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- Sequenza I

Prologo: i personaggi si presentano

L’intera sequenza I è dedicata ad una sorta di autopresentazione dei tre personaggi, che si rivolgono a noi in voce over o, piuttosto, si dovrà dire, come voci acusmatiche, senza corpo: sin dall’inizio dunque si delinea il particolare statuto di quest’opera sul margine della narrazione. La funzione di esordio, chiaramente distinto da quanto segue, è segnalata nella maniera più evidente dal fatto che essa è incastonata all’interno dei titoli di testa – un cartello la precede e due le fanno seguito - ma anche, in maniera più sottile, attraverso le frasi pronunciate dai tre personaggi: ci parlano, tutte, di esperienze conchiuse, di tramonti e di nuovi inizi, di cicli della vita e della creazione artistica, l’una pervasa dell’altra. E questa indistinzione tra arte e vita che il succedersi delle voci crea sulla soglia, ancora, dell’opera rappresenta un nucleo essenziale nella poetica di Batsry: essa si manifesta in quest’opera come confusione tra il film secondo, il film nel film, le cui vicende realizzative costituiscono la trama, e il film primo, quello a cui noi spettatori assistiamo (i due livelli verranno sovrapponendosi, fino a divenire indistinguibili, nella parte finale), ma anche per via della forte affinità che l’opera manifesta col vissuto dell’autrice; certamente predominano l’idea dell’inchiesta, la dimensione del viaggio in cerca di qualcosa, il senso dello sradicamento e della lontananza - temi che contraddistinguono tutta la produzione di Batsry - sull’intenzione di creare un impianto narrativo forte e ben strutturato, coerente.

Si possono distinguere tre sottosequenze. La prima, mentre la voce del cineasta del luogo ci si presenta con una scarna ed enigmatica frase, ci mostra con le due immagini di cui è composta un incontro tra alcune persone: restando sul piano narrativo potremmo riconoscervi una prima raffigurazione dell’arrivo della cineasta straniera con la sua guida alla fabbrica di seta, scena che sarà poi raccontata (in realtà suggerita, più che rappresentata; affidata essenzialmente al dialogo tra le voci) solo con l’inizio della sequenza VII; questo farebbe di tutto ciò che si trova tra questi due punti un flashback, sia pure in un quadro temporale dallo statuto incerto e dagli incerti confini. Se ora consideriamo però l’immagine I.1. (si tratta di una immagine-sequenza) astraendola dalla narrazione, quel che vediamo messo in scena è una difficoltà dello sguardo: persone che si fanno incontro al punto di ripresa, che – lo percepiamo – (ci) osservano, e non se ne vedono i volti; una ripresa camera a mano che nelle incertezze, gli ondeggiamenti che assecondano i movimenti del corpo e nel vagare in cerca di qualcosa si fa subito, e lo sarà per tutta la durata dell’opera, vicaria di uno sguardo, di un posizionamento delle immagini diffusamente in soggettiva. Impressione di una curiosità mista a titubanza, esitazione – questo esordio sembra mettere in scena l’incontro del pubblico con l’opera stessa. Ma un dettaglio merita ancora di essere messo in luce: dopo alcuni secondi vediamo il palmo della mano di chi sta riprendendo, e dunque dell’autrice stessa, scorrere in primissimo piano davanti alla lente della camera, dall’alto verso il basso (Fig. 1); una dissolvenza incrociata interviene quindi a far perdere i contorni della mano in un’altra immagine (di difficile lettura ma, lo si intuisce, di analoga ambientazione) che poi, a sua volta, svanisce subito, in dissolvenza incrociata di nuovo con l’immagine della mano dell’artista che torna a coprire la scena dell’incontro per uscire quindi dal quadro.

Se è vero che questo passaggio di I.1.1. appare in relazione con quanto vediamo in I.1.2. - un giovane che si copre il viso, sorta di rovesciamento speculare più che un cinematografico controcampo -, soprattutto qui, sulla soglia dell’opera, incontriamo una traccia dell’autrice, che si dichiara come tale. Intanto il mostrare con tanta evidenza la propria mano, essa arriva a nascondere quasi del tutto la scena, sembra corrispondere ad una prima allusione a quel motivo del fare che tanta parte avrà nel corpo dell’opera: le immagini di uomini e donne in atto di compiere lavori

manuali, evidente allusione autoriflessiva al fare dell’artista, percorrono il video con un andamento in climax fino alla sequenza VIII, a cui fa seguito una significativa ripresa nell’epilogo.

