• Non ci sono risultati.

Fred Wilson e la presenza nera nell’arte rinascimentale italiana

di Jeffrey C. Stewart

Mentre visitavo la cinquantesima Biennale di Venezia nel 2003, ho avuto la fortuna di assistere all’inaugurazione dell’installazione più di- scussa della manifestazione, Speak of Me as I Am di Fred Wilson. L’in- stallazione di Wilson, primo nero a rappresentare gli Stati Uniti, è una ricerca di ‘verità e riconciliazione’ che l’artista, proveniente da un paese il quale per secoli ha tratto profitto dalla schiavitù, ha sentito come do- vere di mostrare apertamente la pervicace continuità nelle rappresenta- zioni degli africani e negli atteggiamenti verso di loro in un altro paese, l’Italia, e nel suo centro commerciale e artistico più importante, Vene- zia. Come diversi studiosi hanno già sottolineato, il Rinascimento italia- no, spesso riconosciuto come inizio di un approccio umanista all’arte, ha segnato anche l’inizio del colonialismo: un approccio disumano alle popolazioni non bianche, diffuso in tutto il mondo, che ha avuto come risultati il genocidio degli abitanti originari dell’America e la riduzione in schiavitù di milioni di africani e di persone di origine africana con la tratta atlantica degli schiavi. Colombo è sbarcato in America quando Leonardo da Vinci aveva da poco dipinto La Gioconda. L’installazione di Wilson mostra il nesso tra l’ideologia della supremazia bianca che ha sostenuto il colonialismo, sfruttando le popolazioni dalla pelle scura, e l’epicentro dell’arte contemporanea: la Biennale di Venezia. Così facen- do, l’installazione collega il mondo dell’arte alla rappresentazione della ‘blackness’ nelle belle arti e nelle arti decorative.

Nel 2003 l’installazione ha suscitato uno scandalo nella comunità internazionale della critica d’arte. Da un punto di vista estetico, il li- mite del suo approccio all’arte consiste nell’indebolire l’esperienza del sublime nella contemplazione artistica, il che è oggi invece, in larga mi-

1 Titolo originale: “Experiments with Truth: The Postcolonial Predicament of Fred Wil- son”. Traduzione dall’inglese di Tatiana Petrovich Njegosh

sura, ciò che visitatori e critici vogliono sperimentare nelle mostre d’ar- te e nelle biennali. Wilson ha sfruttato il suo breve soggiorno a Venezia per portare alla luce la presenza nera nell’arte, di fatto complicando l’approccio estetico tout court della Biennale, perché ha incluso nella manifestazione la lunga storia di subordinazione dei neri nella tradizio- ne artistica veneziana. Nell’immaginare Venezia dal punto di vista del moro, Wilson ha sospeso lo sguardo egemonico della Biennale. Intito- lando l’installazione Speak of Me as I Am, cioè con il verso dall’Otello di William Shakespeare in cui il Moro chiede di essere definito nei suoi termini (“parlate di me quale sono”, Otello V.2 342), Wilson ha cerca- to, come ha detto all’anteprima della mostra il 12 giugno,

di scoprire chi fossero quelle persone che avevo visto nei quadri, nelle scul- ture, nelle fotografie e nell’arte decorativa durante i viaggi in Italia, da ra- gazzo, con la moglie olandese di mio padre. Chi erano quelle persone di cui non si parlava mai? Come vivevano? E come vedevano il loro posto nel mondo che li circondava?

“Come artista”, ha detto ancora Wilson, “volevo usare la mia im- maginazione per rievocare le loro voci, per vedere se potevo ripro- durre le loro emozioni e, con l’aiuto di storici dell’arte come Paul Kaplan e commercianti d’arte veneziani, presentare lo sguardo del moro sulla vita del moro in Italia. Cosa che nessun altro, per quan- to ne sappia, ha cercato di fare”. L’installazione di Wilson dimostra che i veneziani neri erano confinati in un codice rappresentativo in cui venivano ritratti, nella arti decorative, come figure inerti, frustra- ti dall’ideologia della supremazia bianca che ha dominato la cultura veneziana dopo il Rinascimento. Nel bel mezzo dell’attuale crisi raz- ziale in Europa, mi sembra che l’esplorazione di Wilson della vita interiore dei neri del passato possa aprire uno spiraglio su ciò che i neri, oggi, pensano del nuovo sistema di sfruttamento economico e di rappresentazione che continua a raffigurarli come elementi passivi e decorativi.

