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Un’analisi della stampa progressista italiana durante l’anno elettorale

di Nadia Venturini

L’irruzione di Barack Obama sulla scena mediatica italiana

Nel marzo 2010, il manifesto ha vinto il Premio Ferrari per il “Ti- tolo dell’anno” con la prima pagina del 5 novembre 2008 (incongrue bollicine lussuose per il quotidiano più radicale della stampa italiana, premio alla creatività di un giornalismo fuori dagli schemi). Quel che segue è una breve analisi della campagna elettorale del 2008, la più ricca di suspense da decenni, una vera festa mediatica. La copertina in questione rappresentava infatti la Casa Bianca sullo sfondo del titolo

Indovina chi viene a cena, ripreso dal celebre film di Stanley Kramer

del 1967. Una commedia impegnata in cui figuravano tre star del ca- libro di Katharine Hepburn, Spencer Tracy e Sidney Poitier: questi si rivolge ai futuri suoceri, bianchi progressisti sgomenti all’idea di un matrimonio interrazziale, per timore delle pressioni cui la società avrebbe sottoposto la coppia e i loro figli, con una smagliante battuta senza repliche: “Pensiamo che tutti i nostri figli saranno a turno pre- sidenti degli Stati Uniti, o quantomeno segretari di Stato”. Poitier, sostenitore del Movimento per i diritti civili fin dalle origini, conferiva una straniante credibilità all’affermazione, e certo ignorava all’epoca quanto la sua battuta fosse preveggente: quando il film uscì nelle sale, Barack Obama aveva sei anni, e Condoleezza Rice tredici. Nel film, e nella battuta, è celato un ulteriore elemento di verità storica: Barack Obama è nato nel 1961 dal matrimonio fra una donna bianca e un uomo africano, avvenuto nelle Hawaii (proprio dove i protagonisti del film si erano conosciuti), che lo stesso Obama descrive nell’auto- biografia I sogni di mio padre come un luogo di mescolanza razziale e molto più tollerante rispetto agli Stati continentali. La prima edizione di questa autobiografia risale al 1995, molto in anticipo sull’inizio del-

la carriera politica di Obama, ma c’è stata una ristampa nel 2004, in occasione della candidatura a senatore nell’Illinois. Gli scritti di Oba- ma avevano sicuramente lo scopo di preparare le sue candidature, ma anche quello di esplicitare tutto ciò che poteva apparire disturbante nella sua vicenda, giocando d’anticipo su stampa scandalistica e cam- pagne avverse.

Le cronache di il manifesto, e le sue splendide prime pagine, han- no costituito spesso un’eccezione rispetto alla ripetitività dei media italiani durante la campagna elettorale del 2008. Confesso di aver avuto un retropensiero mentre seguivo le cronache scritte o televisive degli inviati italiani, e cioè che molto spesso esse fossero nettamente influenzate dal lavoro dei loro colleghi americani. Solo raramente mi sembrava emergessero riflessioni critiche autonome, che ho tentato di utilizzare per questa analisi, e la possibilità di osservare i fatti stando al di fuori dell’acquario, anziché sentirsi parte della medesima fish

school. Poiché una discussione esaustiva sarebbe impossibile in un

breve spazio, ho scelto di limitare l’analisi a due quotidiani rappresen- tativi dell’area progressista italiana, seppur molto diversi: la Repubbli-

ca, grande quotidiano di area riformista, e il manifesto, piccolo quoti-

diano edito da una cooperativa di ispirazione estremamente radicale, ma di ottima statura intellettuale. Fatto salvo lo squilibrio delle forze, nel numero degli inviati e negli investimenti, e nel numero dei lettori cui si rivolgono i due quotidiani, mi sono parsi due esempi rappresen- tativi di come la stampa progressista italiana potesse affrontare una campagna elettorale dominata da una presenza forte delle categorie di genere e razza. Entrambe le categorie sono per certi versi inestricabili ed entrambe, come avremo modo di vedere, sono state protagoniste del dibattito.