Lo storico dell’arte rumeno Victor Stoichita, in L’instauration du tableau, indaga la pittura europea lungo quasi tre secoli, dai pittori fiamminghi del Quattrocento in poi, per arrivare a riconoscere proprio nel Seicento, in una fase di nuova, più articolata presa di coscienza e riflessione meta- artistica, il momento generativo dell’arte e dell’artista moderni. A proposito di un autoritratto di Parmigianino (Fig. 3),75 in cui il pittore riproduce la propria immagine vista in uno specchio convesso e raffigura in primo piano la propria mano, ingrandita dal gioco prospettico e quasi sporgente fuori dal quadro stesso, Stoichita scrive: “La mano di Parmigianino, deformata dallo specchio convesso di cui ‘tocca’ la superficie, rappresenta l’iperbole di un topos: ecco una maniera di chiosare sul tema della docta manus o della manus ingeniosa […] e quindi una maniera per mettere in evidenza, nell’autoritratto grazie a un’iperbole, lo strumento del fare.”76

Ma il gesto dell’artista che, facendo scivolare la mano davanti alla camera, oscura per un momento l’immagine, soprattutto mi pare corrispondere, per breve negazione, alla frase: “Ecco, io vi mostro.” Questa mano è come una cortina che si solleva, il sipario che aprendosi mostra la scena. Ancora possiamo trarre spunto dallo studio di Stoichita, soffermandoci sulla sua analisi del celebre Las meninas di Velázquez (Fig. 4). Il dipinto viene letto nel suo insieme come una grande macchina per la rappresentazione dell’artista al lavoro, una “pittura sulla pittura” e, più in particolare, risulterà interessante la lettura che viene data dell’uomo che, nel dipinto, vediamo affacciarsi dal fondo della sala:

“Las Meninas è un quadro ‘aperto’ non solo perché ‘interpretabile all’infinito’ […]. Il vano di questa porta ospita uno spettatore, che già da tempo è stato identificato in José Nieto y Velázqez, ciambellano della regina. […]

Egli è anche – ed è questa forse la funzione più importante – manovratore della tenda (sumiller de cortina era definita la sua carica), come a dire manipolatore della ‘rappresentazione’. Come la tenda rossa nel ritratto dei sovrani, visibile per riflesso nello specchio, era un segno dell’‘apparizione regale’, allo stesso modo anche quello di Nieto è un segno epifanico. Egli ci annuncia l’apparizione dei sovrani […] oppure, forse, l’apparizione tout court: lo ‘svelamento’, a rovescio, di uno scenario in cui la rappresentazione ‘si fa’.77 Stoichita prosegue la sua analisi osservando come la presenza di questo personaggio che fa da perno spaziale della scena fosse codificata dai manuali di prospettiva dell’epoca ma individuando anche un punto di evidente scarto dalla tradizione. Velázquez non fa convergere le linee verso l’occhio, ma sulla mano in atto di sollevare la tenda:

Più che un ‘occhio curioso’, quindi, José Nieto y Velázquez (la coincidenza del secondo cognome con quello dell’artista è stata messa in risalto numerosissime volte), il sumiller de cortina, è una ‘mano attiva’. Lo si può considerare un alter ego dello spettatore, ma anche un alter ego dell’autore. Trattenendosi sul vano della porta egli ripete, in un certo senso, la posizione di Velázquez davanti al grande rettangolo della sua tela. È un ‘altro’ Velázquez, anch’egli maestro di rappresentazione, ma di una rappresentazione che […] non è ‘immagine dipinta’ bensì apparizione.78

Tornando al video di Batsry, se guardiamo all’immagine I.1.2., il giovane che si porta le mani sul viso, vi possiamo riconoscere una sorta di sdoppiamento di ciò che prima abbiamo visto in soggettiva, una rifrazione speculare della figura dell’autrice; in questo dittico che sembra racchiudere una scissione della autoraffigurazione dell’artista nell’opera in un “io” e un “tu” che

75

Parmigianino, Autoritratto in uno specchio, 1524, olio su legno, Vienna, Kunsthistorisches Museum. 76

Victor Stoichita, L’instauration du tableau, Paris, Méridiens Klincksieck, 1993 [trad. it. L’invenzione del quadro, Benedetta Sforza (a cura di), Milano, il Saggiatore, 1998]. Da qui in poi si cita l’edizione del 2004 (III ed., collana “La Cultura”), p. 219.

