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Sul riconoscimento di una soggettività dell’atto discorsivo nelle opere video

III. 3 7 visions fugitives (1995): la terra di mezzo nello stile di Robert Cahen

VI.1. Sul riconoscimento di una soggettività dell’atto discorsivo nelle opere video

Lo scenario teorico che fa da sfondo alle analisi condotte sui lavori di Cahen e Batsry nei due capitoli precedenti è rappresentato dall’ipotesi che anche nel caso di opere video (o almeno per alcune di esse) sia possibile ed utile arrivare a distinguere - come da tempo hanno fatto teorici e semiologi del cinema - una forma di soggettività dell’atto discorsivo come altra e specifica rispetto a quella legata ai contenuti di un’opera (i pensieri ed i sentimenti di un autore, che attraverso di essa si manifestano). E a far apparire necessaria una simile indagine era l’osservazione di come i video, per la loro particolare natura – opere che l’artista realizza spesso da solo, autarchicamente, o al più con pochissimi collaboratori; ed opere in cui, inoltre, l’elemento narrativo è labile o del tutto assente -, siano esposti al rischio di una confusione tra questi due piani, tra una soggettività di ordine psicologico che è palese e quasi sfacciata ed una di ordine formale che rimane come in trasparenza, nascosta dietro a quella: non è un caso che i contenuti di queste opere si organizzino in molti casi intorno a forme quali il diario di viaggio, o il diario personale, o ancora la lettera, il componimento lirico o saggistico; tutte forme di “scrittura” che implicano un “io”, un discorso in prima persona. Questo “io” che si dichiara, in assenza di quel filtro costituito dalla presenza di una narrazione - o, come nel caso di These are not my images, con personaggi che sono delle ipostasi dell’autore stesso -, un “io” che talvolta si rivolge a noi con la voce dell’autore reale (Gianni Toti, un esempio su tutti), lascia dunque in ombra una presenza dentro la scrittura che pure, a mio parere, esiste.

Si trattava di andare in cerca dello “sguardo-che-fa-il video”, per dirla mutuando un’espressione di Lorenzo Cuccu,128 di una soggettività che si manifesta in quanto costruzione dell’opera, sguardo in atto che si fa stile, sia pure - qui, nelle opere video - confuso in un flusso balenante di forme. E allora la scelta è stata quella di individuare come oggetto d’indagine opere in cui la ricchezza di trattamenti e stratificazioni delle immagini diviene più rarefatta ed è come messa in luce, per contrasto, proprio nel dialogo con un’assenza, con una privazione; queste opere hanno avuto la funzione di rivelatori: procedendo per sottrazione si poteva forse far emergere quel che altrimenti sarebbe rimasto confuso, lasciandosi solo intuire, nel “mare della soggettività”. La scelta degli autori e delle opere da trattare è stata dunque mirata ed arbitraria - ricordo che, per evitare il rischio di confusioni legato alla troppo ampia categoria della “videoarte”, ho comunque delimitato preliminarmente l’area di interesse intorno alla definizione di “video di creazione” (una definizione che pone, dunque, dei limiti anche sul piano cronologico) –, così come mirati sono appunto stati gli approcci analitici. E non vi è la pretesa di estendere gli esiti di questa ricerca in maniera automatica ad altre opere. Questo è quel che si è cercato di fare: stabilire una possibilità.

Nel capitolo appena concluso la ricerca ha seguito la strada di una osservazione dello stile di Robert Cahen nel suo evolversi nel tempo: in una delle più recenti opere dell’artista francese, Plus loin que la nuit, ho riconosciuto un punto di arrivo (evidentemente provvisorio) di una tendenza che si veniva manifestando sempre più in alcuni dei lavori precedenti; a partire da lì ho potuto sviluppare un percorso a ritroso per arrivare a mostrare come l’elaborazione delle immagini non abbia mai rappresentato per questo artista un puro gesto estetico, una forma di abbellimento fine a se stessa,

128

Lorenzo Cuccu, “Verso il ‘cinema della soggettività’: Alexander Astruc e altri” in Giovanni Spagnoletti, Giorgio De Vincenti (a cura di), Il nuovo cinema ieri e oggi: riflessioni e documenti, XXXVII Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro, 22 – 30 giugno 2001.

ma, ben più profondamente, una metafora dell’atto stesso del mostrare o, meglio, uno svelamento: il motivo dell’entr’apercu, antica ossessione visiva di questo artista (l’opera omonima data al 1980), si rivela infine nella sua natura di simbolo di un sentire epifanico, una resa per immagini (e suoni) di un senso della bellezza effimera delle cose del mondo, che fugacemente appare.

Nel capitolo II ho potuto invece condurre un’analisi dentro i meccanismi costitutivi di una singola opera. Nel video di Irit Batsry, These are not my images, tutto ruota intorno a una dialettica tra immagini realistiche e immagini elaborate: questo affresco dell’India è congegnato dall’autrice israeliana innanzitutto come una riflessione – un saggio in forma poetica – sul senso del guardare, del fare immagini, e sul suo mestiere di artista; da cui è chiamata a raccontare, a modo suo, il mondo. Il video è stato osservato sotto una particolare lente, una lettura che Batsry stessa sembra autorizzare, di una rappresentazione autoriflessiva nel corpo stesso dell’opera, vera e propria messa in abisso, dell’atto creativo come equivalente dell’opus, del processo alchemico. A commento di un suo precedente lavoro, Traces of a presence to come (1993), Batsry ha scritto:

Cominciando Leaving the Old Ruin con l’immagine del mio viso e le parole “Questa è una storia che non avrei voluto dover raccontare” (“dover raccontare” indugia sullo schermo dopo che il resto del testo è svanito) ho introdotto nella trilogia [N.d.A.: Passage to Utopia] la referenza dell’opera a se stessa e all’artista che l’ha creata. Questa auto-referenza diviene onnipresente in Traces of a Presence to Come. Prendendo la creazione artistica come modello per la creazione utopica, l’opera (=mondo) interroga i propri elementi: parola e immagine, intorno alla loro creazione, alla loro disgregazione.129

Già qui la vicinanza con il modello alchemico appare fortissima, e il titolo complessivo della trilogia (Passage to Utopia) ne racchiude icasticamente il carattere programmatico: utopica è appunto la ricerca della pietra filosofale. L’opus è una imitazione dei processi della natura, faticoso e ostinato percorso verso la raffinazione della materia, verso la forma:

L’alchimia è scienza immaginaria non solo nel senso che le sue conclusioni sono, da un punto di vista chimico, inattendibili e fantasiose […] ma è una scienza “immaginaria” anche nel senso che mette a fuoco procedimenti della immaginazione, registrando impulsi ideali e tensioni liberatorie della psiche.

Alla sua falsità scientifica fa riscontro l’autenticità dell’utopia: realizzare l’“oro” in termini spirituali o psichici; raggiungere un’interiore conciliazione da proporre a modello armonioso di un’umanità affrancata dalle proprie miserie; vivere attivamente questo processo liberatorio come un “fare”, come un processo di trasformazione creativa che si proietta, con simbolica corrispondenza, nello stesso corpo del mondo.

Cambiare se stessi per “redimere” il mondo.130

Calvesi, a questo proposito, si sofferma su un’opera in particolare, l’Autoritratto di Albrecht Dürer del 1500 (Fig. 53), che prende a modello della creazione artistica la divinità stessa, con una forzatura intellettuale del topos dell’Imitatio Christi:

Il fedele deve “imitare” Gesù, ripercorrere il suo virtuoso cammino. Innestandosi su questo sottinteso religioso, l’identificazione visualizzata dal Dürer va però, ambiguamente, al di là e sembra toccare proprio quel confine […] verso cui era proprio l’alchimia ad avventurarsi, spingendo il principio dell’Imitatio Christi fino all’audace configurazione dell’alchimista come “redentore”. Redentore, in che senso? Se le capacità generative dell’alchimia nei confronti della materia si rifacevano al divino e cabalistico modello della Genesi, questa metamorfosi assumeva poi il dichiarato valore di un’operazione, appunto, “salvifica”. La materia oscura e caotica veniva “redenta” trasformandola in oro e luce, in “pietra filosofale” […].131

Proprio nel testo (che la stessa Batsry legge) di Traces of a Presence to come mi sembra si possano cogliere interessanti spunti interpretativi, sulla base di un parallelismo artista-divinità. Ora, rispetto

129

Irit Batsry, “Voir des mots”, in AA.VV., Traces d’un passage, cit., p. 119. 130

Maurizio Calvesi, op. cit., p. 6. 131

a quella che Batsry sviluppa nel video del 1993, l’autoriflessività che abbiamo potuto riconoscere all’opera in These are not my images è meno evidente e più radicale: è l’opera stessa qui, con la sua forma, che racconta della propria genesi, e raffigura il processo di cui essa è il risultato.

