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Gli indiani d’America e l’immaginario politico tra Stati Uniti e Italia

di Giorgio Mariani

Indiani e padani

“Loro hanno subito l’immigrazione. Ora vivono nelle riserve!” Chi non ricorda questo slogan, stampato sui manifesti della Lega Nord per la campagna elettorale del 2008, accanto alla classica immagine di un indiano con il copricapo di penne d’aquila? Come ha avuto modo di spiegare l’allora segretario della Lega per la provincia di Milano e parlamentare europeo, Matteo Salvini (quello del ritornello “Senti che puzza scappano anche i cani / Stanno arrivando i napoletani”, immor- talato su YouTube), il manifesto non è un’invenzione padana doc. È invece ripreso da uno pressoché identico utilizzato da una formazio- ne politica analoga alla Lega Nord, la Lega dei Ticinesi, che l’aveva lanciato in una consultazione del 2007. “Ci è piaciuto. Lo abbiamo copiato [...]. Il messaggio è molto efficace” (cit. in Poletti). Sull’effi- cacia del messaggio e dell’immagine di quello che è stato ribattezzato “il Toro Seduto della Lega”, non ci possono essere dubbi. Anche nelle ultime elezioni regionali (2010) l’effige dell’‘indiano padano’, col suo messaggio anti-immigrazione, è stata riprodotta su migliaia di mani- festi e volantini, nonostante l’ironia riservatagli da alcuni osservatori distanti dal razzismo della formazione di Bossi. Per esempio, su La

Stampa, Fabio Poletti ha scritto:

Ma se Toro Seduto è come Alberto da Giussano o Braveheart, le ultime ico- ne dell’universo leghista, chi fa il generale Custer? Walter Veltroni? Doman- da ancora più azzardata quella sulle terribili giacche azzurre, o blu che dir si voglia, che hanno costretto gli indiani nelle riserve. Per i leghisti di Umberto Bossi che alle elezioni corrono con Berlusconi, l’unico azzurro riconosciuto è quello che veleggia dalle parti di Arcore [...]. Il manifesto con l’indiano padano svizzero è comunque già entrato nella leggenda del Carroccio.

È evidente che se l’immagine e lo slogan ‘funzionano’ non è per- ché offrano una descrizione in qualche modo coerente o accurata della realtà. A qualsiasi osservatore non accecato dal fanatismo do- vrebbero bastare pochi secondi per rendersi conto dell’assurdità del paragone proposto nel manifesto leghista. Le migliaia di migranti provenienti dall’Africa, dall’Asia o dall’Est europeo, e attratti verso i paesi dell’Unione Europea dalla possibilità di un reddito, oppure in fuga da guerre, carestie e regimi dittatoriali, ricordano solo molto superficialmente quegli europei che, nei secoli scorsi, con la loro mi- grazione in Nord America, hanno infine costretto gli indiani a vivere nelle riserve. Né gli europei di oggi possono essere paragonati in al- cun modo alle centinaia di piccole o grandi ‘nazioni indiane’ disperse su un territorio vastissimo e impreparate dal punto di vista tecnologi- co e politico a fare fronte a una vera e propria invasione militare, che aveva dietro di sé una precisa regia coloniale e imperiale. È dunque abbastanza facile rovesciare di centottanta gradi il messaggio del ma- nifesto leghista. I migranti odierni – e in particolare i ‘clandestini’, quelli che arrivano sfidando la morte per annegamento sui barconi, oppure rischiando di soffocare nascosti nei container – fanno pensa- re proprio a quegli indiani americani strappati alle loro terre e al loro stile di vita per essere rinchiusi in ‘riserve’ inizialmente assai simili ai nostri CPT (Centri di Permanenza Temporanea, come pudicamente vengono chiamate queste prigioni fuori da ogni concezione del di- ritto moderno). Oppure a quegli indiani che, già a partire dall’Otto- cento e poi in modo massiccio nel Novecento, si sono spostati dalle riserve nelle città alla ricerca di un lavoro, finendo spesso con l’essere sfruttati e discriminati, e diventando non di rado vittime della violen- za della polizia e dei vigilantes, proprio come accade a tanti migranti odierni, in Italia e altrove.