Barack Obama è nato nell’agosto del 1961, un momento che per lo studioso del Movimento per i diritti civili appare come un concentra- to di sfide: nel Sud degli Stati Uniti per tutta l’estate si susseguirono le freedom rides che miravano alla desegregazione degli autobus in- terstatali, accompagnate da repressioni violente e incarcerazioni dei militanti; in Mississippi si stava creando l’embrione di un movimento

grassroots, popolare, per mobilitare gli agricoltori neri più poveri per

il diritto di voto (Venturini, Con gli occhi 325-369). Durante la sua campagna elettorale, il candidato, ora presidente, non ignorava certo quei fatti che facevano da sfondo alla sua nascita e ai suoi primi anni di vita in un paradiso protetto dalle tensioni dell’epoca, che gli ha consentito di crescere con un senso di fiducia e mancanza di rancore

cruciali nella sua immagine pubblica e nell’articolazione di un proget- to politico non incentrato sulle questioni di razza. Molto più sfumata, nelle sue memorie, appare l’esperienza vissuta in Indonesia durante il secondo matrimonio della madre, un’esperienza che viene utilizzata da reazionari xenofobi americani per accusarlo di essere segretamente un fedele musulmano (Obama, Sogni). Durante le prime fasi della sua campagna elettorale, di fronte ad un pubblico afroamericano, Obama aveva assunto l’eredità della tradizione culturale afroamericana e della lotta per i diritti civili. Articolando il discorso in termini innovativi e complessi, come accadde nel celebre discorso di Selma del marzo 2007, in cui parlava alla “generazione di Mosè”, Obama si presentava pronto a raccogliere il testimone a nome della “generazione di Gio- suè” (Obama, Yes 79-91)1. Il 18 marzo 2008 Alexander Stille – dal suo

osservatorio privilegiato di americano con origini nell’intellighenzia italiana – scriveva che nelle prime fasi delle primarie Obama aveva deliberatamente evitato di impostare la sua campagna sulla questione razziale, per rivolgersi all’intero elettorato. La campagna di Hillary Clinton aveva però tentato surrettiziamente di far emergere una pola- rizzazione all’interno dell’elettorato, riuscendo a guadagnare terreno sull’avversario (Stille, “Voto bianco”). A questa svolta cruciale delle primarie del 2008, Obama rispose affrontando la questione razziale di petto, in modo risolutivo, nel discorso di Filadelfia del 18 marzo, in cui analizzò le accuse di odio verso i bianchi mosse al suo pastore di Chicago e strumentalizzate per screditare la sua candidatura (Bosetti). Con un discorso complesso e abilmente costruito, subito entrato a far parte dei ‘classici’ della politica americana, Obama chiarì che l’Ame- rica non poteva più permettersi di ignorare la questione razziale; nel suo complesso la nazione era più che non la somma delle sue parti. Laddove occorreva continuare a lottare contro l’ingiustizia razziale, era nel contempo necessario trovare un punto d’incontro fra tutte le minoranze del paese per concentrarsi su questioni vitali come lavoro, sanità e scuola (Obama, Sulla razza).

Contrariamente a molte previsioni giornalistiche, il tema della raz- za non è stato superato negli Stati Uniti con l’elezione del primo presi- dente afroamericano: la Repubblica titolava ottimisticamente il giorno dopo Il mondo è cambiato (Mauro, “Pensare”), mentre il manifesto giocava sul doppio senso storico riferito al New Deal e al più cele-

1 La traduzione delle citazioni dall’inglese, ove non specificato altrimenti in bibliografia, è mia.

bre discorso di Martin Luther King titolando New Dream (Ciotta). Non tutti gli americani sembrano pronti a ritenersi una società post- razziale, come dimostrano gli attacchi mediatici che hanno accompa- gnato la discussione della riforma sanitaria e quella sul centro islamico progettato nei pressi di Ground Zero. Nell’estate del 2010, infatti, il tema della contrapposizione razziale è riemerso con forza nel caso di Shirley Sherrod, che ha messo in difficoltà il presidente, poco incline a smentire il suo moderatismo per rintuzzare gli attacchi della destra americana, secondo l’opinione abitualmente ben fondata di Alexan- der Stille (“Menzogne”). Il tema dell’ostilità razziale declinata in chia- ve patriottica è tornato con prepotenza nell’autunno del 2010, con il dilagare del movimento del Tea Party e la sconfitta democratica alle elezioni di midterm. Peraltro, dopo le elezioni del 2008, un commento di Lucio Caracciolo esaminava la composizione etnica e razziale degli Stati Uniti, a fronte dei sondaggi post-elettorali, e smentiva le speran- ze di pacifica riconciliazione, disegnando uno scenario inquietante per il 2042, anno in cui la popolazione bianca potrebbe scendere sotto il 50% e il collante identitario nazionale potrebbe venir meno sotto la pressione afro-ispanico-asiatica (“Il futuro”).

