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Razza e politiche sociali negli Stati Uniti e in Italia, 1980-

di Antonio Soggia

Introduzione

“Il welfare state non è semplicemente un meccanismo che intervie- ne sulla disuguaglianza sociale, possibilmente correggendola; è invece, in se stesso, un sistema di stratificazione, [...] una forza attiva nell’or- dinamento delle relazioni sociali”1 (Esping-Andersen 23). Negli ultimi

decenni, a partire da questa definizione di Gøsta Esping-Andersen, numerosi studiosi hanno interpretato il welfare state come un sistema di stratificazione sociale che può ridurre o, viceversa, accrescere le disuguaglianze fondate sulla razza. Se lo studioso danese aveva foca- lizzato la sua attenzione sulle disuguaglianze di classe, secondo questi autori la riproduzione delle disparità fondate sulla razza o, al contra- rio, il tentativo di superarle sono le reali dinamiche che hanno guidato l’evoluzione delle politiche sociali negli Stati Uniti. In altre parole, il

welfare state può costituire l’agente di processi di razzializzazione.

Ciò dipende prima di tutto dal fatto che il welfare influenza le identità sociali e la possibilità di mobilitazione dei gruppi che si scontrano o si alleano sull’arena politica (Skocpol, Protecting 58). Ad esempio, lo stato sociale può favorire la tolleranza verso le minoranze razziali se le misure sono concepite in chiave universalistica, mentre i programmi vincolati alla prova del bisogno (means-tested) e diret- ti a gruppi specifici (targeted) possono originare stigmatizzazione e pregiudizio, poiché istituiscono categorie sociali separate (Crepaz e Damron; Brown 9-17; Skocpol, Protecting, Social Policy 255).

Alcuni studiosi attribuiscono alle istituzioni del welfare la capacità di plasmare l’identità dei gruppi razziali, mentre altri connettono i

1 La traduzione delle citazioni dall’inglese, ove non altrimenti specificato in bibliografia, è mia.

processi di razzializzazione alla cosiddetta “politica delle idee”, po- nendo l’accento sul nesso esistente tra pregiudizio culturale e risultati politici. Le istituzioni del welfare state, infatti, possono essere influen- zate dal pregiudizio razziale e quindi escludere esplicitamente alcuni gruppi, oppure “essere immerse in una società che conferisce status ineguali ai diversi gruppi razziali”: in questo caso “il risultato può es- sere un ordine politico [...] che riflette e rafforza le disuguaglianze razziali, anche senza codificarle esplicitamente” (Lieberman 13-22; Béland 34; Poole; Quadagno).

Gli approcci più interessanti, tuttavia, mostrano l’interdipendenza tra piano istituzionale e ideologico e la relazione della categoria di razza con quelle di classe e di genere. Del resto, la razzializzazione – vale a dire l’attribuzione di un “significato sociale” alle “differenze fenotipiche” tra gli individui, la loro “organizzazione in gruppi” e il loro “ordinamento gerarchico” – è un processo composito, risultan- te dall’interazione di elementi sociali, economici, politici e ideologici (Calavita 144). La razza stessa “non è un’essenza”, né “qualcosa di fisso, concreto e oggettivo”, bensì “un sistema di significati sociali” (Omi e Winant x).

Le riflessioni fin qui presentate sono state elaborate per il caso sta- tunitense, ma molti dei temi sollevati possono essere utili ad analiz- zare altri contesti nazionali, compreso quello italiano. In particolare, l’esempio degli Stati Uniti aiuta a ricostruire origini e conseguenze del processo di razzializzazione che il welfare state può alimentare. Que- sto saggio affronta soprattutto le somiglianze e le differenze tra il caso statunitense e quello italiano nell’arco dell’ultimo trentennio, e intende mostrare come una prospettiva comparativa possa essere utile a com- prendere entrambi i casi nazionali. Gli studi che mettono a confronto le politiche sociali in Italia e negli Stati Uniti non sono molti, anche se lavori come quello che Elisabetta Vezzosi ha dedicato alle politi- che per la maternità sulle due sponde dell’Oceano dimostrano che una comparazione è non solo possibile, ma anche assai proficua (Vezzosi, “Why”). Inoltre, da quando l’Italia è diventata un paese d’immigra- zione (a partire dagli anni Settanta, e soprattutto negli anni Novanta), si è chiusa la fase di uniformità etnica, linguistica e religiosa che aveva segnato il paese nei primi decenni del secondo dopoguerra, aprendo quindi nuove possibilità di confronto con gli Stati Uniti. Occorre pre- cisare che, come evidenzia Luca Einaudi, l’omogeneità del dopoguerra rappresentò una parentesi “breve e insolita”, una fase “poco consona alla storia di incrocio di popoli propria del paese”(Einaudi vi).

In questo saggio il concetto di razza sarà usato come sinonimo di “etnia”, anche se normalmente, nel contesto statunitense, il primo è impiegato a proposito della dicotomia bianchi/neri, mentre il secon- do è utilizzato per le minoranze immigrate. La scelta è giustificata da due fattori: da un lato, la necessità di includere nell’analisi proposta sia gli afroamericani, sia i migranti, e quindi di elaborare un discorso comune per i due gruppi; dall’altro, mettere in evidenza che i migran- ti giunti negli Stati Uniti, se estranei al ceppo anglosassone bianco e protestante, sono stati sottoposti ad un processo di esclusione razzia- lizzata, che dimostra “la volontà di preservare inalterata l’omogeneità razziale della società statunitense delle origini” (Luconi). Basti pensa- re alle misure che limitarono, o addirittura impedirono, l’immigrazio- ne proveniente da regioni diverse dall’Europa settentrionale, come il Chinese Exclusion Act del 1882, il Gentlemen’s Agreement del 1907 tra il governo americano e quello giapponese, nonché il sistema delle quote nazionali adottato tra il 1921 e il 1924, che penalizzava gli eu- ropei orientali e meridionali, tutte fondate sul presupposto della non assimilabilità di questi gruppi nella società americana. Se per l’appro- vazione di misure restrittive sull’immigrazione si dovette aspettare la fine dell’Ottocento, fin dalle origini della Repubblica furono stabiliti vincoli di natura razziale alla possibilità di acquisire la cittadinanza, anche se dopo la Guerra civile si assistette al “progressivo abbatti- mento delle limitazioni razziali all’accesso alla cittadinanza, accompa- gnato però da un inasprimento delle condizioni a cui era necessario ottemperare per poterla richiedere”.2

Elementi di convergenza e divergenza tra Italia e Stati Uniti

Joel Handler sottolinea come, in Europa, la cittadinanzaa sociale sia connessa con l’inclusione, la solidarietà e l’uguaglianza, mentre “la caratteristica principale della cittadinanza sociale negli Stati Uniti è l’esclusione, più che l’inclusione” (Handler). Secondo Nancy Fra- ser e Linda Gordon, “negli Stati Uniti è raro sentir parlare di cittadi- nanza sociale” nella definizione fornita da Thomas H. Marshall nel celebre saggio Cittadinanza e classe sociale del 1949. L’idea di cittadi- nanza sociale presuppone l’esistenza di diritti sociali o, in altre paro- le, il fatto che le persone “ricevano aiuto mantenendo il loro status di

membri a pieno titolo della società, titolari di uguale rispetto”. Negli Stati Uniti, tuttavia, beneficiare del welfare è solitamente considerato una ferita alla dignità, “una minaccia alla cittadinanza, piuttosto che una sua realizzazione” (Fraser e Gordon 46). L’approccio americano alle politiche sociali deriva infatti dalle categorie della cittadinanza civile, in particolare dai diritti di proprietà. I dibattiti sul welfare sta-

te sono stati di conseguenza intrappolati nella dicotomia che separa

due forme opposte delle relazioni umane: da un lato il contratto, lo scambio tra pari, e dall’altro la carità, un rapporto non ricambiato e unilaterale. Ai programmi contributivi, come le assicurazioni socia- li, sono stati contrapposti quelli non contributivi, come l’assistenza. Nel primo caso si ritiene comunemente che i beneficiari abbiano un diritto all’aiuto, dato che ricevono indietro i contributi che hanno versato, mentre nel secondo questo diritto non esisterebbe, poiché i beneficiari ottengono qualcosa in cambio di nulla. Le politiche sociali, quindi, distinguono i poveri meritevoli dai poveri non meritevoli: per questo Handler definisce il modello statunitense di welfare state “una costruzione morale”, dato che “i programmi si preoccupano prima di tutto del valore morale” dei beneficiari, “più che dell’aiuto” che viene fornito.

L’influenza delle categorie della cittadinanza civile sulle politiche sociali si esercita secondo modalità assai rilevanti per il processo di razzializzazione. La “mitologia culturale della cittadinanza civile”, costruita intorno alla figura del maschio bianco, proprietario e capo- famiglia, escludeva automaticamente “coloro che non possedevano proprietà” (donne, braccianti, lavoratori) oppure “erano una proprie- tà” (gli schiavi) (Fraser e Gordon 55). Inoltre, come sottolinea Mi- chael Brown, “il lavoro e l’ideologia dell’etica del lavoro vivono nel cuore del welfare state americano [...]. Essere cittadini significa essere liberi, cioè essere dei lavoratori indipendenti. Il lavoro è ciò che di- stingue poveri meritevoli e poveri non meritevoli” (16-17). Le compo- nenti contrattuali e contributive del welfare state americano (la social

security) sono state pensate essenzialmente per i lavoratori dipendenti

dell’industria manifatturiera, principalmente maschi, bianchi e con- centrati nel Nord, mentre il lavoro non sindacalizzato e quello agri- colo, domestico e non retribuito – cioè le occupazioni più importanti per le donne, gli afroamericani, i migranti e gli abitanti degli Stati del Sud – sono stati di fatto esclusi dal sistema delle assicurazioni sociali; i soggetti esclusi sono stati quindi costretti a ricorrere all’assistenza (il welfare in senso stretto) in caso di bisogno. Come vedremo più avanti,

la ‘biforcazione’ istituzionale e simbolica tra welfare e social security, con tutte le sue implicazioni, ha essenzialmente avuto origine nel New Deal.

Molti studi evidenziano un processo di “convergenza atlantica” tra Stati Uniti ed Europa, intervenuto negli ultimi decenni, per quanto riguarda la ridiscussione delle politiche sociali e la collocazione del- le minoranze razziali nel welfare state, l’immigrazione, il mercato del lavoro e la segregazione urbana. In primo luogo, a partire dalla fine degli anni Settanta, lo stato sociale europeo si è trovato sempre più sotto attacco: le crescenti necessità fiscali, le pressioni provenienti dal mondo dell’impresa per ridurre il costo del lavoro e i cambiamenti demografici hanno spinto i governi del Vecchio continente a ridur- re la spesa sociale. In questa fase, il welfare state statunitense è stato spesso presentato come un modello. Secondo Handler è stato l’arrivo massiccio di immigrati a mettere in crisi il modello sociale europeo, minando alla base la “comunità di valori e identità condivise”, cioè la precedente omogeneità etnica che era stata all’origine del successo dello stato sociale in Europa. La crisi del welfare state europeo, come osserva Carl-Ulrik Schierup, è intrecciata con “la crisi e la trasforma- zione della nazione e delle identità nazionali stabilite”, la cui mani- festazione più rilevante è “il populismo nostalgico e reazionario che propone la differenza culturale quale fondamento per l’esclusione di tutti coloro che non appartengono alla Nazione”. I paesi dell’Unione Europea si stanno cioè chiudendo “in regimi difensivi [...] che cerca- no di conservare ciò che resta delle tradizionali politiche europee di welfare come riserve etniche per maggioranze nazionali trincerate” (Schierup, Hansen e Castles 3, 18). Questo fenomeno è stato definito “welfare sciovinistico” (Crepaz e Damron 439).

La crisi del welfare state è strettamente legata ai processi di esclu- sione delle minoranze razziali. A partire dalla metà degli anni Set- tanta, e soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, i tagli alla spesa sociale hanno “portato alla progressiva e permanente esclusione di consistenti gruppi di popolazione dai diritti sociali di cittadinanza” (Schierup, Hansen e Castles 1). Dato che l’esclusione ha coinvolto massicciamente i migranti e le nuove minoranze razziali (soprattutto clandestini, lavoratori temporanei e richiedenti asilo), Schierup parla di “esclusione razzializzata”. Il fenomeno rivela una contraddizione con il dichiarato impegno dell’Unione Europea per l’inclusione socia- le, una contraddizione simile al conflitto, evidenziato dall’economista svedese Gunnar Myrdal nel 1944, tra i valori proclamati dagli Stati

Uniti e la realtà di discriminazione e segregazione degli afroamericani (ivi 1-20).3

Anche negli Stati Uniti, tuttavia, il welfare state è stato profonda- mente ridiscusso a partire dai primi anni Ottanta, e i generosi pro- grammi istituiti o ampliati negli anni Sessanta sotto la spinta della “Great Society” – il programma di riforme di Lyndon B. Johnson – hanno subito tagli molto significativi. Come ha spiegato Victoria Mayer, e come vedremo più avanti, fin dagli anni Settanta furono gettate le basi del “nuovo consenso conservatore” che, egemone per tre decenni, sostenne la riforma del welfare del 1996. Anche nel caso degli Stati Uniti il processo di revisione del welfare state ha insomma implicato forme marcate di esclusione razzializzata; un processo di revisione che si è intrecciato anche con le politiche migratorie.

