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La parola agli artisti: il video come cinema di poesia

III. 3 7 visions fugitives (1995): la terra di mezzo nello stile di Robert Cahen

VI.2. La parola agli artisti: il video come cinema di poesia

La vaghezza di senso, le ombre, i vuoti sono spazi che saranno colmati dai pensieri, le parole, i ricordi di ognuno di noi. Una osservazione di Robert Cahen riguardante proprio una delle opere trattate qui, 7 visions fugitives ci dà la misura di quanto nell’artista stesso sia consapevole l’uso di questi meccanismi di comunicazione con il pubblico delle sue opere:

[…] io procedo, come un autore fa sempre, da qualcosa della sua storia e che lui cerca di sublimare, di far uscire dalla propria storia personale per renderla la più universale possibile. Anche quando sono andato in Cina mi è venuto in mente che non sarei riuscito a fare un vero film sulla Cina perché non avevo i mezzi, non avevo la produzione, ma che sarei stato certamente toccato da certe immagini della Cina, dei paesi e della gente [...] e che avrei voluto riportarne le immagini più forti. Di qui l’idea della “visione fuggitiva”: [...] una cosa difficile, certo, ma che metteva in opera il mio sguardo.142

Non sarà forse inutile ricordare anche come, sin dalle origini dell’arte video, l’uso del mezzo abbia conosciuto non solo la forma dei lavori monocanale, ma anche quella delle videoinstallazioni: l’interattività, che è strutturale ma non apparente nei video, qui si palesa, si esteriorizza – arrivando poi a divenire tangibile, letteralmente, ed esteriorizzata in quelle opere in cui l’uso del video è associato all’interattività tecnologica, fatta di computer, interfacce e sensori -, essendo l’opera collocata in uno spazio e il fruitore chiamato a porsi in una relazione dinamica e personale con essa. Sbocchi simili, non a caso, sono stati del tutto estranei alla storia del cinema narrativo, mentre sono stati patrimonio di tutto quel filone di cinema sperimentale e non narrativo che dalle avanguardie storiche, passando per il cinema underground americano degli anni Sessanta, arriva a sovrapporsi e in parte a fondersi con la storia del video negli anni Settanta. Gli stessi autori qui presi in considerazione, Robert Cahen e Irit Batsry, hanno spesso affiancato la realizzazione di videoinstallazioni a quella di opere video: più in particolare, andrà segnalato come sia Robert Cahen per 7 visions fugitives che Irit Batsry per These are not my images abbiano realizzato, sulla base del video, anche una videoinstallazione.

La prima forma di indeterminatezza e di apertura del senso, nel caso di queste opere video viene dal fatto che qui non abbiamo a che fare con la parola, con significati condivisi; sono composte di immagini, essenzialmente, e suoni (non necessariamente parole). Torniamo, a questo proposito, su una illuminante osservazione di Batsry (già ricordata, in parte, nel corso del capitolo III) che ci pone di fronte, una volta di più, all’acuta consapevolezza che questa artista ha del proprio lavoro:

[…] penso che una delle cose più forti che si possono fare con il linguaggio video sia l’evocazione. E quindi, anche se è vero che io nei miei video metto sempre molte cose – sono sempre video molto densi, molto intensi -, quello che cerco di fare è scatenare qualcosa nello spettatore; ed è per questo anche che in tutti i miei lavori c’è un certo livello di ambiguità. Anche perché con le immagini si può avere più ambiguità che con le parole. E questo problema dell’ambiguità torna spesso nel mio rapporto con il suono e con Stuart Jones, che cura la parte sonora, perché magari spesso, discutendo dei suoni che lui ha messo su certe immagini, io dico che il suono che ha messo tira l’immagine verso un certo significato, mentre invece l’immagine aveva cinque o sei livelli di senso. E lui a questo punto mi fa notare che mentre l’immagine può essere in effetti polisemantica, con il suono invece è molto più difficile dare questa ambiguità, perché il suono è sempre riconoscibile; comunque si riferisce a qualcosa di meno ambiguo.143

142

Robert Cahen, in Emanuele De Vincenti, Giorgio De Vincenti, “Intervista a Robert Cahen”, Cinemasessanta, anno XXXVII, n.1, gennaio-febbraio 1996.

