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La razza nei fumetti americani tradotti durante il Fascismo

di Caterina Sinibaldi

I fumetti in Italia e negli Stati Uniti

Quando fecero la loro comparsa sulla stampa americana, verso la fine del 1880, i fumetti, o comics, erano soprattutto mirati a divertire il lettore e a strappargli un sorriso tra una notizia sportiva e una di cro- naca. La forte componente di satira sociale che caratterizzava le prime vignette, unita al fatto che le stesse fossero pubblicate su quotidiani di ampia tiratura, fece sì che i fumetti fossero apprezzati soprattutto da un pubblico adulto. Solo successivamente i disegnatori iniziarono a cimen- tarsi in storie più elaborate, dall’andamento periodico, che riflettevano una varietà di generi letterari. Il successo fu immediato, come rivela un’indagine del 1924, secondo la quale ben l’ottantaquattro per cento dei giovani residenti nelle città americane leggevano regolarmente i fu- metti sul giornale della domenica, noti come Sunday strips (Batchelor 275). Nel 1934 apparve il primo comic book, un giornale illustrato in- teramente dedicato ai fumetti, i quali si configurarono come medium autonomo e ben presto si videro popolati dai celebri supereroi, a co- minciare da Superman, nel 1938. Tuttavia, sarebbe erroneo considera- re i comics solo come un’intelligente trovata commerciale, destinata a stravolgere il mercato editoriale americano. Le storie a fumetti ebbero un impatto sulla cultura popolare degli Stati Uniti che andò ben oltre i successi nelle vendite, e che si traduce in una valenza simbolica e iden- titaria. Come recita un celebre aforisma di Heinz Politzer, “l’America senza fumetti non sarebbe l’America”1 (cit. in White e Abel 54).

In Italia la situazione era molto diversa, dal momento che i fumetti si configurarono fin dall’inizio come un prodotto ‘straniero’, introdot-

1 La traduzione delle citazioni dall’inglese, ove non specificato altrimenti in bibliografia, è mia.

to tramite la traduzione nel panorama letterario e culturale del paese. Il linguaggio dei fumetti, oltre ad essere estraneo alla cultura italiana, si poneva in contrasto con i valori umanistici della tradizione, metten- do in discussione il rapporto gerarchico tra testo e immagine. Come sostiene Leonardo Becciu, “l’Europa ‘umanista’ non voleva e non po- teva neppure accettare l’idea che la ‘sacra’ parola si riducesse al rango di ancella del disegno” (30).

Il primo fumetto ad essere tradotto fu una vignetta di “The Yellow Kid” comparsa su Il Novellino, nel 1904. Dal 1908, tavole illustra- te iniziarono a comparire sul Corriere dei Piccoli, inserto del Corriere

della Sera che rappresenta una pietra miliare della stampa per ragazzi

del Ventesimo secolo. Fin dall’inizio quindi, i fumetti in Italia furono considerati letture adatte ai più piccoli, sebbene alle origini si rivol- gessero al pubblico misto dei lettori di quotidiani. Secondo Ernesto Laura, “in ciò si era figli di una cultura che assegnava le ‘figure’ agli illetterati e ai bambini, la lettura (dei libri) agli altri” (5).

In conseguenza di tale infantilizzazione, i fumetti stranieri in tra- duzione venivano adattati alle convenzioni della letteratura per l’in- fanzia dell’epoca. Il cambiamento più evidente, se si confronta una striscia originale con una tradotta, riguarda l’organizzazione visiva del fumetto italiano, che, rifiutando i balloons, le nuvolette, a favore di didascalie, ricrea la gerarchia tradizionale tra testo e immagine, nella quale l’immagine è mera illustrazione del testo scritto.

Entrate quasi in sordina nella letteratura per l’infanzia italiana, le “fiabe a quadretti”, come le definisce Claudio Bertieri, ebbero però un inaspettato successo. Grazie anche alla lungimiranza di alcuni edi- tori, che compresero il potenziale di quei materiali d’oltremare, i fu- metti americani acquisirono una popolarità crescente nel corso degli anni Trenta. Come nota Claudio Carabba in Corrierino, Corrierona, “semmai le licenze straordinarie erano concesse agli eroi stranieri... non ai bimbi d’Italia, che se non erano bravi e obbedienti, venivano regolarmente puniti”(43) e ciò si traduceva nell’enorme successo del- le storie straniere pubblicate nei cosiddetti ‘giornaletti’, che inondaro- no letteralmente la stampa per ragazzi.