Ma poiché è ormai assodato anche a livello di pubblica opinio- ne che la ‘civilizzazione’ delle Americhe fu in realtà un’invasione, cui si associò la brutale sottomissione delle popolazioni indigene, a una Lega Nord impegnata a convincere l’elettorato che gli immigrati ‘ci stanno invadendo’ e ‘vogliono imporci i loro valori’ (in genere islami- ci), l’immagine dell’indiano piace perché è l’immagine della vittima. Come ha argomentato in modo assai convincente René Girard, nel discorso politico contemporaneo è assolutamente cruciale presentarsi come vittima, anche e soprattutto quando le cose stanno esattamente al contrario (basti pensare alle ‘esternazioni’ quotidiane di Berlusconi su se stesso ‘vittima’ dei giudici, della stampa di sinistra, di complotti

internazionali, ecc.).1 Il manifesto leghista è dunque un caso esempla-

re di testo ‘ideologico’, di vero e proprio ‘rovesciamento’ della realtà. In un noto brano di L’ideologia tedesca, Marx ed Engels si riferiscono per l’appunto a come, nella mistificazione ideologica, “gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura” (38-39, corsivo mio). Sequestrando l’immagine dell’indiano, la Lega riesce a capovolgere quell’Occidente che ha per secoli colonizzato, schiaviz- zato e sfruttato i popoli indigeni dell’Africa e delle Americhe nella figura di vittima impotente di un’invasione barbarica.

10, 100, 1000 indiani

In questa sede quello che però è importante sottolineare non è tanto la cattiva coscienza che si nasconde e si traveste da solidarietà con la ‘vittima’ nel manifesto leghista, quanto un dato più genera- le: per quanto si possa intuitivamente pensare che la simpatia per la causa degli indiani d’America, così come per tutte le vittime dei colo- nialismi e degli imperialismi ‘occidentali’, sia da collocarsi in un’area politico-culturale genericamente definibile come ‘di sinistra’, i fatti ci dicono che molto spesso – e non solo in Italia, come vedremo – è anche a destra, e non di rado alla destra estrema, che si collocano molti paladini (o sedicenti tali) degli indiani d’America. Se è dun- que vero che spesso è stata la sinistra (nella sua accezione più am- pia, naturalmente) a idealizzare e utilizzare simboli ‘indiani’ – come è accaduto per esempio in Italia, e a Roma in particolare, durante il 1977, con il movimento degli “indiani metropolitani” (cfr. Mariani, “Was Anybody”), o come era successo negli anni Sessanta negli Stati Uniti, quando, per citare lo scrittore indiano Sherman Alexie, “tutti gli hippie cercavano di essere indiani” (24) – l’immagine degli indiani d’America non può essere stabilmente collocata in un preciso uni- verso culturale e politico. Al contrario, l’icona dell’indiano funziona

1 Si vedano in particolare i commenti di René Girard in Vedo Satana cadere, anche se indica- zioni a riguardo possono essere rintracciate in molti altri suoi scritti. È peraltro desolante dover notare che, sia pure con l’intento primario di ironizzare “sull’indiano della Lega” e non sugli indiani in quanto tali, la lista di centrosinistra presentatasi alle elezioni provin- ciali a sostegno della candidatura di Filippo Penati ha replicato il faccione pellerossa su un manifesto in cui accusa la Lega di aver contribuito alla crisi dell’aeroporto di Malpensa. Lo slogan del manifesto del centrosinistra è: “Loro [gli indiani] non avevano un aeropor- to. Adesso neanche noi lombardi”. Anche qui l’indiano viene riproposto come vittima, ma cosa assai spiacevole, anche nella veste di ‘primitivo’.

come un vero e proprio floating signifier – un significante sfuggente e fluttuante, costantemente fatto proprio e riciclato in contesti simbo- lici tra loro del tutto incompatibili.

Come ha scritto David Treuer, un altro brillante scrittore india- no americano contemporaneo, “[g]li indiani rappresentano l’uno per cento della popolazione statunitense: due milioni su duecento milioni. Eppure noi indiani affolliamo l’immaginazione moderna, dal primo Thanksgiving al Boston Tea Party, il Canto di Hiawatha di Longfellow, la Battaglia del Little Big Horn e Balla coi lupi. Gli indiani che la gente immagina, e gli indiani che vengono creati sulla pagina, sono assai più attivi, assai più presenti, degli indiani in carne e ossa. Il risultato è un fragoroso silenzio. La nostra è una presenza fantasmatica” (11).2 Gli indiani così massicciamente presenti, sin dalle