143

L’indeterminatezza che caratterizza un’immagine, rispetto alla parola (e al suono, secondo Batsry), la vediamo dunque apparire agli occhi dell’artista di origine israeliana non come un limite ma, al contrario, come una fondamentale risorsa. E le elaborazioni dell’immagine, che producono una ulteriore ambiguità percettiva, ci appariranno allora esse stesse quasi come una metafora di un modo di leggere la realtà. È forse qui, in fondo, che possiamo provare a riconoscere la distanza che separa in maniera radicale il linguaggio videografico (usando le parole di Dubois) da quello cinematografico, nella differenza tra immagini che vivono della logica metonimica della contiguità e della parte per il tutto (in cui, per mezzo dei raccordi, viene suggerito un mondo) e immagini che, passando per processi di manipolazione e stratificazione (con un montaggio che non è più tra le immagini ma dentro le immagini) divengono delle intuizioni, stanno per qualcos’altro. E ci parlano per brevi accensioni, facendo intuire delle vastità, chiamandoci in causa, col nostro vissuto e un bagaglio personale di esperienze, a dar loro senso.

È la natura essenzialmente poetica del linguaggio audiovisivo di Batsry che qui si dichiara; quella stessa che troviamo spesso intuita nelle riflessioni degli studiosi che si sono avvicinati al suo lavoro. È il caso di Marc Mercier, che osserva: “Mentre il cinema e la televisione si impantanano nella ricerca di una resa visiva migliore, un’alta definizione che mostri sempre meglio, sempre di più, tanto che, a forza di vedere tutto e così bene, non vediamo più niente che ci riguardi […], Irit Batsry «opacizza».”144 Ed ecco il senso di questo mostrare per difetto:

Il video di Irit Batsry è preso nel gioco del nascondere-mostrare. Lei dissimula, lei svela. Lei mantiene segreto e rende pubblico a chi sa prendersi il tempo del vedere per difetto.

L’immagine della vera sofferenza è impossibile. L’immagine vera […] non è fatta per essere vista. Guardarla significa diventare folli. È nella sua veste elettronica, sottoposta a interferenze, che essa può essere contemplata e può svelare una realtà temibile, preziosa e precaria.145

Ma, così come Mercier, anche altri. Laurence Kardish, ad esempio: “L’arte di Batsry è definita dal processo […]: è un lavoro in cerca della trascendenza, di un “Altro” che è, al tempo stesso, al di là dell’articolazione e profondamente significante. Inoltre il linguaggio stesso sarà assorbito alla fine della ricerca: Batsry se ne serve per raggiungere una esperienza universale e virtualmente incoativa.”146 La chiamata in causa del fruitore che abbiamo visto riconosciuta come meccanismo si significazione caratterizzante il linguaggio poetico. E quindi ancora Friedemann Malsch:

I nastri sono composti in tal modo che è innanzitutto la loro “atmosfera” ad attirare l’attenzione, le sfumature emotive che esse suggeriscono e per il tramite delle quali gli enunciati del nastro e il loro contenuto attingono il loro alto grado di universalità.

I nastri tuttavia non nascono a partire da uno script preparato prima, ma dagli interventi intuitivi dell’artista mentre lavora con la camera, con la centralina di montaggio, con la titolatrice, ecc. Alla fine del percorso, come sempre per l’arte di valore, la poesia è là, la fascinazione dell’indicibile che traspare dietro ciò che è stato reso visibile e udibile.147

Ecco, quel che si è cercato di fare qui è stato proprio di dare sostanza, attraverso una analisi puntuale, all’intuizione della natura poetica di queste opere. Se proviamo a volgere lo sguardo verso l’arte di Cahen, ugualmente potremo proporre una breve ma significativa raccolta di “testimonianze critiche”. Così Susan Elizabeth Ryan, per cominciare: “Egli considera la percezione come una pratica individuale, non universale. Cahen elabora il suio “occhio”, lo sguardo della sua camera, insieme con il materiale che registra. Il risultato è non-narrativo, non-direzionale e indeterminato. Esso apre lo spazio dell’esperienza.”148 Indeterminazione ed apertura di senso, processualità e non

144

Marc Mercier, “Un video anatomique”, in AA.VV., Traces d’un passage, cit. p.25. 145

Ibidem, p.31. 146

Laurence Kardish, “La vieille ruine et la nouvelle frontiere”, in AA.VV., Traces d’un passage, cit. p.43. 147