Questo, dunque, lo sfondo teorico: cercare le tracce di una presenza, le forme di manifestazione, nel corpo dell’opera stessa, di una soggettività in atto di creare; non una autoriflessività metzianamente privata di rapporto con la figura reale dell’autore ma una presenza mostratrice in cui si possa riconoscere lo sguardo dell’artista. E, d’altra parte, essa non potrà essere quella stessa forma di sguardo che si palesa in quanto creatore ed organizzatore di un mondo - “[…] che condensa e dispiega un percepire-sapere-credere […] che si colloca “di fronte”al percepire-sapere-credere dei personaggi ai quali dà vita nella finzione, in una relazione dinamica di orizzonti che può svariare […] dalla piena identificazione e dal pieno assorbimento al distacco […]” -132 quale è stata riconosciuta nelle opere filmiche dai semiologi del cinema. Sarà invece uno sguardo sul mondo; esperienza, stato d’animo e pensiero che vengono, per così dire, tradotti e resi sensibili su uno schermo. Anche in queste opere video si tratta di uno sguardo che si manifesta, e che non va confuso con il semplice posizionamento della camera; ma in altro senso: qui è messo in gioco un guardare altrimenti, ed oltre; uno sguardo interiore capace di rivelare intimamente il senso del reale. Proprio una riflessione di Irit Batsry, a proposito di These are not my images, ci offre il senso di questo fare artistico:

[…] la questione della percezione, la questione della visione è una mia antica ossessione. Ho lavorato in passato, in lavori come A simple case of vision, in maniera esplicita su questo argomento; ma sembra che in ogni lavoro che faccio questo problema venga in superficie. Questo è un viaggio in India ma è soprattutto un viaggio dentro le immagini, dentro il modo in cui noi guardiamo. E il tema è quello della questione della percezione fisica ma anche quello della percezione mentale, in una continua spola, avanti e indietro, tra le due.133

Nell’arte di Batsry come in quella di Cahen e di altri autori è in gioco essenzialmente questo, una visione altra (e, senza alcun filtro, in prima persona) del reale; non un’orchestrazione - col posizionamento della camera, i suoi movimenti e i raccordi – di punti di vista neutri o attribuibili a uno dei personaggi o, in singoli passaggi, ad una istanza mostratrice ma un lavorare le immagini e i suoni per costruire significato. E, del resto, già la registrazione, la raccolta delle immagini e dei suoni da trattare, su cui lavorare - un’esperienza completamente altra dal girare un film di finzione ma che, d’altra parte, non si lascia accostare neppure ad un approccio documentario - è in fondo una ricerca da rabdomanti dell’animo umano.

Di qui il rilievo che nello studio di simili opere audiovisive, come si è cercato di mostrare nei capitoli precedenti, assumono tanto l’analisi delle differenti modalità di trattamento quanto la ricostruzione dell’impianto complessivo che da questa mappatura infine risulta; è la forma che può divenire essa stessa significante. Il flusso indistinto del mondo che si cristallizza in forma, e in senso. E proprio da qui scaturisce quell’impressione di vicinanza, più volte suggerita nelle pagine precedenti, con il linguaggio poetico - o piuttosto si dovrà dire, preliminarmente, con la funzione poetica del linguaggio. Assumeremo qui come riferimento teorico gli studi, nell’ambito della linguistica, di Roman Jakobson:134

Secondo quale criterio linguistico si riconosce empiricamente la funzione poetica? In particolare, qual è l’elemento la cui presenza è indispensabile in ogni opera poetica? Per rispondere a queste domande occorre ricordare i due processi fondamentali di costruzione usati nel comportamento linguistico: la selezione e la

132

Ibidem, p. 33. 133

Irit Batsry, in Tracce di un passaggio. Incontro con Irit Batsry (inedito), Ondavideo 2008, Cineclub Arsenale, Pisa, 30 novembre 2000 [trad. mia].