Ora, un breve background su Wilson. È il primo artista nero a rap- presentare gli Stati Uniti alla Biennale, un onore cui ha avuto accesso dopo un’illustre carriera come artista concettuale. La carriera di Wil- son, nato nel Bronx, New York, nel 1954, insignito di una borsa della fondazione MacArthur, artista concettuale, ed ex educatore museale, è basata, più che sulla produzione artistica, sul lavoro come curatore. Questo gli ha permesso di rivelare lo sfruttamento socio-economico al centro della cultura americana, e il modo in cui i musei contribu-

iscono a perpetuare tale pratica, cancellando i legami tra gli oggetti raccolti ed esposti. Quando per esempio venne ingaggiato per allestire una mostra sulla collezione della Maryland Historical Society (Mining

the Museum, 1992), Wilson ha fatto parlare di sé sui giornali giustap-

ponendo un palo per la fustigazione degli schiavi ai costosi mobili ot- tocenteschi della collezione. Senza bisogno di alcun testo, Wilson ha creato un nesso silenzioso tra il lavoro degli schiavi (e quindi il sistema per sorvegliare e punire), e la ricchezza accumulata dai proprietari delle piantagioni del Maryland, che permetteva loro di comprare i più bei mobili realizzati dagli artigiani europei. Invitato nel 1991 dal Di- partimento educativo del Whitney Museum of American Art a tenere una conferenza, durante la pausa pranzo Wilson si è messo l’uniforme delle guardie addette alla sicurezza. Quando i membri dello staff della galleria, molti dei quali conoscevano Wilson da anni, sono tornati per l’inizio del tour, non lo hanno riconosciuto.

Il messaggio profondo, su cui Wilson è tornato più volte, sottoli- nea l’invisibilità o la marginalità dei neri negli spazi d’arte allo sguardo dei consumatori occidentali di cultura. Wilson ha causato un notevole dibattito nel mondo dell’arte contemporanea, e la sua pratica di cura- tore consiste nel dare forma di mostra a uno sguardo afroamericano sulla cultura che esiste da qualche tempo. A livello teorico, tale pratica si richiama alla teoria della decostruzione, e al suo precetto, secondo cui ovunque ci sia un sistema binario c’è gerarchia. Nel pensiero cri- tico nero, quel precetto sostiene che quando nelle società occidentali c’è una produzione di beni altamente sofisticati, sono spesso i neri, di solito poveri e bollati come ‘inferiori’, a generare il capitale che ne ha reso possibile la produzione e il consumo, a livello estetico e materia- le. Sul piano pratico, questo sguardo significa vedere, e rendere visibi- li, coloro che sono stati resi invisibili nella memoria ufficiale di quella

cultura. Tale modalità di pensiero è stata messa in pratica per la prima

volta, credo, dagli intellettuali neri educati nelle università d’élite ne- gli Stati Uniti e in Europa, i quali hanno imparato a trovare la propria presenza negli interstizi e nelle cancellature della cultura occidentale. A fare di questa teoria di lettura una nuova pratica storica nell’acca- demia statunitense sono stati infatti i membri della prima generazione di intellettuali neri educati nelle università. W.E.B. Du Bois, Carter G. Woodson, e Alain Locke, tutti con dottorato di ricerca dell’Univer- sità Harvard. Bibliofili autodidatti come Arthur Schomburg l’hanno invece adoperata per la cura di collezioni (libri, oggetti materiali) che re-inscrivevano la storia delle persone di origine africana nella storia

europea.2 La modalità si è poi imposta come critica delle arti visive nel

Black Arts Movement degli anni Sessanta, specialmente nella pedago- gia di artisti come Ed Love e Frank Smith, entrambi appartenenti al dipartimento d’Arte dell’Università Howard. Smith e Love hanno in- segnato a un’intera generazione di studenti una tecnica per leggere gli artefatti culturali, che rivelava come il ruolo dei soggetti neri, persino quando inclusi nella pittura occidentale, riflettesse spesso gerarchie razziali. I critici bianchi degli anni Ottanta hanno fatto propria questa percezione dell’arte occidentale in termini di collocazione del sogget- to afroamericano, pubblicando studi importanti sull’argomento, come per esempio l’ultimo volume, in una serie dedicata all’immagine del nero nell’arte occidentale, a cura di Hugh Honour.

