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La ‘bianchezza’ nella cultura italiana dal Fascismo al dopoguerra

di Cristina Lombardi-Diop

In un loro articolo recente, Anna Curcio e Miguel Mellino eviden- ziano quanto spesso il razzismo nell’Italia di oggi sia “reso innocuo” dai mezzi di comunicazione, dai politici e nel linguaggio quotidiano come un problema che deriva da altre questioni sociali (il tasso di disoccupazione, la carenza di alloggi, la crisi economica) e non sia mai presentato come un problema in sé. L’articolo, seguendo la direzione di ricerca indicata da Sandro Mezzadra in La condizione postcolonia-

le (2006) e attraverso un’analisi storico-politico dell’Italia moderna

dall’Unità ai giorni nostri, si propone piuttosto di mostrare lo svilup- po dei processi di razzializzazione, rintracciandone la genealogia sto- rica e il loro legame con le diverse fasi attraversate dal Paese nel corso della sua transizione verso il capitalismo moderno. Secondo gli autori il razzismo è stato uno strumento per la produzione di gerarchie so- ciali e culturali, sia rispetto agli ‘altri’ interni (l’intero Mezzogiorno, durante il processo di unificazione e, nel periodo del dopoguerra, gli immigrati meridionali nel Nord), sia rispetto agli ‘altri’ esterni (gli abi- tanti delle colonie e gli immigrati di oggi), che ne consentì (e tuttora continua a consentirne) lo sfruttamento sul mercato del lavoro. Seb- bene il razzismo abbia operato tanto come ‘master discourse’ quanto come mezzo per il controllo della forza lavoro nella nascita e affer- mazione del “moderno capitalismo razziale”, nell’età contemporanea la memoria della sua storicità è spesso negata ed è pericolosamente assente sia nella coscienza individuale sia in quella politica (Curcio e Mellino).2

1 Titolo originale: “All the Colors of Race: Blackness and Whiteness in Post-War Italy”. Traduzione di Anna Scacchi

2 La traduzione delle citazioni dall’inglese, ove non specificato altrimenti in bibliografia, è mia.

Una tesi come questa, molto importante soprattutto di fronte all’incremento di episodi di violenza razzista nei confronti degli stra- nieri e in mancanza di un movimento antirazzista che li contrasti in modo attivo, si basa però su un approccio eccessivamente determini- stico. Lascia in ombra il fatto che il razzismo, in quanto esperienza e condizione, non è legato solo alla riconfigurazione delle gerarchie di classe e al controllo della produttività del lavoro, ma anche alla ma- terializzazione delle percezioni soggettive, le quali implicano sovente costruzioni di genere e sessismo, che a loro volta hanno un impatto determinante su categorie culturali più ampie. Che la funzione storica del razzismo sia stata quella di organizzare e giustificare lo sfrutta- mento del lavoro, la violenza coloniale e l’espansione imperialista è in- negabile, tuttavia non dovremmo dimenticare che i processi di razzia- lizzazione coinvolgono tanto i gruppi sociali subalterni quanto quelli egemonici, tanto i neri quanto i bianchi, tanto la classe operaia quanto la borghesia. La razza, perciò, non può essere vista semplicemente come un fattore che riguarda le vittime del razzismo o i suoi fautori ideologici e materiali, ma dovrebbe essere esaminata nella sua sfera d’influenza più ampia, in quanto elemento che opera all’interno del concetto di appartenenza nazionale ed è funzionale alla costruzione dell’identità di un paese. L’invisibilità del discorso razziale e dei pro- cessi di razzializzazione nella sfera pubblica nell’Italia di oggi non di- pende soltanto dal fatto che la storia del razzismo è stata assai oppor- tunamente omessa dalla memoria pubblica. Dipende anche dal fatto che la stessa costruzione dell’italianità non è mai stata esaminata in relazione alla costruzione dell’identità razziale degli italiani. L’intradu- cibilità del razzismo nell’Italia contemporanea – un’intraducibilità, sia lessicale sia sociale, che fa dell’Italia un paese paradossalmente post- razziale – è dunque in gran parte causata da una ‘cecità alla razza’ che rende totalmente invisibile non soltanto il processo di razzializzazione dell’alterità nera, ma anche quello dell’identità bianca.