Il quadro dei flussi migratori globali comprende attualmente quat- tro movimenti principali: il primo è diretto dall’Asia Sud-orientale verso il Medio e l’Estremo Oriente; altri due sono diretti verso l’Eu- ropa Occidentale e provengono dall’Africa e dai paesi dell’ex blocco sovietico; infine, il quarto flusso va da sud a nord nelle Americhe, e comprende anche il flusso dal Messico verso gli Stati Uniti, che secon- do gli esperti rappresenta l’emigrazione per lavoro di maggior durata al mondo(Ehrenreich e Hochschild 12). Un altro aspetto rilevante è la complessiva femminilizzazione delle migrazioni: se fino agli anni Settanta gli uomini erano predominanti, oggi si ritiene che circa la metà dei centoventi milioni di migranti legali e illegali nel mondo sia- no donne. Per Barbara Ehrenreich e Arlie Russel Hochschild il feno- meno rappresenta “il rovescio della medaglia, tutto femminile, della globalizzazione”, che vede milioni di donne “migrare dai paesi poveri del Sud del mondo per svolgere il lavoro da donne nel Nord del mon- do, lavoro a cui le donne benestanti non sono più in grado o non han- no più voglia di dedicarsi” e che è stato in precedenza rifiutato dagli uomini (Ehenreich e Hochscild 8-9).

Le donne immigrate trovano impiego nella quasi totalità come col- laboratrici domestiche (tate, colf e badanti) oppure come lavoratrici del sesso, spesso coinvolte nei traffici illeciti di esseri umani. Anche se parte dell’immigrazione negli Stati Uniti è stata attratta, negli anni Novanta, dalla crescita economica, le donne latinoamericane hanno sostituito le afroamericane, che negli anni Quaranta rappresentavano

3 Il riferimento è alla celebre opera di Gunnar Myrdal, An American Dilemma: The Negro

il 60% delle collaboratrici domestiche. Il fenomeno, come vedremo, ha dimensioni particolarmente importanti anche in Italia. La doman- da di lavoro femminile, come sottolinea Saskia Sassen, è strettamente connessa al mutamento del profilo delle città nell’epoca della globa- lizzazione. Col passaggio dalle produzioni manifatturiere allo sviluppo dei servizi, le “città globali” (Sassen, Global City, “Città globali”) sono diventate le sedi delle funzioni di gestione del mercato finanziario e i nodi dell’economia dell’informazione. Il grande flusso di immigrati che ha raggiunto le città occidentali rappresenta quindi un fenomeno complementare alla globalizzazione dei capitali; la concentrazione dei professionisti nelle aree urbane origina infatti una doppia domanda di lavoro: da un lato di personale domestico e, dall’altro, di occupati nei servizi necessari a soddisfare i nuovi modelli di consumo. Le “città globali”, pertanto, ospitano al tempo stesso una classe di dirigenti e professionisti ad alto reddito e una nuova “classe di servitori”, cioè un’ampia forza-lavoro caratterizzata da flessibilità, scarse tutele, basso salario, informalità e individualizzazione, nella quale trova spazio la maggioranza dei migranti. L’economia post-fordista, in altre parole, crea una nuova gerarchia occupazionale urbana differenziata su base razziale, che produce polarizzazione sociale ed esclusione (Sassen,

Global City, Globalization, “Città globali”).

Come sottolinea Kitty Calavita, il fenomeno non si limita alle città e si estende anche alle regioni caratterizzate da elevati tassi di disoccu- pazione della popolazione nativa, come il Mezzogiorno italiano. Qui gli immigrati “sono parte dello stesso fenomeno del tardo capitalismo, fatto di lavoro pre e post-fordista, con poco nel mezzo”. Il lavoro do- mestico e quello agricolo sono, infatti, organizzati in base a regole pre-fordiste (non ci sono la contrattazione collettiva e la stringente regolamentazione pubblica che coinvolge l’industria), ma al tempo stesso i prezzi, i mercati e la forza-lavoro globali sono espressione dell’economia post-fordista (Calavita 73-74). La posizione degli im- migrati nell’economia globale, secondo Calavita, “riproduce inevita- bilmente i segni visibili della povertà”, generando ulteriore esclusione materiale e sociale. I segni della povertà rendono gli immigrati “non estetici” agli sguardi dei cittadini dei paesi ricchi: “la segregazione spaziale rappresenta un tentativo di risolvere questo problema”, ma spesso si risolve nella creazione di “ghetti etnici” che pongono proble- mi anche maggiori (ivi 154).