Razza e genere durante le primarie democratiche

Rileggere la campagna elettorale del 2008 dalla prospettiva del 2012 – sullo sfondo di crisi interne e internazionali che mettono a dura prova la presidenza Obama e hanno già rovesciato la sua maggio- ranza democratica in Congresso – può essere un esercizio rischioso, in cui le aspettative deluse di molti osservatori sembrano smentire le speranze eccessive di quei giorni. Se si legge con attenzione L’audacia

della speranza (il manifesto programmatico originariamente pubblica-

to nel 2006 prima di lanciare la sua candidatura), Obama appariva so- stanzialmente moderato, fortemente impegnato sui temi della salute, dell’educazione e dell’energia, e insieme deciso a ristabilire il prestigio internazionale degli Stati Uniti. Talvolta, durante la campagna eletto- rale del 2008, mi è parso che i giornalisti di tutti i media progressisti italiani prestassero poca attenzione alle sue parole, intrappolati nel ca- rosello mediatico scatenato durante le primarie, sulle tracce della sfida che lo opponeva a Hillary Clinton, dopo aver rapidamente cancellato dalla mappa altri candidati democratici. Il discredito della presidenza di George W. Bush sembrava spianare la strada ad un ritorno dei de-

mocratici alla presidenza dopo otto anni tragici sul fronte della lotta al terrorismo internazionale. La stanchezza del dibattito politico inter- no, insieme alla forza stessa dei media, proposero agli americani una sfida che aveva come ingredienti fondamentali la razza ed il genere, le due componenti storicamente assenti dalle presidenziali americane. A parte le primarie, in cui negli ultimi decenni entrambi gli elementi sono stati saltuariamente presenti, alla corsa per la presidenza e la vice-presidenza sono arrivati, con rare eccezioni, uomini bianchi, pre- valentemente protestanti, tanto che a tutt’oggi John Fitzgerald Kenne- dy resta l’unico cattolico eletto alla presidenza.

In quei primi mesi del 2008 sembrava che la sete di novità de- gli elettori fosse accompagnata da un’ansia analoga dei media, che trovarono facile scatenare ‘la tempesta perfetta’: una donna bianca e un uomo afroamericano, una contrapposizione che evocava fantasmi profondi della coscienza collettiva americana. In primo luogo la trage- dia dei linciaggi scatenati con il pretesto di offese all’onore di donne bianche. Ancor più lontano nel tempo, il tabù della miscegenation, l’unione ‘contro natura’ fra la razza nera e quella bianca, che portava a considerare nero chiunque avesse una sola goccia di sangue africano, secondo la one drop rule, elaborata all’epoca schiavistica, ma portata nella modernità in molti Stati del Sud, in cui fino al 1967 erano proi- biti i matrimoni interrazziali.

Di una simile unione fuori dagli schemi, Barack Obama è il figlio: la forza cromatica del colore, il sottile profilo da maratoneta degli al- topiani kenioti, oscurano allo sguardo degli osservatori la presenza fondamentale della madre bianca, i valori della giovane idealista che nel 1960 sfidò i pregiudizi del suo paese per sposare uno studente africano (peraltro poco affidabile, già sposato e padre, che ben presto sparì dalla vita di Barack, lasciandogli solo il nome e il colore della pelle, oltre alla numerosa parentela africana che conobbe già adul- to, come Obama scrive in Sogni). D’altro canto, la contrapposizione fra Hillary Clinton e Barack Obama richiamava, per i settori meno giovani dell’elettorato, due tematiche cruciali degli anni Sessanta, il femminismo e la lotta per i diritti civili. I due candidati non hanno però sfruttato fino in fondo né la carta del femminismo, né quella dei diritti civili, probabilmente per calcolo politico, mal indirizzato, nel caso di Hillary, secondo alcune commentatrici italiane (cfr. Domini- janni, “Quel che resta”).