134

Roman Jakobson, Essais de linguistique générale, Paris, Éditions de Minuit, 1963 [trad. it. Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966]. Da qui in poi si cita l’edizione italiana del 2002 (I ed. nella collana “Universale Economica” – SAGGI).

combinazione. […] La selezione è operata sulla base dell’equivalenza, della similarità e della dissimilarità, della sinonimia e dell’antinomia, mentre la combinazione, la costruzione della sequenza, si basa sulla contiguità. La funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione.135

Non ho evidentemente alcuna intenzione di attuare schematici e farraginosi trasferimenti di concetti e strumenti teorici da una disciplina ad un’altra e, del pari, credo che debba essere accuratamente evitato anche il rischio di incorrere in un facile e troppo meccanico sillogismo che dal presente discorso potrebbe facilmente scaturire, per cui ad una coppia poesia-video verrebbe a contrapporsi un’associazione di romanzo e cinema di finzione. Le osservazioni e i rimandi contenuti in queste pagine servono dunque a mettere in luce con maggiore evidenza un dato, quello del prevalere della forma, della pregnanza di senso che proprio attraverso la forma appare veicolata in queste opere video, che mi pare essenziale nello sviluppo della presente ricerca. Non semplici e generiche suggestioni ma certamente neanche prodromi di una prospettiva teorica manichea e banalizzante, mi faccio aiutare da questi riferimenti allo studio della scrittura poetica per avanzare attraverso regioni della teoria degli audiovisivi che ancora attendono, in gran parte, di essere esplorate. Fatte queste necessarie premesse possiamo tornare a seguire il discorso di Jakobson sulle peculiari caratteristiche del linguaggio poetico:

Senza dubbio il verso è prima di tutto “motivo fonico” ricorrente; prima di tutto, ma non esclusivamente. Ogni tentativo di confinare convenzioni poetiche come il metro, l’allitterazione, la rima al livello fonico, rappresenta un ragionamento astratto senza la minima giustificazione empirica. La proiezione del principio di equivalenza sulla sequenza ha un significato molto più vasto e più profondo. La concezione che Valéry ha della poesia come “hésitation prolongée entre le son et le sens,” è molto più realistica e scientifica di tutte le forme d’isolazionismo fonetico.

[…] considerare la rima soltanto dal punto di vista del suono sarebbe una semplificazione arbitraria. La rima implica necessariamente una relazione semantica fra le unità che rimano fra loro […].136

Premesso dunque il fatto che nessuna relazione diretta può essere stabilita tra la lingua e una forma espressiva composta di immagini, suoni e (non sempre) parola, quel che importa qui è sottolineare come nelle opere video che abbiamo osservato sembri manifestarsi un analogo meccanismo di produzione di senso. Sono le modalità con cui le immagini vengono usate, le elaborazioni (ma ugualmente significante può essere la loro assenza), le ripetizioni e gli scarti a mettere in evidenza certe immagini rispetto ad altre, a stabilire le relazioni tra esse e a creare senso, per questa via. Seguiamo ancora Jakobson, brevemente:

In poesia non soltanto la sequenza fonematica, ma così pure ogni sequenza di unità semantiche tende a stabilire un’equazione. La sovrapposizione della similarità alla contiguità conferisce alla poesia quell’essenza simbolica, complessa, polisemica, che intimamente la permea e la organizza […]. In poesia, dove la similarità è proiettata sulla contiguità, ogni metonimia è lievemente metaforica, ed ogni metafora ha una sfumatura metonimica.

L’ambiguità è un carattere intrinseco inalienabile di ogni messaggio concentrato su se stesso; è, insomma, un corollario della poesia. Possiamo dire con Empson: “Gli artifizi dell’ambiguità sono le radici stesse della poesia.” Non solo il messaggio stesso, ma anche il mittente e il destinatario diventano ambigui. […] Il predominio della funzione poetica rispetto a quella referenziale non annulla il riferimento, ma lo rende ambiguo.137

Nel genere di opere di cui qui ci occupiamo, d’altra parte, la situazione è ancor più sbilanciata in direzione dell’ambiguità e della valenza simbolica, perché ad essere usata non è la lingua ma sono 135 Ibidem, p. 191. 136 Ibidem, p. 204. 137 Ibidem, p. 209.

delle immagini, prevalentemente. La parola è in molti casi abbandonata dagli autori video e quando viene usata, comunque, si trova posta in un rapporto complesso con l’elemento visivo; la stessa sincronia tra immagine e parola, canonica nel cinema – le voci off e over si manifestano come temporanee infrazioni al modello teatrale, trovano senso e possibilità di esistere nei dialoghi in che le precedono e le seguono -, è di fatto bandita in queste opere. Non essendoci, al più, che una narrazione scarnificata (e comunque, come si è visto per il video di Batsry, funzionale ad altro) ed essendo la parola, quando ancora vi si trova, lavorata al pari delle immagini, resa essa stessa suono e immagine (si pensi ancora ai lavori di Gianni Toti), ci troviamo di fronte ad una apertura di senso. Il problema è, semmai, che la natura ambigua e la portata simbolica di queste opere sono talvolta scambiate da alcuni per vacuità, ottusità di senso, soliloquio.