77

Ibidem, pp. 252-3. 78

ricorda quella riconosciuta da Soichita nel dipinto di Velázquez (l’artista vi raffigurava non soltanto se stesso, in atto di guardarci, ma anche l’altro sé, sul fondo della scena) vi riconosciamo dunque tematizzata la questione dello sguardo.

La sottosequenza I.2., in cui ad essere presentata è la figura della guida, si apre con una serie di immagini sfuocate (I.2.1.-I.2.3.); si tratta di una clausola formale che ricorrerà più volte nel video. La condizione di questo personaggio – una guida quasi cieca – costituisce un ossimoro denso di valenze metadiscorsive e trova evidenti corrispondenze con la poetica che si manifesta in molte delle opere precedenti di questa autrice: è una costante in Batsry, infatti, la riflessione sulla visione, e anche altrove questo motivo è messo in scena e tematizzato attraverso un personaggio caratterizzato da un deficit visivo; immagini non realistiche sono così fatte passare, in soggettiva, per lo sguardo di un “personaggio”, di una figura vicaria di un motivo profondo ed essenziale. Ma un dato ulteriore si impone: queste immagini ci mostrano un piccolo gruppo di adulti e bambini in atto di camminare su una strada sterrata; ne vediamo solo le ombre, e in mezzo ad esse, al centro (a livello di senso, oltre che all’interno del quadro) si staglia la figura dell’autrice che avanza tenendo con la mano destra la camera (Fig. 2). Di nuovo, come in I.1., vediamo l’autrice includere il proprio corpo nell’immagine, a istituire una relazione dialettica col titolo stesso dell’opera, anch’esso (sia pure contestualizzabile nella traccia narrativa) chiaramente autoriflessivo, che poco dopo ci verrà presentato: esso stabilisce subito la questione del fare immagini come centrale, oltre la diegesi, e stabilisce un “io” attore dello sguardo.

Nelle immagini successive (I.2.5.-I.2.6.) al fuori fuoco si sostituisce il controluce come fattore di alterazione, di parziale illeggibilità dell’immagine.

L’ultima sottosequenza si apre con due lunghe immagini (I.3.1.-I.3.2.) in cui dei paesaggi, ripresi in veloci carrellate laterali - da un treno o, più probabilmente, da un’automobile -, appaiono ridotti quasi a delle forme astratte; accompagnate da un tappeto sonoro denso e molto presente queste immagini immergono lo spettatore in uno stato di eccesso percettivo a cui subentrano, con un effetto di inattesa requie, il bianco e nero e il silenzio (iniziale) di I.3.3., in cui si vedono le mani di un uomo che taglia frammenti di pellicola, lavorando al montaggio di un film. Questa immagine, fra l’altro, costituisce la prima occorrenza di una serie che punteggia tutto il video. La componente metadiscorsiva anche qui è molto forte: nel caso di I.3.3., il mostrare la lavorazione materiale di una pellicola, per quanto sia contestualizzabile nella diegesi (riferendolo alla fabbrica di seta, in cui, ci viene detto, si lavorano ora le immagini), allude non solo al film che la protagonista sta realizzando ma anche all’atto creativo della stessa Batsry; e d’altra parte le stesse immagini dei paesaggi, per le loro caratteristiche, potranno forse rivelare, a loro volta un’affinità, con l’idea del lavorare le immagini: il rapidissimo scorrere si pone in rapporto con l’immagine cinematografica mentre il vibrante puntinismo e lo sfaldarsi delle forme sembrano raccontare - per immagini – la natura dell’immagine elettronica.

Ora, è vero che in questa sottosequenza I.3. non c’è più il corpo dell’artista a mostrarsi, a dichiararsi come matrice di ciò a cui assistiamo, ma sull’immagine così fortemente allusiva delle mani che lavorano la pellicola è la voce dell’artista a manifestarsi per la prima volta, impersonando la protagonista del film.