Appena arrivato all’installazione di Wilson nel Padiglione america- no a Venezia mi sono reso conto che lo sguardo afroamericano rivela una verità inquietante. Non solo perché trasfigura ciò che viene visto e lo rende non necessariamente universale nel suo ‘umanesimo’, ma anche perché mette in discussione posizione e ruolo di chi guarda, del visitatore e della visitatrice. Quello sguardo rivela soprattutto una verità sull’élite americana cosmopolita che consuma arte contempora- nea. A queste persone non piace che i loro viaggi in Europa, lontano dai dibattiti nazionali sulla diversità culturale e sulle pari opportunità, siano rovinati da promemoria che rammentano loro quanto sistemi gerarchici basati sulla razza operino anche all’estero. È poi impor- tante, direi, sottolineare gli aspetti postcoloniali dell’installazione di Wilson: il fatto che abbia fatto posare un senegalese come vendito- re di imitazioni di borse griffate all’entrata del Padiglione (un uomo che la polizia ha cercato di mandare via finché Wilson è intervenuto per spiegare che era parte della ‘mostra’), mette in discussione l’idea dei visitatori della Biennale che gli ‘ambulanti’ africani e altri membri delle sottoclassi della diaspora debbano essere esclusi dalla fruizione dell’arte. Allo stesso modo, i ritratti e le sculture kitsch di domestici africani della Venezia del sedicesimo e diciassettesimo secolo, espo- sti nel Padiglione, accorciano le distanze tra le figure anonime della mostra e le centinaia di donne subalterne dell’America nera, o delle nazioni postcoloniali, che spingono passeggini e si prendono cura dei figli delle ricche élite nella fortezza del consumo dell’arte occidentale contemporanea, New York.

2 L’enorme collezione di Arthur Schomburg è alla base dello Schomburg Research Center della New York Public Library ad Harlem. Cfr. Stewart e Davis Ruffins, “Faithful Witness”.

L’installazione di Wilson rivela però una verità più sottile, che col- pisce allo stomaco il visitatore sensibile intento a guardare le decine di figurine decorative di porcellana e di vetro, con i volti grotteschi e i bei corpi neri e levigati che fanno capolino, dal passato, dietro gli steli delle lampade o le gambe dei tavoli. E cioè che sia i neri intrappolati nelle caricature, sia quelli dipinti a olio nei pochi quadri della mostra, sono stati esclusi dal ruolo di creatori di cultura. Come Wilson dimo- stra, i bianchi sono sempre associati alle ‘belle arti’ per mezzo della scultura e della posa classica. Il nero, invece, è confinato di routine nelle ‘arti decorative’ in vetro e porcellana. Ciò che però rende ironica l’installazione è il fatto che la mostra sulla gerarchia razziale nell’arte abbia la sua collocazione a Venezia, città che ha avuto una parte di secondo piano nel Rinascimento italiano e non ha mai rivendicato di essere la culla dell’umanesimo occidentale. Ancora più ironico è il fatto che sebbene l’atteggiamento odierno di Venezia, e dell’Italia in genera- le, sia di solito tollerante verso i neri americani borghesi, specialmente nel caso di intellettuali e artisti, il trattamento degli immigrati africani è invece terrificante. Questo rende problematica la credenza tradizio- nale secondo cui i paesi latini non sono stati tanto razzisti quanto per esempio gli inglesi, il cui Rinascimento è fiorito circa duecento anni dopo quello italiano. In Italia, come si può vedere dai molti ritratti di persone di origine africana, gli africani sono diventati parte della socie- tà d’élite grazie a origini bi-razziali e alla conversione. Anche nel quin- dicesimo e sedicesimo secolo però, come rivelano le biografie di questi personaggi, l’inclusione nella buona società degli africani ‘di successo’ continuava a creare disagio, sospetto e disgusto. Nelle arti decorative contemporanee che Wilson include nella mostra la cosa è chiarissima: dopo il Rinascimento, gli africani sono stati consegnati a un ruolo di servizio il quale, sebbene sia più esotico e dignitoso che in Inghilterra e negli Stati Uniti, è comunque subordinato.