Negli Stati Uniti l’esclusione razzializzata prodotta dall’economia post-fordista non coinvolge soltanto le comunità di recente immigra-

zione. Fin dagli anni Ottanta, il sociologo americano William Wil- son ha analizzato i processi di marginalizzazione degli afroamericani nei contesti urbani statunitensi. Wilson descrive un divario spaziale e socio-demografico tra l’ubicazione dei servizi e della produzione nel- le aree urbane – quest’ultima legata alla de-industrializzazione e alla de-localizzazione – e la concentrazione degli afroamericani nel centro delle città. Tale divergenza spaziale è esacerbata da un’ulteriore diva- ricazione tra la domanda di lavoro qualificato e la sua carenza nella comunità nera. Entrambe le componenti hanno svantaggiato gli afro- americani e contribuito a forgiare un sottoproletariato urbano caratte- rizzato da disoccupazione, povertà e dipendenza dal welfare (Wilson,

Truly Disadvantaged, When).

Il modello proposto da Wilson non deve essere considerato alter- nativo a quello della “città globale” elaborato da Sassen: al contrario, secondo Schierup, i due trend sono presenti contemporaneamente, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa. Nei paesi europei di più antica immigrazione (Regno Unito, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Austria, Svizzera e Paesi Scandinavi), nel dibattito pubblico l’immigrazione è stata associata ad elevati tassi di disoccupazione, dipendenza dal welfare che grava sulle casse munici- pali, ghetti urbani e alti tassi di criminalità, una situazione che ricorda il modello descritto da Wilson. Al contrario, nei paesi dell’Europa meridionale (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo), l’arrivo massiccio dei migranti negli ultimi anni, funzionale per il loro ruolo nel mer- cato globale, è stato attratto dalla tradizionale importanza dell’eco- nomia sommersa e dalla scarsa regolamentazione di alcuni settori occupazionali. La flessibilità e l’informalità che ne deriva, secondo Sassen, ricordano da vicino la situazione prodotta negli Stati Uniti dalla de-regolamentazione del mercato del lavoro. Per questa ragione, conclude l’autrice, l’Europa del Sud non costituisce un esempio di arretratezza, ma rappresenta l’avanguardia della globalizzazione e del modello post-fordista. In questo quadro, l’Italia è il miglior esempio di “polarizzazione razzializzata all’interno di un mercato del lavoro e di un welfare state divisi in due” (Schierup, Hansen e Castles 107).

Razza e politiche sociali negli Stati Uniti

Può sembrare paradossale che le nuove correnti di analisi del wel-

fortuna della razza come categoria interpretativa: come ha messo in luce Melvin Thomas, dopo che l’uguaglianza razziale era stata rag- giunta sul piano legislativo, numerosi scienziati sociali hanno rilevato il declino dell’importanza della razza nella società americana. Stanley Crouch, nel suo saggio “Race is Over” è arrivato a prevedere che, a causa dell’unione tra persone di diversa “etnia” e “razza”, la razza avrebbe presto cessato di essere alla base della costruzione dell’identità e della distribuzione del potere (170). La nozione di “neutralità rispet- to alla razza” (color-blindness) è stata sempre più spesso impiegata per lo smantellamento di quelle politiche pensate per correggere la disu- guaglianza razziale, come le “azioni positive” (affirmative actions). Si sono moltiplicati gli appelli ad andare “oltre la razza”, e ogni accenno alla coscienza razziale è stato tacciato di razzismo (Omi 245).

Il significato dell’essere bianchi e dell’essere neri nella società ame- ricana, come ha puntualizzato Michael Omi, è stato inoltre radical- mente trasformato dai mutamenti demografici legati all’immigrazione e dalle riforme che hanno investito le relazioni razziali. Il notevole incremento della popolazione ispanica e asiatica negli ultimi decenni ha infatti senza dubbio complicato la tradizionale dicotomia bianchi/ neri. La situazione è resa ancora più articolata dalla presenza degli immigrati neri provenienti dall’Africa o dai Caraibi (rilevante soprat- tutto in alcuni contesti urbani come New York, dove raggiunge l’8% dei residenti) (Omi 253, 246). Secondo Alana Hackshaw la relazione tra afroamericani e neri immigrati può inoltre concorrere a modificare le classiche rappresentazioni dell’identità nera e la tradizionale solida- rietà all’interno della comunità (377).

Alla luce della recente evoluzione del quadro socio-economico, Michael Lind ha invece parlato dell’emergere di una nuova dicoto- mia tra “neri e non-neri”, individuando, da un lato, una “maggioranza mescolata, beige, di bianchi, asiatici e ispanici” e, dall’altro, una mino- ranza di neri “che sono stati lasciati ancora una volta fuori dal melting