Nella mia analisi è indispensabile tener conto della categoria di genere accanto a quella di razza, centrale in questo volume. Come

accennato, nella storia americana – e ancora oggi nell’attualità di quel paese, ma anche nella cronaca nera – il tema dell’accostamento ‘don- na bianca-uomo nero’ produce letteralmente scintille, proscrizioni, violenza. Trascurare questi aspetti significa depotenziare l’impatto dell’elezione di Obama, e ridurre la sua biografia a una sceneggiatura hollywoodiana. La realtà storica della sua candidatura ed elezione ha modificato in parte l’auto-percezione della nazione americana e delle sue innumerevoli componenti, per quanto sia difficile prevederne la portata di lungo periodo. Agli occhi del mondo e degli Stati Uniti, Obama appare innegabilmente nero, e si tende a dimenticare la di- scendenza bianca della sua famiglia e il retaggio della sua educazione. Una ballata scherzosa che richiama le origini irlandesi della madre po- trebbe introdurre un’altra chiave di lettura delle elezioni, la difficoltà di superare i pregiudizi sedimentati delle minoranze etniche bianche più povere verso gli afroamericani (Venturini, Neri). La ballata, utiliz- zata dalle politologhe Weaver e Hochschild per introdurre un’analisi dell’America multirazziale, presenta Barack Obama come O’Bama, e richiamando le origini irlandesi della madre, nata da una stirpe di mamme forti d’Irlanda, sostiene che nessuno è irlandese quanto Ba- rack O’Bama:

O’Leary, O’Riley, O’Hare and O’Hara, / nessuno è irlandese quanto Barack O’Bama, / Il bisnonno di sua mamma era un Kearney di Falmuth. / Lui è irlandese quanto quelli che vengono dai laghi di Killarney. / La sua mam- ma proviene da una lunga discendenza di grandi mamme irlandesi: / non c’è nessuno tanto irlandese quanto Barack O’Bama. (Hardy Drew and the Nancy Boys – traduzione mia)

Parlare di rappresentazione della razza significa spesso parlare an- che di genere; così avveniva quando vennero create le affirmative ac-

tions, le azioni positive per favorire l’istruzione e l’inserimento profes-

sionale di minoranze e donne, quasi fossero una medesima categoria; così avveniva quando negli anni Ottanta venivano additate al biasi- mo dell’opinione pubblica le welfare queens, le madri implicitamente nere, prefigurando riduzioni dell’assistenza sociale che avrebbero col- pito tutti i poveri, di ogni colore e origine. Parlare di rappresentazione della razza oggi significa ancora parlare di genere, perché i Tea Party sono in gran parte costituiti da bianchi e spesso a guidarli sono don- ne, che replicano il modello offerto da Sarah Palin. La forte presenza delle categorie di genere e razza è stata il marchio di quelle elezioni, e sicuramente condiziona l’odierno tentativo di ‘ritorno all’ordine’,

seppure attraverso un immaginario simbolico che non appartiene all’America tradizionale: Sarah Palin che ammazza un solitario caribù non è l’erede delle femministe, ma neppure dell’ordine patriarcale che lasciava a casa le donne, anche se non quelle della frontiera. Furono infatti gli Stati di frontiera che per primi concessero alle donne il dirit- to di voto, riconoscendo loro un ruolo sociale ed economico in cui era previsto anche l’uso del fucile. Il fenomeno del Tea Party è talmente recente che non è possibile ipotizzare i suoi sviluppi, ma possiamo facilmente rintracciare nell’elezione di Barack Obama un detonatore di pulsioni represse di quella che viene definita ‘America profonda’, lontana dalle grandi città.

Anche in Italia scopriamo da qualche anno che parlare di rappre- sentazione della razza comporta un esame delle questioni di genere: sia che si tratti della libertà, o talvolta della vita di giovani donne mu- sulmane; sia che si tratti della schiavitù sessuale di donne di ogni pro- venienza; sia che la cronaca nera si riveli sempre pronta ad indicare un uomo dalla pelle scura come il responsabile di crimini, soprattutto di natura sessuale. Per tutti questi motivi, ritornare a quella campagna elettorale del 2008 – unica e forse irripetibile – significa indagare an- che l’aspetto oscuro di quella battaglia politica: qualcosa di cui Hilla- ry Clinton e Barack Obama erano profondamente consapevoli. Forse Clinton a marzo tentò un colpo basso, rinnegando la formazione libe-

ral della sua giovinezza. Obama riuscì però a contrastare abilmente

l’attacco, e fu molto attento a non criticare mai l’avversaria sul piano personale; fu sempre estremamente cortese nei dibattiti, a partire dal momento in cui spostava la sedia per far accomodare la sua avversa- ria, comportandosi come un perfetto gentiluomo.