Gli interventi del regime

L’ampia presenza di fumetti d’importazione cominciò ad attirare le attenzioni del regime solo dalla seconda metà degli anni Trenta,

ovvero quando il Fascismo accentua i suoi tratti totalitari e rinforza i meccanismi di controllo sociale. Da un punto di vista politico, l’Italia stava perseguendo l’indipendenza dai prodotti stranieri, dopo che Be- nito Mussolini aveva proclamato la politica economica dell’autarchia nel 1936. A ciò si aggiungevano ragioni ideologiche, espresse nel cre- scente sentimento antiamericano, che vedeva nella società democrati- ca e consumistica degli Stati Uniti una degenerazione dei costumi, da contrastare attraverso i valori ‘sani’ del fascismo. L’ostilità degli organi di potere dello Stato fascista si traduce in misure censorie di varia natura. Se quello del 1936 è solo un invito agli editori della stampa per ragazzi a ridurre i materiali stranieri a favore di quelli italiani, nel 1938 il Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop) impone, con una circolare, “l’abolizione completa di tutto il materiale di importa- zione straniera” e “la soppressione di quelle storie e illustrazioni che si ispirano alla produzione straniera” (cit. in Carabba, Fascismo 38).

Ciò avviene all’alba del Convegno nazionale per la letteratura in-

fantile e giovanile, tenutosi a Bologna nel novembre 1938 e presiedu-

to da Filippo Tommaso Marinetti, il quale illustra nei quindici punti del “Manifesto della letteratura giovanile” i doveri e le necessità di una letteratura fascista per l’infanzia. Tra di essi spiccano il punto quattro, riguardo alla verità storica che va “rispettata ma sottomessa all’orgoglio italiano per modo che in tutte le narrazioni i nostri in- fortuni siano trattati con laconismo e le nostre numerose vittorie con lirismo”, e l’undici, che sottolinea la “contentezza di vivere oggi da italiani fascisti imperiali preferendo nello studio della storia il recente glorioso passato degli ultimi cinquanta anni ai secoli superati dalla nostra attuale grandezza” (Marinetti 8). La letteratura per l’infanzia auspicata da Marinetti doveva essere animata da spirito patriottico e guerrafondaio, nonché sostenere la mitologia che vedeva nel fascismo la salvezza della nazione italiana. Tali temi sono ripresi e sviluppati negli interventi degli intellettuali che partecipano al convegno, all’in- terno del quale ampio spazio è dedicato ai problemi dell’influenza straniera sulla letteratura per l’infanzia. Ad essere criticata è soprattut- to la stampa periodica per ragazzi, e in particolare i fumetti, che sono accusati di aver trasformato i lettori italiani in “divoratori di figurine” (Fanciulli 163). Mario Mazza, uno dei fondatori del movimento scou- tistico cattolico italiano, afferma che, mentre la scuola fascista stimola la fantasia a lavorare sui materiali concreti della vita, “quella del ra- gazzo in balia degli stupefacenti mentali è spinta a lavorare sopra a materiali da manicomio, da incubo e da galera” (175).

Nonostante ciò, almeno fino alla censura definitiva che avviene nel 1941, sorprende constatare quanto le storie americane continuarono a circolare, più o meno camuffate, sui ‘giornaletti’ nostrani, rivelando nella pratica un livello di libertà molto maggiore di quello che veniva professato dal regime. Se davvero l’obiettivo degli organi censori era la completa eliminazione di ogni materiale straniero dai giornaletti italiani, il processo fu estremamente lento e difficoltoso, e i risultati ottenuti saranno presto spazzati via dall’ingresso dell’Italia nella Se- conda guerra mondiale. D’altro canto non bisogna dimenticare che i fumetti erano molto remunerativi e che la negoziazione tra editori e regime faceva da sfondo alla produzione culturale dell’epoca. In que- sto panorama, il fumetto rappresentava uno spazio di nicchia che, più di altri, si prestava a dare voce ad idee alternative a quelle espresse nella cultura ufficiale.

Un chiaro esempio nella produzione italiana del periodo è costi- tuito dal soldato Marmittone, creazione di Bruno Angoletta, che alla fine di ogni episodio viene spedito in prigione per la sua totale man- canza di disciplina e di spirito bellico. Benché Angoletta non fosse apertamente antifascista, il personaggio nato dalla sua penna era la personificazione di stereotipi convenzionalmente attribuiti alla popo- lazione italiana, quali la non-violenza e l’aspirazione a una vita tran- quilla. L’umorismo si configura quindi come una forma di resistenza all’ideologia dominante, espressa nella retorica fascista della virilità e del bellicismo, e il fumetto, vista la bassa considerazione di cui godeva in relazione alla cultura ufficiale, diviene il luogo in cui possono essere espressi contenuti non allineati.