Nelle pagine che seguono, analizzerò una serie di campagne pub- blicitarie per prodotti per l’igiene e la cura del corpo in un periodo che va dalla metà degli anni Trenta alla metà degli anni Sessanta, per mostrare come l’idea di una presunta omogeneità dell’identità bianca degli italiani si sia affermata proprio attraverso un percorso visivo che, a partire dall’associazione del bianco con la pulizia e il candore, istituì dei legami ideologici con il più vasto e subliminale progetto di sbianca- mento della razza. Nel cercare di capire come i processi culturali e sto- rici di razzializzazione abbiano contribuito a definire l’identità razziale

degli italiani in termini di ‘bianchezza’, vorrei rispondere all’esortazio- ne formulata del teorico della razza David Theo Goldberg, a mio pare- re di fondamentale importanza per gli studiosi di questi fenomeni, che ci sollecita a comprendere “il modo in cui l’ingiunzione all’omogeneità abbia dato forma alla razza in quanto progetto moderno di ideazione e pratica dello Stato” (Racial State 5).

Il periodo storico da me esaminato è estremamente cruciale nel processo di razzializzazione degli italiani, in quanto ha visto la teoriz- zazione e l’applicazione del razzismo di stato e la sovrapposizione, dal punto di vista legale, del concetto di cittadinanza con quello di ‘bian- chezza’. Una sovrapposizione che ebbe come conseguenza estrema la segregazione razziale nelle colonie italiane dell’Africa orientale; l’inte- grazione, sia pure problematica, dei contadini meridionali nel Nord industriale e il loro conseguente sbiancamento3; e, infine, il consoli-

damento di una cultura di razionalità domestica che, sotto la spinta di sovvenzioni e ispirata a paradigmi di comportamento provenienti dagli Stati Uniti, segnò l’avvento della modernizzazione di massa e della cultura del consumo in nome di una consolidata uniformità dei modelli identitari razziali.

La mia ipotesi è che la società italiana, in quanto democratica, post-fascista e postcoloniale, si sia fondata sul consolidamento di un’identità razziale bianca come uniforme e invariabile, in un momen- to in cui l’esperienza coloniale aveva invece prodotto eterogeneità a li- vello demografico. In altre parole, l’identità bianca degli italiani per la prima volta non era più confinata a un particolare periodo storico (il Ventennio fascista) e a una classe (la borghesia e le élite intellettuali), ma si allargava a comprendere e iniziava a influenzare una porzione più vasta di italiani medi, per poi arrivare alle masse. La mia tesi è che tale pervasività della ‘bianchezza’ – in espansione e quindi flessibile, ma al tempo stesso legata a fenotipi piuttosto fissi – sia stata ottenuta, tra le altre cose, attraverso un progetto di “rigenerazione per mezzo dell’igiene” (Ross K. 75)4 a sua volta mediato dall’“americanizzazione

del quotidiano” (Gundle) e dall’influsso dei suoi modelli segregazio- nisti e razziali. L’Italia del dopoguerra, paese giunto a considerarsi pulito, sanitarizzato, uniformemente bianco e ordinato secondo prin-

3 Per una discussione sul processo di sbiancamento degli italiani negli anni Trenta si veda l’illuminante saggio inedito di Gaia Giuliani, che ringrazio per avermi concesso di visiona- re il dattiloscritto.

4 Questa mia analisi si ispira fortemente all’eccellente lavoro di Kristin Ross sulla cultura della modernizzazione in Francia dopo la Guerra d’Algeria e la decolonizzazione.

cipi moderni e razionali, riusciva così a riconciliare alcuni aspetti con- traddittori della sua disomogenea storia nazionale. Alcuni di questi, quali la subordinazione alle sfere politiche e culturali del Nord delle masse contadine del Meridione, che portavano lo stigma – definito in termini razziali – di un’arretratezza sentita da tempo come fardello; la rimozione della memoria dell’esperienza coloniale, segnata dalla mac- chia della persecuzione e della segregazione razziale, memoria il cui ritorno ha oggi come sintomo il razzismo diffuso; e, infine, il conteni- mento del desiderio di emancipazione sessuale e pubblica delle don- ne, furono tutti resi possibili da una modernizzazione che prometteva tempi diversi, un nuovo inizio, una rigenerante tabula rasa.

L’insistenza sull’igiene, nell’Italia del dopoguerra, era legata al de- siderio di destoricizzare il fascismo, la povertà del Sud e l’esperienza coloniale, e fu uno degli espedienti per ridurre questi fenomeni del re- cente passato ma ancora diffusi a una parentesi esterna, che non aveva posto nella nuova vita sociale italiana e nelle pratiche moderne della vita quotidiana. Con l’esplosione dell’industria pubblicitaria e della televisione, l’igiene venne resa in termini visivi come ‘bianchezza’ e, anche, come una condizione normativa e desiderabile, aparadigmatica (Chambers).