Nell’ultimo frammento citato Jakobson faceva riferimento, significativamente, a William Empson; nel saggio Seven Types of Ambiguity138 lo studioso inglese aveva per primo colto questo snodo, con una intuizione fondamentale di cui Giorgio Melchiori, nell’introduzione all’edizione italiana del libro, spiega così il senso:

[…] la poesia è ambigua, ed anzi l’ambiguità è quel che contraddistingue la poesia in quanto linguaggio pregnante, ricco cioè di potenzialità che la prosa esplicativa non possiede. I Sette tipi sono un tentativo di classificazione delle varie ambiguità possibili, che non sono necessariamente ambiguità di significato, ma possono essere anche sintattiche o verbali, possono essere contenute nei tropi della frase poetica o possono emergere quando si esamini il contesto psicologico, storico o sociologico della poesia.139

Seguiamo ancora l’introduzione di Melchiori, in un passo che, pur nella evidente compromissione con il contesto culturale del periodo in cui questo testo veniva scritto, gli anni Sessanta del Novecento, ci offre significativi spunti per un allargamento di prospettive dalla ricerca empsoniana sulla natura della scrittura poetica alle forme espressive della contemporaneità:

La poetica dell’«opera aperta» (tanto per fare un esempio) lucidamente esposta da Umberto Eco è sostanzialmente una poetica dell’ambiguità. E che il concetto di ambiguità non sia limitato al campo letterario lo dimostra ad esempio un saggio come quello di Simone de Beauvoir, Pour une morale de l’ambiguïté (Per una morale dell’ambiguità); anzi, proprio da questo converrà riprendere una distinzione essenziale, data la tendenza attuale a definire assurde (cfr. l’espressione corrente «teatro dell’assurdo» nei confronti delle opere di Beckett, Ionesco, Pinter, Frisch ecc.) talune espressioni della poetica «aperta»: “Il ne faut pas confondre la notion d’ambiguïté et celle d’absurdité. Déclarer l’existence absurde, c’est nier qu’elle puisse se donner un sens; dire qu’elle est ambiguë, c’est poser que le sens n’en est jamais fixé, qu’il doit sans cesse se conquérir.”

È questo il punto su cui s’impernia la poetica empsoniana: il senso della parola, meglio, della parola poetica, autenticamente poetica, non è mai fisso, deve essere conquistato e conquistarsi di volta in volta.140

Come e più della poesia le opere video, nell’intrinseca vaghezza di senso che le contraddistingue, pongono lo studioso di fronte ad una sfida la cui posta in palio è la comprensione dei meccanismi che producono senso.

Seguiamo infine, brevemente, lo stesso Empson in una riflessione - si tratta del passaggio conclusivo della prefazione alla seconda edizione del libro, uscita nel 1947 - che sembra racchiudere intero il senso della sua ricerca:

[…] si deve supporre che tutta la buona poesia sia ambigua?

Io credo di sí […]. Secondo me c’è sempre nella grande poesia un senso di generalizzare partendo da un caso che è stato presentato in maniera definita; c’è sempre un richiamo al fondo di esperienza umana che è tanto

138

William Empson, Seven Types of Ambiguity, London, Chatto&Windus, 1930 [trad. it. Sette tipi di ambiguità, Giorgio Melchiori (a cura di), Torino, Giulio Einaudi editore, 1965]. Da qui in poi si cita l’edizione italiana (Terza edizione). 139

Giorgio Melchiori, “Introduzione”, in Giorgio Melchiori (a cura di), William Empson, Sette tipi di ambiguità, cit., p. 9.

140

più presente quanto non lo si può precisare. […] Quel che supporrei è che, quando chi ascolta la poesia sia profondamente commosso da un verso apparentemente semplice, quel che lo commuove sono le tracce di gran parte della sua esperienza passata e della struttura dei suoi giudizi passati. Tenendo conto di quel che si