Friedemann Malsch, “La poesie de l’incompatible”, in AA.VV., Traces d’un passage, cit. pp.81-3. 148

finitezza, partecipazione empatica, viscerale, di quello che a stento si può definire, in termini tradizionali, lo “spettatore”; una pratica del guardare – e far guardare – altrimenti, ed oltre, che emerge nitida negli apporti di Sandra Lischi, che a Robert Cahen ha dedicato una importante monografia, e di Marco Maria Gazzano. Seguiamo, intanto, le riflessioni della prima:

Come molti autori video, Cahen lavora essenzialmente sulla percezione: sperimenta e offre, cioè, nuovi modi di guardare, avvalendosi in particolare delle potenzialità dello strumento elettronico. Ma questa ricerca non è, come in molti videoartisti, tutta sbilanciata sul versante della macchina e della tecnica; né cristallizzata in esperimenti «da laboratorio» […]. L’attenzione che Cahen porta su un gesto, un colore, un movimento (sottolineature ottenute con effetti di rallentamento, alterazioni del tempo «naturale», ricoloriture, ecc.) è anche esortazione a guardare il mondo con occhi nuovi: a cogliere l’intima poesia di certi luoghi, la comicità di un gesto, l’ironia involontaria di un’iconografia stereotipata, la tenera allegria che le cose talvolta sanno avere o una loro imprevista, dolente gravità.149

E veniamo, quindi, a Gazzano. In questo passo, tra l’altro, troviamo ben tratteggiato quel percorso dello stile di Cahen verso un prosciugamento formale, verso l’essenzialità e il rigore, che siamo venuti ricostruendo (a ritroso, nella produzione dell’artista francese) nel capitolo III; un prosciugamento che richiede al fruitore una fatica maggiore. In questa ascesi delle forme e dello sguardo abbiamo potuto riconoscere, in absentia, la funzione comunicativa che l’elaborazione formale svolge in queste opere:

“Video integrale” quello di Cahen, come “cinema integrale” era la cinematografia desiderata dalle avanguardie storiche. Un “video” capace di visionarietà; e capace di far alchemicamente precipitare elementi-chiave di eredità linguistiche e narrative a esso precedenti, estendendoli nel loro “dire” per mezzo dell’elettronica e trasformandoli in elementi forti di sintesi intermediali e interlinguistiche di volta in volta inedite, e produttive in quanto a significati.

Una ricerca dell’ “invisibile”, del di là da sé, che dichiara una esplicita insoddisfazione per la realtà prima, per ciò che appare a prima vista. Una costante nell’opera di Cahen […]. Un’opera che nel suo complesso è stata ed è nient’altro che la ricerca - mai in pace con se stessa - di uno sguardo da gettare oltre il livello dell’apparenza; un viaggio - soggettivo, interiore, e tuttavia modernamente condivisibile con i propri interlocutori - alla scoperta dell’entr’aperçu, di ciò che si intravede (e a volte non si vede affatto) tra le pieghe dei paesaggi, sui volti delle persone, nel tempo e nelle sensazioni fissate con i viaggi, gli spostamenti, gli attraversamenti […].

Opere che con chiarezza non solo ci “dicono” - enunciano filosoficamente qualcosa di significativo - ma ci aiutano a “vedere” che “altro” esiste dietro i segni del mondo visibile: e ribadiscono che compito dell’arte - e di quella intrermediale in particolare - non è tanto (ma a volte anche) di “abbellire”, quanto di contribuire a dissigillare quei segni.

Nel corso del tempo Robert Cahen ha sempre più asciugato il suo linguaggio e precisato la sua poetica, ma non ha evitato – né evita a chi si avvicina alle sue opere – la sofferenza insita nell’atto stesso del conoscere.150

Ma soprattutto, a proposito di Cahen, vorrei soffermarmi su un importante contributo di un altro artista video, altrove citato in queste pagine, Gianni Toti. Durante un incontro pubblico, a Pisa, nel 1996, Toti interviene per parlare dell’arte dell’amico Cahen, offrendo riflessioni che rivelano una grande attinenza con le questioni che veniamo incontrando e che aprono scenari teorici più ampi, facendoci volgere lo sguardo oltre i confini dell’arte video, in una prospettiva generale sulle arti contemporanee, simile a quella di Umberto Eco nelle sue riflessioni sull’opera aperta :

[…] in tutti i video di Robert c’è qualcosa che veramente pone il problema di quello che per esempio in letteratura si chiama l’intraverbale e qui invece è l’intraimmaginale: cioè, tra immagine e immagine c’è uno