sue origini, nel discorso politico e letterario statunitense sono spesso descritti come una minaccia, ma assai spesso finiscono con l’assumere contorni attraenti e perfino salvifici. Esemplare in tal senso il caso di Squanto, l’indiano patuxet che insegnò ai Padri Pellegrini a piantare il granoturco e a sopravvivere in una natura che, per i primi coloni, si presentava essenzialmente come ostile. Né è casuale che i patrioti americani protagonisti del Boston Tea Party si travestissero da indiani mohawk, e che una vasta pubblicistica rivoluzionaria amasse assimi- lare i rivoluzionari agli indiani, sebbene non poche tribù indiane fos- sero nei fatti alleati degli inglesi durante la Guerra d’indipendenza, e la stessa celebre Dichiarazione del 1776 facesse esplicito riferimento agli “spietati selvaggi indiani” che Giorgio III aveva scatenato contro

i coloni (Scheckel 7-8,15-18). Questa sorta di schizofrenia è la regola, non l’eccezione, come dimostra anche il fatto che proprio negli anni in cui più violenti si facevano gli attacchi contro i nativi e le tribù indi- gene venivano politicamente soggiogate, il poema epico di argomento indiano Hiawatha conobbe una straordinaria fortuna, garantendo una ‘redenzione nazionale’ in cui il sacrificio degli indiani sul piano del re- ale era compensato dalla loro elevazione sul piano simbolico-culturale a “fondatori e guardiani della nazione” (Trachtenberg xxiii-xxiv).

Già sulla base di queste osservazioni preliminari è possibile osser- vare quanto il profilo simbolico degli indiani d’America si distingua in modo netto e inequivocabile da quello degli afroamericani. Ancora oggi negli Stati Uniti, per esempio, ci sono razzisti e antisemiti che pur

2 La traduzione delle citazioni dall’inglese, ove non specificato altrimenti in bibliografia, è mia.

avendo in odio i popoli di origine africana, invocando il ritorno alla segregazione e inorridendo di fronte alla possibilità di una ‘mesco- lanza’ tra la ‘razza’ bianca e quella nera, si presentano non solo come ‘amici’ degli indiani, ma in alcuni casi si spingono sino a rivendicare una discendenza biologica diretta da antenati indigeni. Come osser- veremo più sotto, uno dei casi di frode letteraria più clamorosa degli ultimi decenni negli Stati Uniti riguarda nientemeno che un terrorista del Ku Klux Klan – tale Asa Carter – che si è scoperto essere l’auto- re di un libro venduto (e lodato!) per anni come una commovente e genuina autobiografia indiana. La tesi di questo mio intervento è dunque piuttosto semplice. Tanto negli Stati Uniti quanto in Italia, gli indiani vengono ‘contesi’ da campi ideologici e politici opposti, e non di rado – come nel caso del manifesto della Lega Nord – persi- no da organizzazioni esplicitamente razziste o xenofobe. Nelle pagine che seguono cercherò di dare conto di questa contraddittoria realtà, che è a mio avviso riconducibile a una ambiguità fondativa del di- scorso sugli indiani d’America già richiamata nei riferimenti ai Padri Pellegrini e alla Rivoluzione americana, per non parlare della figura di Pocahontas o delle diverse declinazioni romantiche degli indiani, da Washington Irving a James Fenimore Cooper. È però opportuno sot- tolineare che se in questa sede si parlerà quasi esclusivamente di come gli indiani siano immaginati, idealizzati, rappresentati – o meglio sa- rebbe dire, spesso ‘sfigurati’ – dai discorsi dei non-indiani, questo non vuol certo dire che i nativi americani siano incapaci di autorappresen- tarsi o non cerchino di opporsi alle raffigurazioni errate che delle loro culture, tradizioni e stili di vita vengono proposte da più parti. Da questo punto di vista ci pare che parlare di “fragoroso silenzio”, come fa Treuer, sia eccessivo. Da sempre gli indiani combattono la loro tra- sformazione in tracce fantasmatiche attraverso una strenua resistenza politica e culturale tanto ammirevole quanto importante, e ampiamen- te documentata (si veda, per esempio, Jaimes). Nonostante i numeri le impediscano di avere quel peso politico a livello federale che hanno altre minoranze, a partire naturalmente da quella afroamericana, la popolazione indiana degli Stati Uniti non ha mai rinunciato a battersi contro le distorsioni prodotte da quei non-indiani che mentre da un lato cercavano di cancellarli fisicamente, dall’altra hanno continuato – e tuttora continuano – a ‘giocare agli indiani’ e a farne gli oggetti dei propri desideri e delle proprie fantasie (cfr. Deloria; Huhndorf).

