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Per una lettura di «These are not my images» in chiave autoriflessiva

- «These are not my images», una storia metamediale

Ho già avuto modo di ricordare alcuni degli elementi di novità che contraddistinguono These are not my images rispetto alla produzione precedente di Batsry ma proprio il punto a cui siamo giunti sembra essere significativo e, più di tutti, segnare uno scarto: non un flusso continuo di immagini fortemente elaborate, e dunque, potremmo aggiungere, connotate con evidenza come immagini video, ma la messa in atto di un accostamento dialettico tra queste ed altre immagini, non trattate - o, meglio, non immediatamente riconoscibili come tali -, portatrici di una evidenza documentaria; esse ci riconducono, guardando alla storia delle immagini prodotte meccanicamente, al cinema e soprattutto, risalendo ancora più indietro, alla fotografia. Questo il particolare aspetto di These are not my images, così si offre al nostro sguardo; un’opera costruita come un congegno che genera pensiero, una macchina per la riflessione.

Nella dimensione saggistica e autoriflessiva che questo video rivela riconosciamo una volta di più, forte, la lezione di Chris Marker e, in particolare, di un’opera come Sans soleil, che molto presto, e in maniera esemplare, aveva affrontato la questione della diversa natura delle immagini elettroniche e cinematografiche: la riflessione veniva affrontata lì attraverso i dialoghi, raccontati da una voce femminile, tra l’operatore Sandor Krasna e il suo giovane amico giapponese Hayao Yamaneko, dedito all’elaborazione delle immagini col sintetizzatore; ma veniva anche posta, nella maniera più diretta, con l’accostamento di immagini elaborate elettronicamente ai tanti frammenti di realtà raccolti da Marker in giro per il mondo. Con particolare chiarezza, questa dialettica tra immagini di una differente “qualità” veniva posta con una soluzione stilistica ed espressiva che riconosciamo attuata anche nel video di Batsry, quella di riutilizzare nel finale alcune immagini eminenti del film, trasformate, nella loro seconda occorrenza, in “graffiti elettronici”.

Ecco come l’artista israeliana, nel corso di una intervista rilasciata durante il suo soggiorno pisano nel 2000, descrive la costruzione della particolare architettura visiva che contraddistingue These are not my images:

Un’altra differenza è che in tutti gli altri lavori non c’era un’immagine che non fosse stata completamente trattata, e questo si notava; si notava che erano tutte immagini elaborate, dall’inizio alla fine. Invece in These are not my images ci sono dei momenti in cui le immagini sono percepite come non manipolate, e questo è stato un terremoto perché ogni volta che si passa da una immagine che è percepita come non elaborata a una immagine che invece è palesemente elaborata in questo passaggio si scatena qualcosa, una sorta di shock, nello spettatore. È proprio questo il momento in cui lo faccio uscire dal film e gli ricordo che ci sono due modalità di percezione. Perché quando tutte le immagini sono trattate alla fine si entra in quel modo di elaborazione delle immagini, mentre in questo caso c’è come una spola che si fa tra questi due mondi.70 Avremo modo di tornare più avanti sul significato attribuito da Batsry al processo di elaborazione delle immagini, come specchio e strumento di un guardare altrimenti, più attento e intimo, capace di svelare significati all’apparenza nascosti. Varrà la pena, però, osservare come questa dialettica tra immagini lavorate e immagini (almeno apparentemente) realistiche sembri sottilmente dialogare con un’altra delle molte chiavi di lettura offerte da quest’opera, quella dei riferimenti ad alcuni registi occidentali - Roberto Rossellini e Pier Paolo Pasolini - che hanno raccontato l’India, e per questa via arrivare a porre come questione di fondo quella della diversa natura dei due mezzi, il cinema e il video. Se questi cineasti, infatti, avevano scelto di dichiarare esplicitamente già nel titolo - rispettivamente, India e Appunti per un film sull’India - l’oggetto del loro discorso, rivelando dunque una fiducia nelle possibilità e capacità di raccontare proprie del mezzo espressivo

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da loro usato, Irit Batsry non solo ha scelto di non far mai pronunciare all’interno della sua opera il nome del paese che vi è ritratto ma ha cullato per un periodo l’idea di chiamarla Not India: e pure, lei lo sapeva bene, in questi suoni e in queste immagini l’India si lascia riconoscere senza ombra di dubbio. Vi potremo allora riconoscere non solo l’intento di fare della propria opera anche una riflessione sugli stereotipi e sui filtri attraverso cui noi occidentali guardiamo ad un mondo tanto diverso dal nostro ma forse anche il desiderio di marcare uno scarto, con una negazione che (in senso freudiano), nel momento stesso in cui nega, afferma. In questo voler raccontare “non l’India” c’è, a mio giudizio, la coscienza di poter e voler raccontare in maniera altra, con il video:

[…] penso che una delle cose più forti che si possono fare con il linguaggio video sia l’evocazione. E quindi, anche se è vero che io nei miei video metto sempre molte cose – sono sempre video molto densi, molto intensi -, quello che cerco di fare è scatenare qualcosa nello spettatore; ed è per questo anche che in tutti i miei lavori c’è un certo livello di ambiguità. