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L’opera di Cahen e la soggettività: alcune conclusion

III. 3 7 visions fugitives (1995): la terra di mezzo nello stile di Robert Cahen

III.4. L’opera di Cahen e la soggettività: alcune conclusion

Nel corso di una intervista, a proposito del progetto di 7 visions fugitives, Robert Cahen ha raccontato: “[...] quando sono andato in Cina mi è venuto in mente che non sarei riuscito a fare un vero film sulla Cina perché non avevo i mezzi, non avevo la produzione, ma che sarei stato certamente toccato da certe immagini della Cina, dei paesi e della gente [...] e che avrei voluto riportarne le immagini più forti. Di qui l’idea della “visione fuggitiva”: [...] una cosa difficile, certo, ma che metteva in opera il mio sguardo.”126

Lavorando sui materiali raccolti nel corso del viaggio, l’opera ha poi effettivamente preso forma in un impianto, quello delle sette visioni fuggevoli, che sembra avere l’aspetto e il senso di una raccolta, di una collezione. Possiamo rifarci nuovamente al film di Chris Marker già citato nel capitolo sul video di Batsry, Sans soleil (1982). Marker, d’altra parte, è un autore a cui Cahen è per molti versi legato, e tra questi la vera e propria fascinazione esercitata dall’oriente (il Giappone per Marker), profondamente affine: “Mi parlava di Sei Shônagon, una dama d’onore della principessa Sadako agli inizi dell’XI secolo [...]. «Si sa mai dove si fa la storia? I governanti governavano, si affrontavano in complesse strategie. Il vero potere era detenuto da una famiglia di reggenti ereditari, la corte dell’Imperatore non era altro che un luogo di intrighi e di raffinatezze. E quel piccolo gruppo di oziosi ha lasciato nella sensibilità giapponese una traccia molto più profonda di tutte le imprecazioni della classe politica, imparando a trarre dalla contemplazione delle cose più tenui una sorta di conforto malinconico... Shônagon aveva la mania degli elenchi: elenco delle “cose eleganti”, delle “cose desolanti” o ancora delle “cose che non vale la pena fare”. Un giorno ebbe l’idea di scrivere l’elenco delle “cose che fanno battere il cuore”. Non è un cattivo criterio, me ne rendo conto quando filmo. [...]».”127 Anche un’opera come 7 visions fugitives potrebbe essere letta come un elenco di cose che fanno battere il cuore.

Il terzo dei sette brevi poemi audiovisivi, chiuso dall’immagine di un vecchio con un covone di paglia sulla schiena, che simboleggia, come ricorda Cahen, il passaggio, l’aldilà, ci parla appunto di questo viaggio, dalla vita alla morte; e al terzo frammento si lega il quinto per via di forti analogie formali e della presenza di immagini dalla forte carica simbolica, connesse al motivo dell’ingresso nella morte, quella del vecchio disteso su una lettiga in alternanza con quella del ragazzino intento a lavorare la lana.

Tra queste due visioni, la quarta, che svolge una funzione di fulcro anche per l’opera nel suo complesso, passa per lo sguardo di due ragazzine che contemplano un paesaggio naturale maestoso, colmo di energia, e gravita intorno ad apparizioni in climax, sempre più chiare e ravvicinate, di un vortice nelle acque del fiume: qui potremo forse riconoscere una immagine della spirale del tempo, o di un varco verso un altrove. Le due “visioni” che occupano i margini dell’opera raccolgono immagini che alcune scelte formali forti, di nuovo, accomunano e, significativamente, sembrano connesse all’idea di soglia: una soglia è innanzitutto l’ingresso nell’opera, per lo spettatore, come lo è l’uscita da essa; ma non questo soltanto, alla luce del discorso che le immagini di questo video, poeticamente, sembrano intessere: niente viene enunciato in maniera esplicita ma, se un lavoro come Voyage d’hiver dissimula e sottilmente schiude un parlare della nascita da parte dell’artista, ritengo che in 7 visions fugitives, come in altri lavori di Cahen, si parli non solo di visioni personali e non stereotipate della Cina ma anche, ad un livello più profondo, di persone che non appartengono al mondo in cui viviamo, che le si interroghi sul viaggio che si compie, in fine.

126

Ibidem. 127

Estratto dal testo del film Sans soleil (1982) di Chris Marker. La trascrizione è pubblicata in: Bernard Eisenschitz (a cura di), Chris Marker, XXXII Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 14-22 giugno 1996, Roma, Dino Audino, 1996.

Dall’elenco delle sette visioni che venivo facendo rimangono ancora fuori la seconda e la sesta: questi due frammenti, anch’essi in relazione simmetrica e speculare, rivelano soluzioni stilistiche di grande rigore: non vi sono interventi sulle immagini, tutte montate a stacco, se non quelli, quasi impercettibili, sulla velocità. In questi due episodi, e nella scena del mercato con particolare evidenza, possiamo riconoscere i prodromi delle scelte che si manifesteranno compiutamente in Plus loin que la nuit: l’incontro con una serie di persone, di volti, di sguardi come allo specchio, ed una densità di senso, una forza simbolica che non è più rivelata per via di elaborazioni dell’immagine, stratificazioni e ricoloriture, ma è lasciata, per così dire, allo stato grezzo. Quali elementi strutturanti rimangono le sottili modulazione della velocità dell’immagine, i rallentamenti, gli scarti, e - in maniera molto più chiara nella versione originaria del video, poi rifiutata dall’artista in quanto opera compiuta – un limpido impianto compositivo.

In questo senso 7 visions fugitives, tra i quaderni di viaggio in cui Cahen ha raccolto lo stupore e la fascinazione degli incontri con volti e paesaggi stranieri, ci appare a sua volta come una terra di mezzo: il risultato è in qualche misura vicino a quella dialettica tra immagini elaborate e immagini lasciate grezze che abbiamo visto sviluppata in maniera cosciente e sistematica da Batsry in These are not my images. Le scelte stilistiche che si manifestano attraverso i sette frammenti sono, come si è visto, molto diversificate; e trovano coerenza nell’architettura complessiva dell’opera. Al di là delle evidenti alterazioni nel colore di alcune delle immagini che compongono il primo e il settimo episodio (con inversioni positivo-negativo) e del ricorso diffuso negli episodi terzo e quinto ad immagini in bianco e nero estremamente contrastate (che donano una sorta di iper-realtà alle poche a colori che tra quelle sono sparse), non sono molte le immagini rese complesse, antinaturalistiche o di difficile lettura con interventi in post-produzione. Rare sono le stratificazioni – comunque caratterizzate da una durata distesa, composte da due sole immagini -, e rari sono gli interventi di elaborazione delle immagini. Rari e necessari; caratterizzanti immagini di particolare forza: penso al vecchio che cammina col grande covone di paglia sulla schiena e alle due immagini della piccola barca spinta da remi su uno specchio d’acqua nel terzo frammento, all’ultimo apparire del mulinello nelle acque colme di fango alla fine del quarto, alla corsa della locomotiva - due apparizioni – nel settimo. In questi passaggi, dunque, Cahen sembra ancora sentire il bisogno di offrire allo spettatore una resa dei frammenti di realtà catturati dalla telecamera che, nell’alterità, sveli la portata simbolica ed evocativa di un’immagine. Siamo certo lontani dalla ricchezza di effetti che appare dispiegata, ad esempio, in un’opera come Hong Kong Song (1989) che peraltro vive degli stessi scenari e, d’altra parte, è solo intuita la scelta di una rinuncia agli effetti e dunque ad una traduzione poetica delle immagini quale arriva a manifestarsi in Plus loin que la nuit. Osservando 7 visions fugitives ci imbattiamo dunque in una processo in atto nella poetica di Robert Cahen, il tendere di un artista votato al nitore compositivo e alla levigatezza della forma, al controllo assoluto, verso un punto limite di assenza di formalizzazione, di traduzione del frammento di realtà in opera. E nella messa a confronto delle “sette visioni” con Plus loin que la nuit, un lavoro in cui Cahen arriva a scelte radicali, alienando da qualsiasi gesto di elaborazione le sue immagini, ci si offre, per una volta, l’occasione di riflettere, in absentia, sull’uso degli effetti e sulla manipolazione delle immagini come una funzione di espressione della soggettività che in qualche modo sembra corrispondere per le opere video a quella che nel cinema narrativo è rappresentata dalla costruzione di un racconto con la scelta di piani e punti di vista e con l’ordine che alle inquadrature viene dato.

IV Conclusioni (per una teoria del linguaggio videografico)