Da Pocahontas ai missili Tomahawk: ovvero, come amare e soggiogare gli indiani

In questa sede non è possibile dare conto della lunga e complessa vicenda della colonizzazione del Nord America, né del ruolo gioca- to dagli indiani d’America nella formazione della cultura moderna dell’Occidente. Basterà ricordare che la scoperta dei ‘selvaggi’ del Nuovo Mondo diede vita a un lungo e variegato dibattito sulla loro natura e le loro origini, e com’è noto ci fu chi mise in dubbio la loro appartenenza al genere umano, sostenendo che i selvaggi non aveva- no un’anima. Una volta riconosciuta la discendenza da Adamo degli indigeni americani – che naturalmente consentì ai missionari cristiani di portare avanti un’opera di conversione – questo dibattito sulle pe- culiarità storiche e antropologiche dei ‘selvaggi’ sarebbe continuato a lungo, contribuendo in modo significativo a quella più ampia “di- sputa del Nuovo Mondo”, oggetto di un celebre libro di Antonello Gerbi. Qui ci limiteremo a osservare con Giuliano Gliozzi, che ne scrisse già molti anni or sono, “come l’immagine dell’indigeno ameri- cano che si diffuse in Europa nei tre secoli successivi alla scoperta di Colombo sia stata incessantemente condizionata dal diverso configu- rarsi dei rapporti di sfruttamento che gli europei imposero al Nuovo Mondo, dai differenti interessi delle nazioni e delle classi implicate in quest’impresa, dall’uso strumentale di quest’immagine da parte di una classe nella sua lotta ideologica contro l’altra” (17-18). Limitando il nostro sguardo alla realtà degli Stati Uniti d’America, possiamo senza dubbio dire che gli indiani hanno ricoperto un ruolo fondamentale nella ridefinizione dell’identità dei coloni europei come cives america-

ni (cfr. Berkhofer; Scheckel; Trachtenberg). Sono stati, in altre parole,

quell’ “io sotterraneo” (Said, Orientalismo) sulla cui base l’America ha costruito nel tempo il proprio carattere di nazione ‘nuova’, non più europea, ma nemmeno ‘selvaggia’.

Questo però, è bene ricordarlo, avvenne non solo opponendo alla ‘barbarie’ degli indiani la civiltà dei colonizzatori, e dunque confi- nando i primi nello spazio di un’alterità assoluta e minacciosa, con- dannata alla distruzione. A seconda delle circostanze, gli indiani po- tevano acquisire caratteristiche positive e desiderabili. Come ho già avuto modo di osservare altrove (La penna 15-20), se da un lato la contrapposizione tra la nascente civiltà degli Stati Uniti e l’inciviltà degli indiani d’America ricorda quella analoga tra i bianchi di origine europea e i neri schiavizzati e trascinati in catene dall’Africa, dall’altro

questi ultimi si distinguono non solo per i loro tratti ‘barbari’, ma per la loro condizione di illibertà. La scrittrice afroamericana Toni Mor- rison ha persuasivamente argomentato che la costruzione dell’idea di libertà americana poggia in misura rilevante sulla sua contrapposizio- ne alle condizioni sociali di una popolazione nera cui quella libertà era programmaticamente e sistematicamente negata. Gli indiani, però, potevano essere rappresentati sì come selvaggi e primitivi, ma di certo non come unfree. Ecco dunque che talvolta le società indiane vengo- no accostate ai modelli dell’antichità classica greco-romana, anche se più spesso la libertà di cui godono gli indigeni è descritta come priva di quelle ‘regole’ e quei ‘limiti’ ritenuti imprescindibili dal nascente pensiero politico statunitense.

Su un altro piano, poi, la differenza nel modo in cui gli europei si relazionano ai neri e agli indiani, rispettivamente, è ancora più marca- ta. L’idea di una mescolanza tra il sangue nero e quello bianco suscita generalmente orrore e riprovazione. Gli uomini bianchi non si tratten- gono certo dall’abusare delle proprie schiave tanto che, come osserva ironicamente Frederick Douglass in un passo della sua autobiografia, “se i discendenti diretti di Cam sono gli unici a essere schiavi sull’au- torità della Bibbia, è sicuro che la schiavitù negli Stati meridionali diverrà presto anti-biblica, perchè ogni anno vedono la luce migliaia di schiavi che, come me, devono l’esistenza a padri di pelle bianca” (47). Questa condotta è però ufficialmente stigmatizzata e ci vorranno quasi due secoli perché l’idea dei matrimoni misti tra bianchi e neri cessi di suscitare scandalo. Le unioni tra euroamericani e indiani, vice- versa, pur non essendo certo universalmente incoraggiate, e in alcuni casi esplicitamente vietate dalla legge, sono viste da alcuni con favore sin dai primi decenni della colonizzazione inglese. Nonostante la lun- ga progenie di personaggi ‘mezzosangue’ destinati a fini tragiche che popolano le pagine della letteratura americana, già nel 1728 William Byrd, autore della History of the Dividing Line Betwixt Virginia and