149

Sandra Lischi, Il respiro del tempo. Cinema e video di Robert Cahen, cit., p. 14. 150

Marco Maria Gazzano, “Robert Cahen e la materia”, in in AAVV, catalogo della mostra «Robert Cahen s’installe», Sélestat, 23 novembre 1997-26 aprile 1998, s.i.l., FRAC Alsace/Agence culturelle d’Alsace, s.i.d..

spazio di tempo, di tempo soprattutto e d’immagini naturalmente ma d’immagini riferite al tempo, che è lo stesso problema che si ha in tutte le arti. In particolare, nel rapporto tra cinema e video c’è una contrazione degli spazi e un allargamento degli spazi, nello stesso tempo. Che è il problema poi che si è posto il cinema sempre, anche perché il cinema è fatto di intervalli, intervalli tra un’immagine e l’altra, il tempo che c’è tra un’immagine e l’altra, che non è soltanto l’intervallo che serve a connettere una storia oppure a connettere un poema, una poesia visuale, eccetera ma è proprio il tempo nel quale il destinatario agisce. Il destinatario, cioè il pubblico, agisce nell’intervallo che c’è tra immagine e immagine e nell’intervallo voluto tra le immagini, non solo quello tecnico che è quello costitutivo del cinema. E questo è molto importante perché Robert ha sempre fatto dei video in cui l’elemento del rallentamento e dello spazio nell’intervallo non è mai stato per me così evidente come oggi nel rivedere le prime sperimentazioni, che poi ha portato avanti anche dopo, basta pensare alle Cartes postales, che tutti voi avranno visto, in cui c’è questa contrazione di piccoli movimenti che sembrano soltanto piccoli movimenti, piccoli spostamenti, ma sono in realtà delle offerte di racconto da realizzare da parte del destinatario, da parte del pubblico, e tutto ciò riporta noi, in questa sala: “Ondavideo”, in questa particolare edizione; ci spinge a riflettere sull’arte del cavare piuttosto che del mettere. Antonio Baldini, un grande scrittore, diceva che l’arte, tutta l’arte è l’arte del togliere, del sottrarre, non del mettere. Però l’industria del cinema non ha fatto altro invece che mettere, mettere, mettere, per eliminare lo spazio di lavoro del pubblico, perché invece tutto deve essere chiarito, tutto deve essere raccontato ed è per questo che il mezzo cinematografico è diventato, adesso anche la televisione, è diventato un mezzo estremamente caldo. Mentre invece il lavoro dell’arte è un lavoro di raffreddamento per dare al pubblico l’opportunità di inserire la sua narrazione, cioè i film e le opere in generale molto narrate in tutti i dettagli sono, come dire, antiartistiche, sono contro il pubblico mentre invece il lavoro che viene fatto dagli artisti, in tutti i campi, è proprio quello di cavare, di sottrarre e non di completare, di riscaldare il mezzo, in modo che non ci sia più niente da introdurre, da pensare, eccetera. E questo credo che sia un inizio, un re- inizio di riflessione riferita ai rapporti tra cinema e video, perché dall’epoca delle prime riflessioni, Dziga Vertov in primo luogo, la coscienza dell’intervallo, siamo oggi al lavoro intraverbale o intraimmaginale. […] Robert, quando dice che lui non fa un lavoro teorico, dice una cosa che è vera e falsa nello stesso tempo, perché qualsiasi opera artistica è il massimo della teoria, la teoria sta nelle opere d’arte e non nelle opere di riflessione critica e teorica. E’ implicito nel lavoro di Robert, come in tutte le opere che dilatano il tempo di collaborazione del pubblico, questa presa di coscienza del tempo nel quale, tra autore e pubblico, si lavora; e questo è un dato che mi pare estremamente importante in questo tipo di riflessione tra di noi sul lavoro di Robert ma sul titolo stesso di questa edizione di “Ondavideo”, che è quella che ci invita a riflettere sui rapporti tra cinema e video in una tensione verso l’unificazione del modello unitario creativo tra le due velocità, del cinema e del video: le arti elettroniche accelerano, accelerano all’indietro ma in avanti nello stesso tempo, dilatando il tempo della riflessione tra le immagini, negli intervalli, non sono solo intervalli delle immagini e del tempo ma intervalli del pubblico […].151