La mostra di Wilson afferma insomma qualcosa di sconcertante: che a dispetto della sua fama di tolleranza razziale e universalismo artistico, Venezia è stata coinvolta tanto quanto Londra in un discorso sulla razza il cui fine ultimo è la celebrazione dell’uomo occidentale come soggetto universale, colui che crea civiltà generando arte, pen- siero e cultura. Nell’affermazione si sente l’eco del momento storico che ha visto la Biennale di Venezia del 2003: l’invasione dell’Iraq, e la retorica che l’accompagnava, secondo la quale gli Stati Uniti avreb- bero portato “valori universali” di democrazia, giustizia e libertà al popolo iracheno.

Mostra come forma e prassi

Fred Wilson è parte di una comunità internazionale di artisti che sono andati oltre le regole del Modernismo abbracciando una prati- ca multiforme, che include il ruolo del critico, del curatore, e, a mio avviso, anche quello dello storico della cultura. Le osservazioni intro- duttive di Wilson fatte all’inaugurazione del Padiglione americano, nel giugno 2003, mi hanno aiutato a contestualizzare il lavoro che ha compiuto a Venezia:

Speak of Me as I Am nasce dai miei primi viaggi in Europa, da ragazzo.

La moglie di mio padre è olandese. Mia madre è dei Caraibi. Mio padre è statunitense. Solo l’andare e venire in Europa così spesso, e vedere mori e altri neri raffigurati nei quadri, mi spingeva a chiedermi chi fossero quei personaggi. Questa opportunità mi ha permesso di scoprire chi fossero, spe- cialmente in una città come Venezia, dove nei primi secoli sono confluite da tutto il mondo tantissime persone, e molti africani, per lavorare e vivere in un luogo meraviglioso. Il progetto, quindi, è sulla storia dei neri veneziani dei primi secoli [...]. Non si tratta però solamente di un lavoro di documen- tazione storica, ma di scoprire come un artista possa usare l’immaginazione per andare oltre il documento storico, riempiendo i vuoti che la storia non riesce a colmare.

Durante l’intervista fatta in occasione della mia visita alla Bienna- le per capire come egli vedesse il rapporto tra arte e storia, Wilson mi ha raccontato che quando stava lavorando alla scelta dei pezzi da esporre, un mercante d’arte con cui collabora voleva sapere se l’esibi- zione avrebbe espresso “la visione che gli italiani hanno dei mori, o la visione americana dei mori”. La sua risposta è stata: “sarà la visione che i mori hanno dei mori, farò del mio meglio. La visione americana e quella italiana non bastano”. Ho deciso di accettare la sfida lanciata da Wilson agli storici, e rivedere la mostra una seconda volta per ca- pire se, e come, egli abbia rappresentato il punto di vista di un moro su un moro a Venezia.

Poiché Fred Wilson è un artista concettuale, il successo delle sue mostre è dato da quanto l’installazione incarna l’idea da comunicare. Wilson comincia a sviluppare l’idea dell’installazione di Venezia già dall’entrata del Padiglione degli Stati Uniti d’America, dove ha collo- cato le riproduzioni di due enormi Atlanti neri (quelle figure scolpite che si trovano sugli edifici veneziani) di fronte a una costruzione neo- classica. Le immagini iniziali annunciano un tema che riecheggia nella mostra: il nero sostiene la civiltà che ha prodotto la grande cultura di