Progressivamente, nel corso degli anni Trenta le direttive del re- gime portarono alla limitazione del materiale straniero, e all’aumento di storie italiane più direttamente ispirate ai valori dell’Italia fascista. Tali disposizioni si iscrivevano all’interno di una politica protezionista, caratterizzata da un generale rifiuto verso i materiali di importazione, di cui i fumetti americani erano un esempio fin troppo appariscente. Inoltre, il rifiuto verso i materiali stranieri riflette il crescente razzismo professato dal regime che nel 1938 ha istituito le leggi razziali in Italia. Francesco Sapori, noto intellettuale di regime, la cui principale attività fu quella di critico d’arte, ma che ricoprì diversi incarichi culturali di rilievo durante il Fascismo, afferma che “[l]a tutela della razza sta nelle genuine espressioni artistiche e letterarie” (Sapori 31). Nel 1941, a se- guito del tracollo delle relazioni politiche con gli Stati Uniti, il MinCul- Pop sancisce l’eliminazione definitiva di qualsiasi materiale d’importa-

zione nei fumetti italiani. Esemplari di tale atteggiamento, che vedeva nei fumetti americani il prodotto malato di una ideologia ‘nemica’, sono le parole di Cipriano Efisio Oppo, artista e intellettuale nonché sostenitore del regime, comparse su L’ora del 3 settembre 1944:

Non pensavano gli europei presi dal fascino di Topolino, che sarebbe venu- ta la guerra. Non pensavano che l’America non avrebbe perduta l’occasione per cercare di penetrare in Europa con mezzi più micidiali della musica negra, del cinema e della letteratura schifosamente veristica, con i quali ave- va avvelenato, lentamente ma costantemente, le nuove generazioni. Arte, questa parola che nei nostri paesi non si può pronunciare senza pensare a qualcosa di alto, di severo, di inarrivabile e che si apparenta sempre all’idea dell’eterno e del divino; arte, fu chiamata la paccottiglia di veleni rari che venivano dall’America come una volta le spezie provenivano dall’Oriente. (cit. in Becciu 123)

Il tema della razza

L’interazione tra fumetti americani e materiale italiano rivela una dinamica complessa, che presenta elementi di fascinazione e di rifiuto da parte dell’Italia fascista per la forma e i contenuti delle storie d’ol- tremare. Alcuni elementi della retorica fascista sembrano contribuire al successo dei fumetti americani, alimentando la seduzione che questi esercitavano sugli adolescenti italiani. In un articolo dal titolo “Tavole a quadretti”, apparso all’interno della rubrica “Parliamo un poco di noi” su Paperino del 18 agosto 1938, Antonio Rubino afferma: “Ve- ramente caratteristica dell’epoca moderna è questa forma di presen- tare le storie, le avventure, i romanzi, forma più che mai intonata al concetto di immediatezza, di velocità, di sintesi che impronta oggi il mondo in cui viviamo” (24). Al tempo stesso, i fumetti stranieri e soprattutto americani fanno presa sui lettori italiani in quanto con- sentono di evadere seppure parzialmente dalla propaganda di regime, aprendo uno spiraglio su una realtà e un sistema di valori molto di- versi da quello fascista. Scrive Umberto Eco in La misteriosa fiamma

della regina Loana: “[a]lcuni misteri della mia schizofrenia infantile

iniziavano a chiarirsi. Leggevo i libri scolastici e i fumetti, ed era sui fumetti che probabilmente mi costruivo faticosamente una coscienza civile” (240), e poi ancora: “[è] chiaro che su questi albi sgrammati- cati incontravo eroi diversi da quelli che mi erano stati proposti dalla cultura ufficiale, e forse su quelle vignette dai colori volgari (ma così ipnotici) ero stato iniziato a una diversa visione del Bene e del Male”

(ivi 238). Per comprendere quanto fosse vario il materiale al quale venivano esposti i giovani lettori italiani attraverso i fumetti, basti pensare che molti degli eroi comparsi sulle strisce ‘autarchiche’, nati in risposta, prima ancora che alla censura del regime, all’insufficienza del materiale d’importazione per far fronte alle richieste del mercato italiano, ricordavano nei lineamenti i personaggi americani2 (fig. 1).