Le osservazioni di Gianni Toti sull’arte di Cahen ci portano dunque ad allargare lo sguardo e a considerare queste opere video nel più ampio insieme delle arti della contemporaneità, nel quadro di una poetica dell’opera aperta che – come teorizzato da Umberto Eco – le percorre trasversalmente e le innerva, ne costituisce il nucleo: si potrà considerare del resto come le prime sperimentazioni con l’immagine elettronica siano solo di poco posteriori rispetto al saggio di Eco, nei primi anni Settanta. I video di quegli anni pionieristici per la storia del video risentivano fortemente del loro carattere sperimentale: più che opere compiute questi lavori rappresentavano dei saggi delle possibilità espressive del mezzo. Solo a partire dal decennio successivo nelle opere video si cominceranno a riconoscere i segnali di un superamento di questa prima fase di sperimentazione libera, rigogliosa e selvaggia della manipolazione delle immagini; e i segnali del formarsi di un vocabolario e di una grammatica comuni. Di qui si arriverà a quella fase matura in cui si collocano anche quelle opere che, riconducibili alla definizione di “video di creazione”, hanno costituito l’oggetto di questa ricerca.

Ripercorreremo ora alcuni passaggi dello studio di Eco sull’opera aperta capaci di far fronte a quegli atteggiamenti critici che attribuiscono alle opere video l’etichetta di contorcimenti formali

151

Gianni Toti, Incontro videoregistrato (inedito) con Robert Cahen, trascrizione a cura di Gianluca Paoletti, Rassegna “Tra cinema e video. Incontri, scambi, omaggi, tra pellicola ed elettronica”, Associazione Culturale “Ondavideo”, Centro S. Paolo all’Orto - Cineclub Arsenale, 15-18 maggio 1996.

vuoti di contenuti o, al più, di solipsistiche e autoreferenziali divagazioni. Niente di tutto questo: nella sua fase matura l’arte video diviene capace (e questo non vuol certo dire che sempre lo sia) di toccare corde profonde ed universali a partire dall’esperienza, dal vissuto e dallo sguardo sul mondo dell’artista; quello che fa la poesia. E se di norma è più semplice fare il riassunto di un romanzo che la sinossi di un componimento poetico, non ci sarà forse bisogno di considerare per forza come noiose e vuote delle opere audiovisive la cui intenzione comunicativa sia diversa da quella di un film. Soffermiamoci su un primo snodo del saggio di Eco:

Sappiamo che un messaggio linguistico può aspirare a diverse funzioni: referenziale, emotiva, conativa (o imperativa), fàtica (o di contatto), estetica e metalinguistica. Ma una ripartizione del genere presuppone già una articolata coscienza della struttura del messaggio e presuppone […] che si sappia già cosa distingue la funzione estetica dalle altre. […] preferiamo rifarci a una dicotomia messa in voga alcuni decenni fa dagli studiosi di semantica: la distinzione tra messaggi a funzione referenziale (il messaggio indica qualcosa di univocamente definito e – all’occorrenza – verificabile) e messaggi a funzione emotiva (il messaggio mira a suscitare reazioni nel ricettore, a stimolare associazioni, a promuovere comportamenti di risposta che vadano al di là del semplice riconoscimento della cosa indicata).

[…] ci accorgeremo di come la distinzione tra referenziale ed emotivo ci obblighi, a poco a poco, ad accettare un’altra bipartizione, quella tra funzione denotativa e funzione connotativa del segno linguistico. Si vedrà come il messaggio referenziale possa essere inteso come un messaggio a funzione denotativa, mentre le stimolazioni emotive che il messaggio attua sul ricettore […], nel messaggio estetico si profilino come un sistema di connotazioni diretto e controllato dalla struttura stessa del messaggio.152

E ancora:

Una espressione come “Quell’uomo viene da Bassora” fa effetto la prima volta; poi appartiene al repertorio del già appreso; dopo la prima sorpresa e la prima divagazione, chi la oda per una seconda volta non si sente più invitato a un nuovo itinerario immaginativo. Ma […] se l’invito all’itinerario mentale mi è offerto da una struttura materiale che mi si propone sotto apparenza gradevole, […] se troverò in essa un miracolo di equilibrio e necessità organizzativa, per cui sarò incapace ormai di scindere il riferimento concettuale dallo stimolo sensibile, allora la sorpresa di questo connubio darà ogni volta origine a un gioco complesso dell’immaginazione: capace ora di godere il riferimento indefinito, ma non solo, di godere in uno con esso il modo in cui l’indefinitezza mi viene stimolata, il modo definito e calibrato con cui essa mi viene suggerita, la