Venezia e, implicitamente, in America. Non è del tutto chiaro come i neri abbiano contribuito all’idea di civiltà in Occidente, ma questo lo vedremo dopo. All’interno dell’edificio incontriamo un magnifico lampadario a bracci nero, che a prima vista appare originale, ma a un esame più attento sembra essere un oggetto che Wilson ha rimaneg- giato, un oggetto d’arte ricreato, di un nero lucido, quasi liquido. E qui ci troviamo faccia a faccia con il Wilson malizioso, che infonde un elemento di fantasia nella mostra, quasi a dire che quel lampadario è un oggetto che potremmo trovare a casa di Otello, il moro divino della tragedia di Shakespeare. Ma il suo status ambiguo (è un oggetto origi- nale, o qualcosa che Wilson ha fatto fare nelle vetrerie al largo di Ve- nezia?) suona come un avvertimento che torna nel corso della mostra. Subito dopo questo magnifico lampadario, c’è un’altra incredibile, am- bigua creazione: una bella scultura kitsch raffigurante un uomo vestito di seta color oro, che ha in mano, anzi ci offre, del pane italiano. Parti- colare degno di nota, il corpo è incompleto, e al posto della testa c’è un mappamondo nero con il continente africano rivolto verso il visitatore. Sicuramente questo è un oggetto che Wilson ha trovato a Venezia, ma viene da chiedersi se la testa-mappamondo sia un dettaglio che un ar- tigiano veneziano avrebbe potuto effettivamente usare per completare la figura. Se così fosse, specialmente con il mappamondo orientato in modo che l’Africa sia posta di fronte, sarebbe un documento incredibi- le dell’Africa a Venezia. La scultura è però probabilmente un’altra del- le opere che Wilson ha manipolato: il mappamondo sembra molto più recente del resto. Quasi sicuramente è un modo, da parte di Wilson, di suggerire che il nero porta sulla propria testa l’intero globo, anche quando porge il pane ai padroni bianchi: un messaggio che richiama i due Atlanti neri all’ingresso. Non è comunque per nulla evidente dove finisca il lavoro originale dell’artigiano italiano, e dove inizi quello di Wilson. Comincio a capire perché Wilson rifugga dal ruolo dello sto- rico. Per lo storico è di assoluta importanza sapere se l’oggetto (d’arte, un libro, o una frase) sia stato effettivamente trovato, e non sia altera- to, se sia insomma una fonte primaria che senza mediazioni parla dal passato, o se sia invece una riflessione sul passato, creata in tempi più recenti, per codificare la nostra visione di esso. Wilson sembra invece confondere intenzionalmente la differenza.

Dal foyer, girando a destra, si entra in una sala piena di figure ca- ricaturali di neri, del tipo di quelle diffuse negli Stati Uniti durante la segregazione. Uomini dai corpi neri e lucidi – la maggior parte con le labbra di un rosso sgargiante, e occhi sporgenti in cui la pupilla nera

spicca sul bianco – con una differenza importante. Queste figure sono versioni orientalizzate dell’africano, indossano fusciacche dorate e tur- banti che contrastano sensualmente con la nudità nera e lucente. È come se queste rappresentazioni, queste rappresentazioni italiane, evo- cassero un terreno di compromesso tra disgusto e desiderio, di solito assente dalle caricature razziali americane. Queste sculture tridimen- sionali sono dozzinali e appariscenti, ma sono anche fantasie sull’uomo nero, caricature dure e crudeli che riassumono l’argomento centrale della mostra. Nonostante il romanticismo esoticheggiante attraverso cui il nero è presentato altrove nel Padiglione, l’Italia, non meno degli Stati Uniti, ha perpetuato una forma di supremazia bianca che secon- do la definizione di George Fredrickson3 si qualifica come razzismo,

perlomeno nella misura in cui queste figure sembrano escludere i neri dalle belle arti riservate agli italiani e ci ricordano la crudeltà delle re- lazioni razziali italiane, dal diciannovesimo secolo in poi. A destra si erge la scultura kitsch di un nero, avvolto nei tubi di un estintore, che Wilson ha usato per drappeggiare la statua. La figura sembra avvilup- pata e intrappolata dai tubi, evidentemente un modo per segnalare che il nero era imprigionato nei ruoli e nelle rappresentazioni della società veneziana. Ancora più efficace nel comunicare quell’idea è la semplice fotografia che Wilson ha scattato in un negozio di antiquario, pieno di dozzine di neri orientaleggianti – figure lucide, inespressive, con il turbante – così aggruppate che sembrano persone, eccessivamente truccate, a bordo di una galera di schiavi. A destra, in basso, si vede una pubblicità in blu della American Express, “Non partite senza di lei”, perché sia chiaro e si sappia che quegli oggetti sono acquistabili in Italia. La fotografia, all’osservatore afroamericano, ricorda che uno dei pochi risultati ottenuto negli Stati Uniti dal Movimento per i diritti