I criteri di selezione dei fumetti da tradurre erano a loro volta influenzati dalla retorica fascista e dai miti che essa elaborava a soste- gno delle diverse esigenze politiche del regime. Ad esempio, mentre i fumet- ti americani erano spesso popolati da eroi adulti, le storie importate in Italia erano quelle che vedevano come protagonisti giovani o adolescenti. Un caso signi- ficativo è rappresentato da

Cino e Franco. Traduzione

italiana di Tim Tyler’s Luck, e prima storia a fumetti a essere pubblicata su To-

polino nel 1933, esce poi dal 1935 come albo indipendente. Le av-

venture africane compiute dalla coppia di giovani esploratori ebbero, nell’Italia di quegli anni, un enorme successo e ispirarono diverse imi- tazioni.3 Oltre a prestarsi a interpretazioni di tipo coloniale, in linea

con l’immenso sforzo propagandistico a favore della guerra d’Etiopia messo in atto dal regime, Cino e Franco poteva essere iscritto all’inter- no del mito fascista della ‘giovinezza’. L’ideologia del regime, diffusa dai mezzi di propaganda, esaltava in particolare l’eroismo infantile e utilizzava spesso i temi e i canali comunicativi dell’infanzia per fare leva sulla sensibilità popolare. Nel periodo dell’‘impresa’ coloniale in

2 Becciu descrive Dick Fulmine, il poliziotto italoamericano ideato da Vincenzo Baggioli nel 1938 e disegnato da Carlo Cossio, come “la versione casalinga di Gordon e dell’Uomo Mascherato” (111).

3 Si vedano: “Gino e Gianni” di Rino Albertelli, storia a fumetti pubblicata su Topolino nel 1937, e “Gino e Piero” di Franco Caprioli, comparsa lo stesso anno su L’Avventuroso. Fig.1. Dick Fulmine.

Africa, il tema dell’infanzia e quello della razza si intrecciano nella propaganda fascista, creando una fitta rete di simbologie e risonanze emotive. Esemplari a questo proposito le cartoline di Enrico De Seta e Aurelio Bertiglia, dal contenuto apertamente razzista e imperialista (figg. 2 e 3).

Nella prima cartolina, si può notare come il tratto del disegno sia sommario, e ricordi quello di una vignetta umoristica. Nella seconda, un bambino italiano, vestito da bersagliere, biondo e con gli occhi chiari, è mostrato nell’atto di sottomettere alcuni coetanei dalla pelle scura. L’immagine stabilisce quindi una corrispondenza tra soldati e bambini che non era estranea alla propa- ganda del regime; al tempo stesso, gli africani sono rappre- sentati come ‘sotto- sviluppati’ e in cer- ca di una figura di riferimento. Infine, la guerra d’Africa è rappresentata come ‘un gioco da ragaz- zi’, e l’avventura coloniale come una possibilità alla por- tata di tutti gli ita- liani, anche i meno forti o valorosi, vista l’assoluta inferiorità del ‘nemico’.

N e l l o s t e s s o contesto america- no, l’ambientazione esotica era un tratto piuttosto comune dei fumetti degli anni Trenta. Benché non fossero il frut- to di una precisa campagna propa-

Fig. 2. Enrico De Seta, cartolina a colori. “Fotografia ricordo dell’Africa Orientale”, 1935-1936.

Fig. 3. Aurelio Bertiglia, cartolina a colori. Serie “La conquista dell’Etiopia”, 1935.

gandistica, come nel caso dell’Italia fascista, le storie del periodo ri- specchiavano ideologie imperialiste basate su principi razzisti. Come sostiene Bradford Wright, il filone iniziato da Tarzan, in cui i protago- nisti, sempre e rigorosamente bianchi, si trovano a combattere per la sopravvivenza in luoghi selvaggi, rifletteva già ideologie imperialiste, seppur mascherate dietro il genere avventuroso. Il razzismo di quei fumetti si esprimeva soprattutto nel contrasto tra il protagonista e le popolazioni autoctone, dove queste ultime erano spesso infantilizzate e descritte da uno sguardo paternalista (Wright 36).

Trasposto nel contesto fascista, il tema della razza interagisce in va- rio modo con l’ideologia del regime. La razza, nei fumetti, così come nella propaganda dell’epoca, si rivela un tema flessibile, capace di adattarsi alle diverse esigenze del regime secondo le priorità propa- gandistiche del momento. Inoltre, è un tema che può essere facilmen- te interpretato in chiave esotica e avventurosa, rispondendo ai gusti dei lettori, ma anche adeguandosi a una tendenza generale della let- teratura del periodo. Negli anni Trenta era infatti piuttosto frequente che gli scrittori di romanzi popolari, così come i disegnatori di fumet- ti, ambientassero le loro storie in terre lontane. Ciò consentiva loro maggiore libertà artistica ed espressiva, in quanto potevano fare leva sulla sensazionalità del racconto, senza curarsi della componente rea- listica e senza rischiare di suscitare la censura del regime.4