Razza e igiene nel Ventennio fascista

Nella storia delle idee sulla ‘blackness’ che da sempre circolano in Europa (così come nell’immaginario popolare), un momento di ecces- so comico, presente anche nella storia del minstrel show americano, è spesso collegato alla possibilità di cancellare la razza lavandosi. Il comico si rivela un genere dai legami estremamente forti con il pro- cesso di sbiancamento della razza. Come ricorda Karen Pinkus, nel suo saggio sul significato del comico (1900) Henri Bergson scriveva che “un negro” ci fa ridere perché la sua faccia appare ai nostri occhi “non lavata” (“Shades of Black” 135). Il mio interesse si incentra su tale nesso tra autenticità razziale, ‘blackness’ e sporcizia e sulle forme di razzializzazione che, in conseguenza dell’istituzionalizzazione del razzismo avvenuta sul finire degli anni Trenta, sono penetrate nella cultura pubblica italiana per poi diffondersi nella cultura popolare del dopoguerra. È a partire dalla metà degli anni Trenta, infatti, che nella cultura razziale italiana si fa strada la connessione tra la “protezione della razza” e la profilassi sanitaria, proprio quando nella concezione

eugenetica del declino della razza comincia a diffondersi l’associazio- ne tra ‘blackness’ e sporcizia.

Negli anni precedenti alle leggi razziali del 1938, l’eugenetica italia- na produsse una serie di “interventi tecnico-sociali” rivolti alla famiglia per garantire il benessere e l’espansione della popolazione contro il declino della fertilità e per la protezione della razza (Horn 66). Dopo il 1927 furono varate una serie di misure a favore della natalità per mezzo di leggi che trovavano diretta risonanza nella letteratura medica e scientifica di approccio eugenetico (cfr. Maiocchi). Mentre il codice penale del 1930, noto anche come Codice Rocco, puniva i comporta- menti privati degli italiani in base a una nuova serie di crimini contro l’integrità e la salute della specie, l’espansione della “biotipologia uma- na”, elaborata dall’eugenista Nicola Pende nei primi anni Trenta, inau- gurava una biologia politica che vedeva nella pratica medica una forma di controllo sociale della sfera domestica, dell’infanzia, del lavoro, oltre che della sessualità femminile e della vita familiare. Opuscoli, articoli medici e campagne stampa contro malattie contagiose, quali la sifilide e la tubercolosi, stabilirono una correlazione tra le condizioni igieniche dell’ambiente domestico, di competenza delle donne, e la necessità di proteggere la razza italiana da contaminazione e degenerazione (Ma- iocchi; Mignemi, “Profilassi”).

La lotta contro la tubercolosi, per esempio, si prestò a una varietà di manipolazioni simboliche, tra le quali centrale fu quella che ac- costava malattia e ‘blackness’, salute e purezza razziale (Mignemi, “Profilassi” 68-69 e 231). A partire dal 1930 la Federazione Nazionale Fascista per la lotta contro la tubercolosi lanciò una campagna in tutte le scuole dello Stato, mediante la distribuzione di materiale a stampa che illustrava il progresso della ricerca medica nella lotta contro la sporcizia e il contagio. Gli opuscoli erano accompagnati dagli slogan retorici con cui Benito Mussolini incitava gli italiani a proteggere la patria e la purezza della razza (Birbanti 192). La battaglia contro la contaminazione del sangue era indirizzata in particolare alle donne, incaricate di difendere l’integrità genetica della razza italiana. Il pam- phlet distribuito nel 1936 dalla Federazione a sostegno della campa- gna contro la tubercolosi, di cui era autore il professor Gioacchino Breccia, si rivolgeva alle donne con queste parole:

A voi, Donne d’Italia, Donne Cristiane, Romane e Fasciste, la Patria affida un mandato sublime: creare la sanità e la forza delle nuove generazioni; rinnovare la casa, rendendole la dignità e la salubrità materiale e morale; proteggere il lavoro, vegliandone i pericoli e indirizzando il lavoratore sulle

vie della vita sana al controllo sanitario duraturo, assiduo, intelligente, che è necessario; allevare il fanciullo e il giovane alla salubrità piena, ricordando a lui in ogni momento, serenamente, ciò che può essere segno di timore e di pericolo. (cit. in Mignemi, “Profilassi” 70)