North Carolina, sosteneva che l’unione tra la ‘razza’ bianca e quella

rossa era desiderabile e opportuna, in primo luogo da un punto di vista pratico, poiché avrebbe consentito una più pacifica convivenza tra i due gruppi etnici. Inoltre, avrebbe favorito la conversione degli indiani al Cristianesimo, e avrebbe al contempo reso possibile una più rapida crescita della popolazione maschile delle colonie. Opinioni non dissimili vennero espresse anche da uno dei padri fondatori della repubblica americana, Thomas Jefferson, che, per quanto avversasse le unioni tra neri e bianchi, considerava invece quelle tra bianchi e

indiani del tutto accettabili. Su un piano più prettamente simbolico- culturale, merita di essere poi segnalata la pubblicazione, nel 1805, di un testo di John Davis che per la prima volta ripropone il celebre episodio seicentesco della ‘principessa’ Pocahontas che salva dalla de- capitazione il Capitano John Smith, inventando una storia d’amore tra i due cui le fonti storiche non fanno il minimo cenno. Il libro di Davis è un tassello importante nella costruzione di quello che è stato defini- to un vero e proprio ‘mito di Pocahontas’, il cui intento principale è rendere meno traumatica la presa di possesso del Nuovo Mondo da parte europea, per reimmaginarla come l’abbraccio tra due amanti ar- chetipici: l’esploratore bianco, lui; la vergine indiana, lei. Naturalmen- te la dote della ‘principessa’ altro non è che l’America, che in questa sorta di mito di fondazione viene più o meno liberamente donata al maschio europeo.

Vale dunque la pena ripeterlo: per quanto agli occhi degli euro- americani tanto gli indiani quanto i neri si configurino nella grande maggioranza dei casi come incarnazioni di una barbarie e un’inciviltà che la società americana è destinata a superare nel suo inesorabile processo di avanzamento da Est verso Ovest (Pearce), in quanto ori- ginali abitatori del Nuovo Mondo gli indiani sono sovente caratteriz- zati anche come la chiave che consente ai coloni di carpirne i segreti. E naturalmente, nel momento in cui nasce la Repubblica americana e il distacco dall’Europa diviene una necessità politica, i patrioti si ‘indianizzano’ nella misura in cui si candidano a rimpiazzare gli indi- geni in quanto americani. Su un altro versante poi, la resistenza che gli indiani oppongono alla colonizzazione fa crescere non solo l’odio razzista nei loro confronti, ma spesso genera anche sentimenti di am- mirazione per l’eroismo messo in campo dai nativi. Chi li combatte immagina dunque che, nel sottometterli, ne erediti in qualche modo anche le prerogative di coraggio, abnegazione e, naturalmente, quella ferocia indispensabile in ogni situazione di guerra. Su un piano let- terario questo interesse per il nemico sconfitto fa sì che giornalisti, militari, etnografi ante litteram inizino una prima rudimentale ‘ricerca sul campo’ che porterà alla nascita di un genere letterario preciso: quello delle autobiografie as told to, in cui un indiano narra a un tra- scrittore euroamericano le vicende della propria esistenza e del pro- prio popolo (cfr. Krupat 28-53). A un livello più prosaico, possiamo osservare che è in questa cultura di guerra, prodiga di ammirazione e ‘rispetto’ per l’avversario piegato e sovente ucciso, che trova le sue radici quell’abitudine così tipicamente statunitense di affibbiare nomi

indiani a veicoli militari, elicotteri da combattimento, missili balistici. Le jeep Cherokee sono ormai conosciute in tutto il mondo, così come gli elicotteri Apache e Chinook, o i missili balistici Tomahawk. Questa pratica denominativa non è per nulla casuale. È con un atto ufficia- le – l’Army Regulation (AR) 70-28, del 4 aprile 1969 – che l’esercito statunitense decide di battezzare i propri aerei ed elicotteri con nomi indiani, e sebbene questo provvedimento sia poi stato sospeso, la pra- tica resta diffusissima. Ricordiamo, per esempio, che gli elicotteri del-