Soprattutto negli anni della Guerra d’Etiopia, il mercato dei fu- metti fu invaso da storie ambientate in Africa, di provenienza sia ita- liana sia straniera. Per quanto riguarda la seconda categoria, si può ipotizzare che, in un periodo nel quale l’avversione del regime per prodotti culturali importati dagli Stati Uniti si fa più forte, i fumetti razzisti fossero più accettabili. Un esempio significativo è costituito da un episodio dell’Uomo Mascherato apparso sul numero dell’Av-

venturoso del 13 marzo 1938. Se confrontato con i numeri degli anni

precedenti, il giornalino mostra chiaramente come le disposizioni del regime avessero portato all’eliminazione degli eroi americani, a favo- re di storie italiane e fasciste. Tuttavia, un’eccezione è costituita dal quinto episodio della storia intitolata “Il Piccolo Toma”, in cui l’Uo- mo Mascherato si reca in un villaggio africano che apprendiamo egli è solito visitare ogni anno. Due africani, mostrati in una delle prime

4 Mussolini aveva esplicitamente impartito l’ordine di non pubblicare cronaca nera, de- finita, nelle parole pronunciate dal capo Ufficio Stampa Aldo Capasso Torre il primo marzo 1927, “materiale quotidianamente sfruttabile dalla stampa internazionale ostile al Regime”. Cit. in Cesari 26.

vignette, commentano tra loro: “L’Uomo Mascherato deciderà e ri- solverà le dispute e i litigi sorti fra noi durante l’anno”, e poi: “Egli è saggio e giusto”. Tale scambio di battute riecheggia uno dei temi dominanti nella propaganda fascista a sostegno della guerra coloniale, giustificata come missione civilizzatrice, quasi un dovere morale nei confronti di popolazioni inferiori.

La figura del supereroe ha anche implicazioni per la costruzione di genere insita nella retorica imperialista del regime. Come nota Giu- lietta Stefani, “[l]a figura di Tarzan è emblematica della possibilità per l’uomo bianco di recuperare e rinvigorire la propria virilità attraverso il contatto con la natura primitiva” (97). La realizzazione della ma- scolinità, già presente nel fumetto americano esotico e avventuroso, si unisce quindi al primitivismo, un aspetto presente fin dalle origini nell’ideologia fascista. Proprio su queste basi, l’eroismo dell’Uomo Mascherato viene fatto proprio dal regime e iscritto nella retorica fa- scista. Considerati gli sforzi notevoli che la casa editrice Nerbini stava affrontando in quegli anni per conformare L’Avventuroso alle diretti- ve del regime, pur mantenendone alcuni tratti caratteristici, possiamo considerare l’episodio sopra menzionato come il risultato di un inten- so lavoro di compromesso. L’evidente ‘americanità’ del fumetto, che di certo non sfuggiva all’ampio numero di appassionati della versione italiana di The Phantom, viene in qualche modo resa accettabile da- gli elementi razzisti e imperialisti della trama. Possiamo arrivare ad ipotizzare che l’incolmabile diversità tra italiani e americani, su cui la retorica di regime costruisce auto-celebrazioni in chiave razzista, si annulli o quantomeno si attenui, quando l’‘uomo bianco’ di qualsiasi nazionalità si trova a confronto con un nativo africano.

È interessante a questo proposito notare come, nella retorica fa- scista, Africa e Stati Uniti costituissero due costruzioni ideologiche posizionate ai poli opposti in relazione alla civiltà italiana. Se infat- ti l’Africa era comunemente raffigurata come barbara e primitiva, il modello americano rappresentava la degenerazione della modernità e dello sviluppo occidentale. Leggiamo negli Annali dell’Africa Italiana del 1939: “È utopistico pensare che gli africani possano essere rapida- mente elevati al livello occidentale e affrancati un giorno dalla tutela europea: si tratta di pupilli che non raggiungeranno mai la maggiore età” (cit. in Del Boca, Conquista 239). Gli africani, che nelle teorie evoluzionistiche del periodo venivano definiti come bambini mai cre- sciuti, trovano un contraltare nella degenerazione della modernità, in- carnata dalla società americana, descritta da Emilio Cecchi come “una

civiltà che, non da ieri, ha come postulato supremo il benessere e la felicità materiale” e che per questo “brancola cercando la propria uni- tà etnica ed etica” (cit. in Vittorini 1047, 1051). La dottrina politica di