Breccia, strenuo sostenitore della biopolitica medica, dava voce a una visione che in parte era già stata messa in pratica attraverso le organizzazioni di massa del Fascismo. Dalla metà degli anni Venti l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI, fondata nel 1925) cominciò a promuovere la difesa della maternità, l’igiene sociale e la salute dei bambini e delle donne. Di grande rilevanza furono le sue campagne contro la tubercolosi, ritenuta una malattia sociale ad alto tasso di contagio. La “campagna antitubercolare” dell’ONMI era in- centrata sul ruolo delle madri come garanti della pulizia dell’ambiente domestico, da cui si riteneva dipendesse la condizione di salute dei bambini. Il governo centrale, al fine di raggiungere l’obiettivo della profilassi domestica, si affidò alla capillarità di diffusione degli appa- rati medici che operavano attraverso gli uffici amministrativi provin- ciali e regionali (enti assistenziali e previdenziali). Queste istituzioni burocratiche diventarono in breve un sostegno allo stretto controllo della sanità e dell’ordine sociale, che comportava anche la razionaliz- zazione della cultura domestica (Mignemi, “Profilassi”).

Dopo il 1936 la riorganizzazione della casa secondo principi scien- tifici fu estesa all’Africa Orientale Italiana e, in stretta alleanza con l’eugenetica, svolse un ruolo basilare nelle politiche segregazioniste lì adottate. Se da un lato nei dibattiti sulla pianificazione di Tripoli rie- cheggiavano le opinioni degli esperti d’igiene, uno degli argomenti cen- trali della propaganda imperiale al momento dell’invasione dell’Etiopia fu l’assenza di civiltà degli etiopi, ritenuti arretrati e sottosviluppati a causa del ‘sudiciume’ e della mancanza di igiene delle loro abitazioni e città. L’isolamento dei nativi nei loro “quartieri”, scriveva l’urbanista Gherardo Bosio nel 1937 sulla rivista Architettura, poteva costituire una protezione efficace contro le epidemie che spesso scoppiavano nel- le antigieniche comunità indigene (cit. in Fuller 207). E mentre nella penisola il “massaismo” offriva la promessa di una razionalizzazione delle pratiche di gestione della casa e di un cambiamento del ruolo femminile nella famiglia, nelle colonie l’economia domestica assunse un ruolo chiave nella determinazione della coscienza razziale e delle divi- sioni tra le razze. Era l’economia domestica, insieme con la filantropia, il contributo apportato dalle donne, secondo la propaganda, alla socie-

tà coloniale, poiché in entrambi i casi si trattava di attività che permet- tevano loro di operare senza intromissioni nella sfera politica maschile. Nel 1934 la giornalista e opinionista fascista Mercedes Astuto ave- va lamentato la mancanza di lavoro sociale e di “attività femminile” nell’Africa coloniale (115). Oltre alle semplici incombenze riservate alle contadine prive di istruzione, Astuto aveva sostenuto la necessità di compiti di maggior valore, quali la filantropia e l’assistenza sociale.5

Nello stesso anno il Partito Nazionale Fascista (PNF) aveva fondato in Libia e in Eritrea associazioni per le giovani donne, come le Piccole e Giovani Italiane e le Giovani Fasciste. In Tripolitania l’istruzione delle bambine e adolescenti italiane privilegiava materie appropriate alla loro classe sociale. Era tempo, sosteneva Astuto, di aggiungervi nuove discipline, quali l’igiene dell’ambiente domestico.

La connessione tra medicina, genetica e comportamento sessua- le femminile era sempre presente nelle pubblicazioni di eugenetica, ma dopo la conquista dell’Etiopia nel 1936 l’applicazione delle teorie eugenetiche ebbe un effetto diretto sulla sessualità e le pratiche do- mestiche sia delle donne italiane, sia di quelle africane. Da una parte Giorgio Chiurco, nella sua opera sulla politica sanitaria in Etiopia, difendeva la necessità di migliorare le condizioni igieniche dei soggetti coloniali secondo i principi di una “civilizzazione sanitaria” (cit. in Maiocchi 311). Dall’altra l’eugenista Gaetano Pieraccini, con la sua teoria dell’“azione centralizzatrice della donna” (cit. in Sòrgoni, Pa-

role 197), sosteneva che il codice genetico femminile fosse meno su-

scettibile di variazione e quindi più in grado di trasmettere i caratteri ereditari della razza, teoria che rovesciava la credenza precedente del- la patrilinearità come principio fondamentale nella trasmissione dei tratti razziali (cfr. Barrera). Mentre la legge del 1937 puniva i cittadini italiani che avessero relazioni coniugali con donne africane con pene che arrivavano fino a cinque anni di detenzione, le donne italiane erano incoraggiate a trasferirsi nelle colonie, in modo da compiere il “vasto lavoro di profilassi e redenzione sociale” che ci si aspettava da loro (Benedettini 401). In quanto mogli, partner sessuali e madri dei colonizzatori, venivano ritenute le più adatte a modellare l’ambiente