All’inizio del marzo 2008, Rita di Leo scrisse per il manifesto un commento secondo cui “nel clima di generale ansietà per la perdita della casa e del lavoro [...] milioni di persone sono disposti a votare, come commander in chief, una donna e un nero”. Di Leo sottolineava pure che, dopo soli due mesi dall’inizio delle primarie, la donna fosse già praticamente esclusa, per ostilità equamente ripartite verso il suo sesso e verso il nome del marito. In un quadro politico in cui sia i partiti di massa sia i sindacati hanno perso consistenza, e il dissenso non ha canali istituzionali per esprimersi, secondo Di Leo le prima- rie si stavano rivelando come lo strumento per scegliere “il candidato più inviso al sistema”: in questo clima, una giovane generazione di studenti e professionisti color-blind, “ciechi”, indifferenti al colore e al retaggio conflittuale del passato, si stava mobilitando a sostegno

di Obama, anche per “dare una lezione ai padri per tutto quello che hanno lasciato fare a Bush a danno del paese”. Obama appariva come un candidato congeniale perché veniva ritenuto liberal, e soprattutto si poteva presentare come un outsider, non identificato specificamen- te con una comunità, analogamente alla madre, la giovane intellettuale idealista che dopo il fallimento del primo matrimonio portò il piccolo Barack a vivere in Indonesia col suo secondo marito per alcuni anni (Di Leo). È il caso di ricordare che, dopo aver trascorso l’adolescenza con i nonni bianchi alle Hawaii, Obama aveva cercato di costruire la propria identità sul continente, negli anni universitari e poi attraver- so il servizio sociale a Chicago, preparando la propria carriera politi- ca alle radici dei fattori di esclusione sociale e razziale, lavorando in quartieri di edilizia popolare bianchi e neri di South Chicago (Obama,

Sogni 151-224).

Anticipo una riflessione che in parte è una conclusione: durante la campagna del 2008, la categoria di genere mi è parsa meno presente nelle cronache italiane che non quella di razza, tranne che nelle prime battute della campagna, con il celebre episodio del New Hampshire in cui Hillary Clinton si commosse davanti alle telecamere, parlando ad un gruppo di donne: l’unico momento in cui è parso che mostrasse un cedimento alla femminilità convenzionale (è parso, perché in que- sta campagna più che in altre il ruolo degli spin doctors sembra esse- re stato decisivo). Comunque fosse, il cedimento emotivo era valso a Hillary la vittoria nello Stato e una momentanea ondata di simpatia, subito spazzata dal dubbio che non fosse idonea a diventare coman- dante in capo. La questione del genere era però destinata a tornare in primo piano negli ultimi mesi della campagna elettorale, quando la scelta fatta dal repubblicano John McCain di avere come running

mate la controversa Sarah Palin aveva riportato al centro dell’attenzio-

ne il ruolo dell’elettorato femminile, oltre metà del totale. Il tentativo di attirare le femministe deluse dalla sconfitta di Hillary non ebbe molto successo, e la femminilità aggressivamente conservatrice di Palin mise in ombra lo stesso candidato repubblicano, creando con- temporaneamente un fronte di antipatia decisa nei settori progressisti.

La Repubblica titolava ad esempio una cronaca “La star è ‘Barracuda

Sarah’”, mentre il manifesto affrontava l’immaginario dei repubblica- ni (Flores d’Arcais; d’Eramo, “L’astronave”). Alexander Stille dedicò un’analisi attenta al fenomeno del cosiddetto ‘femminismo di destra’, col titolo “Dio, armi e rossetto”. Analizzando la pluridecennale ten- denza dell’elettorato proletario a votare contro i propri interessi a fa-

vore dei candidati repubblicani, Stille individuava l’elemento cruciale nell’identificazione personale con i candidati meno intellettuali. Da questo punto di vista Obama appariva spiazzante, proprio perché non aveva radici riconoscibili per l’elettorato popolare bianco, il che ren- deva Palin potenzialmente pericolosa per la campagna democratica, se non fossero emerse pesanti incongruenze nella sua immagine pub- blica (Stille, “Dio”). Il fattore di genere aveva creato preoccupazioni nel campo democratico anche durante la Denver Convention, segnata