Si può dunque dire che le tre figure, mentre si presentano al pubblico, si dichiarano anche come delle ipostasi dell’autrice; il grado di autonomia o, al contrario, di identificazione con essa sembra variare di continuo e pure è importante riconoscere come questo rapporto di imperfetta sovrapposizione sia da subito stabilito: anche le parole fatte pronunciare agli altri due personaggi oltre a quelle della cineasta straniera, per la quale si è subito portati a stabilire un rapporto di identità con l’autrice, paiono a momenti dialogare con la riflessione dell’artista, farsene voce dentro l’opera, nelle sue pieghe.

Come già ricordato, questa sequenza I in cui l’autrice raffigura se stessa è isolata e incorniciata dai titoli di testa: nel cartello che la precede l’artista appone il proprio nome in quanto produttrice dell’opera mentre alla fine torna a nominarsi quale realizzatrice. Se pensiamo a come Irit Batsry abbia sempre dovuto lottare con tenacia per poter realizzare le sue opere, cercando in giro per il

mondo fondi e soggiorni in residenza presso istituti, musei e centri di produzione, questo prologo di These are not my images potrà forse apparire anche come una orgogliosa rivendicazione di autonomia e libertà creativa. Questo ci riconduce idealmente alla pratica di alcuni pittori del Cinque e Seicento di raffigurare la loro stessa immagine all’interno di dipinti che erano stati loro commissionati; la loro effigie costituiva un equivalente della firma e l’una e l’altra erano rivendicazione di autonomia.

A proposito di questa sequenza introduttiva rimangono da fare alcune osservazioni di carattere formale. Non ci sono immagini complesse, fatta eccezione per I.1.1., una immagine-sequenza comunque molto semplice, realizzata inserendo, con due dissolvenze incrociate, un breve frammento di un’altra inquadratura a separare le due apparizioni della mano che scorre davanti all’obiettivo; inoltre le immagini meno realistiche lo sono per via di alterazioni in macchina (o effetti in ripresa): fuori fuoco, ripresa in controluce, camera car laterale, mentre l’uso di filtri in montaggio appare molto limitato, se non del tutto assente: potrebbe forse riguardare le immagini I.3.1. e I.3.2. (ad accentuare l’effetto di astrazione dei paesaggi ripresi in veloci camera car laterali). Se la sequenza è isolata dal nero e dai titoli di testa, d’altra parte essa appare comunque coerente con tutta la prima parte del video, e quindi legata ad essa, sul piano formale se pensiamo al prevalere di colori caldi e molto saturi e, soprattutto, all’uso esclusivo di dissolvenze incrociate. Guardando invece all’impianto complessivo dell’opera, si manifesta un rapporto di corrispondenza e specularità tra la sequenza I e la X, quella conclusiva: nettamente separate l’una e l’altra dal corpo dell’opera, esse sono anche – su questo dovremo ritornare - raffigurazioni dell’autrice nell’opera. Nel complesso si tratta dunque di una sequenza che si caratterizza per un certo grado di antinaturalismo della rappresentazione, di “visionarietà percettiva”, e per un senso di sospesa e fluida attesa. Si può riconoscere però, allo stesso tempo, anche la presenza di una sorta di climax, con le tre sezioni dalla durata crescente (56'', 1'18'', 1'47'') e un intensificarsi di ritmo che si frange sulla distesa quiete dell’immagine in bianco e nero delle mani che lavorano la pellicola: dopo la durata relativamente lunga dell’immagine I.1.1., nel blocco I.2. è un montaggio più serrato a dare forma al crescendo mentre la parte di I.3. che precede l’immagine in bianco e nero si compone del caos visivo e acustico di due lunghe immagini in velocissima carrellata laterale.

Un’ultima osservazione su questo blocco ci riconduce al punto dal quale eravamo partiti: il gesto che il montatore in I.3.3. compie, in un gioco di echi con le parole della cineasta straniera, è quello di tagliare un lembo di pellicola; sul serrarsi della forbice l’immagine va al nero, un nero che racchiude il senso dell’essere sul margine, del vuoto pneumatico in cui si schiude, e cresce, l’atto creativo.