5 L’idea non era una novità, dal momento che attività del genere erano già state svolte da un piccolo gruppo di donne delle classi medio-alte che si erano stabilite nelle colonie a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento. Una di loro, Rosaria Pianavia Vivaldi, si era occupata degli orfani di razza mista, attività di cura che, per lo meno a livello simbolico, aveva stabilito il predominio delle donne italiane su quelle native nell’economia sessuale e razziale di Asmara (per maggiori dettagli, cfr. Lombardi-Diop, “Mothering the Nation”).

coloniale secondo i parametri della domesticità bianca. In conseguen- za del nuovo orientamento, le donne africane furono gradualmente allontanate dalle pratiche d’interazione quotidiana con gli uomini e i bambini italiani. I manuali medici diretti alle colonie iniziarono a in- coraggiare le madri ad allattare al seno i figli, indicandola come la so- luzione migliore per la crescita e l’adattamento all’ambiente dei bam- bini, e a dissuaderle dal ricorrere a balie indigene, ritenute pericolose per ragioni sanitarie (Sòrgoni, Parole 199). La lettè, ossia la domestica etiope che lavorava per le famiglie italiane agiate, cessò di essere una figura centrale nell’economia domestica delle colonie. La geografia coloniale divenne al contempo uno spazio di frontiera e un luogo ‘ri- spettabile’ per le donne della classe media, che dopo averlo esplorato ci si stabilivano creando moderne case italiane (cfr. Lombardi-Diop, “Pioneering”; Pickering-Iazzi).

Nel 1939 il giornalista Ciro Poggiali richiamò le donne alla respon- sabilità di creare uno spazio domestico “in perfetto stile italiano”. “È un compito squisitamente femminile”, scriveva, “quello di creare la casa, con la sua autonomia morale ed economica”, in base a una “eco- nomia domestica” rigorosa e autarchica, “un’arma necessaria alla con- quista pacifica” (Poggiali 64). Tale economia domestica comprendeva frutteti e pollai, ma anche la circolazione di beni di consumo femmi- nile che, una volta adottati dalle donne africane, potevano col tempo “stimolare nuovi bisogni tra le masse dei nativi” (ivi 70). Esortazioni del genere miravano a continuare nell’opera d’incoraggiamento delle donne della classe media a trasferirsi in Africa, anche a seguito degli sforzi congiunti delle istituzioni e del Partito fascista in questa direzio- ne. Nel 1937, nell’ambito di un più ampio programma per incremen- tare la popolazione civile delle colonie, il PNF istituì in tutte le mag- giori città italiane campi di addestramento estivi che preparavano le donne alla vita coloniale. Tali corsi intendevano addestrare una nuova generazione di colonizzatrici per renderla il perno della ricostruzione fascista della società civile in Africa. L’economia coloniale domestica sollecitava gli italiani a formare nuclei familiari esclusivamente bianchi e l’igiene coloniale divenne il soggetto principale dei corsi prepara- tori per le colonie, corsi i cui materiali condannavano in modo netto la mescolanza razziale per mezzo di argomenti scientifici (Ben-Ghiat, “Envisioning Modernity” 137-138). Le donne italiane, nel loro ruolo di custodi della casa, avevano il compito di sorvegliare la moralità, l’igiene e il comportamento sessuale degli uomini (Pickering-Iazzi; Ben-Ghiat, Fascist Modernities).

La propaganda fascista spronava le donne a darsi da fare per ren- dere l’ambiente domestico delle colonie esteticamente piacevole e moderno, e di conseguenza adatto ai nuovi colonizzatori della classe media. Competeva alle borghesi, e non alle contadine, fornire il mo- dello di ‘stile italiano’ che doveva spingere le donne africane a imitar- ne il comportamento e l’aspetto, trasformando pian piano le società africane in colonie culturali dell’Italia. Un possibile metro dell’impat- to di questa visione sull’Eritrea postcoloniale degli anni Cinquanta ci viene da un romanzo autobiografico contemporaneo, Asmara ad-

dio di Erminia Dell’Oro (1988). Dal testo, liberamente basato sulla

vita dell’autrice, vissuta nella capitale eritrea dalla nascita, nel 1938,