslocare alle radici i macro- e i micronutrienti presenti nel suolo (Smith e Read, 1996; Giovannetti e Avio, 2002).

La glomalina, scoperta relativamente di recente (nel 1996) dalla scienziata del suolo Sara F. Wright (USDA Agricultural Research Service), ad oggi non è stata ancora definita dal punto di vista biochimico (Rillig e Steinberg 2002; Gillespie et al., 2011; Singh et al., 2013).

La glomalina viene descritta come un abbondante componente della materia organica del suolo. Essa contiene: 3-5% di N, 28-42% di C (Lovelock et al., 2004),6% di H, 33-49% di O, 0,03- 0,1% di P (Schindler et al., 2007), 0,8-8,8% di Fe (responsabile del colore rossastro dell’estratto di glomalina) (Wright e Upadhyaya, 1998; Rillig et al., 2001).

Secondo recenti ricerche, tale proteina non viene essudata dalle ife ma è contenuta nelle pareti delle ife stesse (Driver et al., 2005) che, una volta morte e decomposte, rilasciano il loro contenuto di glomalina nel suolo (Treseder e Allen, 2000), che si accumula nel terreno come “Glomalin-Related Soil Protein” (GRSP) in quantità variabile (tipicamente, da 2 a 15 mg/g e fino ad oltre 60 mg/g) (Rillig et al., 2001; Nichols et al., 2004).

La concentrazione di glomalina nel suolo varia principalmente a causa di alcuni fattori ambientali come le condizioni climatiche, la composizione del materiale parentale, il tipo di vegetazione e di specie fungine e l'abbondanza di nutrienti organici nei suoli (Rillig et al., 2001; Lovelock et al., 2004; Emran, 2012).

La glomalina è molto resistente alla decomposizione microbica (elevata reffratarietà alla degradazione) e ha lunga persistenza nel suolo (turnover: 10-50 anni), non si scioglie facilmente in acqua essendo solubile a temperature elevate (121 °C). Queste caratteristiche la rendono una buona protezione per le ife fungine e per gli aggregati del suolo; agisce infatti da agente stabilizzante (“super collante”), aiutando le particelle di sabbia, limo e argilla a legarsi le une alle altre ed alle altre sostanze organiche (Wright e Upadhyaya, 1998), promuovendo così la formazione di complessi organo-minerali (Rillig, 2004; Wright et al., 2007).

Come risulta dalla letteratura, la glomalina, che contiene alte percentuali di carbonio, può avere un ruolo significativo nell’immagazzinamento del carbonio organico nei suoli (carbon-sink) (Wright e Upadhyaya, 1996, 1998; Rillig et al., 1999) ed è considerata un ottimo strumento per compensare l'aumento dei livelli di CO2 nell'atmosfera (Wright e

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Upadhyaya, 1996; Rillig et al., 2001b; Bedini et al., 2007).

Si è calcolato che la glomalina va a costituire il 5% del C totale (Rillig et al., 2003, 2001) ed addirittura fino al 35% del C della frazione organica nel suolo (Nichols et al., 2004); inoltre, contenendo il 5% del N totale, è una buona fonte di azoto, (Lovelock et al., 2004). La glomalina ha la capacità di conservare composti organici nei micro siti del suolo ed è così in grado di proteggere il carbonio organico dai processi di mineralizzazione, favorendo il sequestro del carbonio nei confronti della produzione di anidride carbonica (Wright et al., 2000; Rovira e Vallejo, 2003; Rillig, 2004).

La capacità della glomalina di stabilizzare gli aggregati del suolo e di rallentare la degradazione della sostanza organica e la perdita dei nutrienti associati si riflette nel miglioramento della fertilità complessiva del suolo.

Le buone relazioni della glomalina con la stabilità degli aggregati del suolo sotto diversi tipi e usi del suolo sono state dimostrate da diversi autori (Wright e Upadhyaya, 1998; Wright e Anderson, 2000, Preger et al., 2007; Wright et al., 2007; Hontoria et al., 2009; Wu et al., 2008, 2012; Emran et al., 2012; Gispert et al., 2013).

Wright et al. (2007) ha riportato che la glomalina può contribuire a legare i micro e macro aggregati negli Acrisols nella Regione atlantica centrale degli Stati Uniti d’America. Hontoria et al. (2009) ha rilevato che la glomalina è due volte più alta in aggregati stabili che in quelli instabili sotto differenti gestioni del suolo.

Emran et al. (2012) attribuisce alla glomalina un ruolo chiave nella formazione e il mantenimento della struttura del suolo: essa fornisce la struttura necessaria per trattenere l'acqua, un'aerazione adeguata e la stabilità per resistere all'erosione. In seguito alla deposizione di glomalina sulle particelle del suolo, infatti, i micro e macro aggregati vengono progressivamente stabilizzati. I livelli elevati di glomalina producono così una migliore struttura che a sua volta aumenta la porosità del suolo e l’immagazzinamento dell'acqua. Riducendo la compattazione, viene favorito lo sviluppo delle radici e la resistenza alla formazione di croste superficiali e all’impermeabilizzazione e viene, quindi, contrastata l’erosione (Wright e Anderson, 2000).

Il rilascio e l'accumulo di glomalina nel suolo può rappresentare anche un meccanismo molto importante per il miglioramento e il recupero di suoli degradati (per esempio a causa delle attività di miniera) attraverso la biostabilizzazione di metalli pesanti in suoli contaminati (Bedini et al., 2004), in quanto può contribuire al sequestro di quantità