Sequenza II

Il viaggio in treno: una nuova occasione

Se le voci dei tre personaggi presentatisi nella sequenza I sembrano, a livello narrativo, collocarsi in un presente che è quello del montaggio del film della cineasta straniera nella fabbrica di seta, con cui il racconto si ricongiungerà solo all’inizio della sequenza VII, le immagini ci raccontano invece una storia dallo sviluppo temporale più ampio, anteriore ad esso, quella del viaggio di una cineasta attraverso un paese a lei straniero e della realizzazione di un film su questo paese; e le due cose, il film e il viaggio, verranno avvicinandosi fino a coincidere. Così, il punto d’inizio ideale sembra essere rappresentato dalla piccola stazione ferroviaria che appare all’inizio della sequenza II, forse il primo contatto della protagonista con il paese straniero; essa è preceduta solo da un’altra immagine in bianco e nero, posta tra due cartelli, appartenente alla serie del lavoro sulla pellicola: la ripresa, camera a mano, è ferma - ha solo lievi oscillazioni – e rallentata, la scena è pervasa da un senso di stasi; la stazione assolata e vuota, compare un uomo che si allontana costeggiando il binario e, ormai distante, lo attraversa con un salto a cui si accompagna il rumore di un battito d’ali: sta uscendo dal quadro e l’immagine va, intanto, lentamente al nero. Dal nero riemergerà un’immagine ancora della stazione, vista ora in soggettiva dal finestrino di un treno che sta ripartendo (II.1.4.).

Sullo sfondo di un frastuono sordo e continuo si staglia il battito metallico e cadenzato del treno, rallentato, come rallentato e quasi galleggiante ci appare lo scivolare, fuori, del paesaggio; e al quadro nel quadro che la sagoma nera del finestrino viene a formare potremo riconoscere una chiara valenza autoriflessiva. Poi, quando la stazione sta per uscire dal quadro e la camera indietreggia per volgersi verso il finestrino a fianco e continuare a riprenderla, ormai in lontananza, cominciano ad aggiungersi suoni, voci, frammenti di una canzonetta allegra, come una premonizione. Da qui il viaggio prende avvio: l’immagine complessa II.1.5. è una fitta trama di volti di passeggeri e dettagli dei vagoni (bulloni, ganci, scritte) che si colma delle grida, del ritmo ora ossessivo delle ruote, di sirene; e poi il resto della sequenza si svilupperà intorno alle immagini del viaggio – ancora la piccola stazione, un treno che la attraversa in corsa, una pianura spoglia osservata dal finestrino – mentre le parole dei due cineasti vengono ad informarci sugli antefatti. Ma alcune, tra queste immagini, si distaccano dall’evocazione del viaggio per andare a collocarsi in un tempo che sembra a tutta prima lasciarsi identificare con il presente da cui le voci ci giungono, quello del montaggio del film nel film, e pure, alla stessa maniera, ci conduce in un fuori dal tempo (diegetico) che è quello del metadiscorso.

Quasi un minuto di sovraccarico percettivo, la folla di suoni e di schegge d’immagini addensate le une sulle altre in II.1.5., ci conduce infatti alla tregua del blocco di immagini II.1.6.-II.1.9., che si schiude come uno spazio interiore: si tratta di un breve frammento di ripresa che ritrae due bambini (Fig, 5). Non ci è dato sapere cosa stiano facendo; ne sentiamo però le voci: brevi esclamazioni, risa, un canto appena accennato. A questa immagine viene attribuita una portata evocativa, forse anche simbolica, del tutto speciale: è con essa che, dopo il prologo rappresentato dalla sequenza I, il video si apre veramente ed è da essa, dalla sua visione, che - nella diegesi - sorgono le parole della cineasta “Queste non sono le mie immagini...” – in un certo senso vi è racchiuso, metonimicamente, l’intero film -; ad essa si tornerà al termine della sequenza IX (Fig. 6), prima di una chiusa (seq. X) che risulta esterna al corpo dell’opera tanto quanto lo è l’esordio (seq. I). Dalla prolungata immersione nel brulicante trascorrere di un viaggio in treno di II.1.5. dunque si scivola piano nella contemplazione di un gioco di bambini (blocco II.1.6.-II.1.9.), dalla frenesia alla lentezza, dalle sensazioni vive alle stanze della mente. E quella immagine fatta di schegge di volti e voci con queste dei due bambini misteriosamente intenti nel loro operare sono le prime manifestazioni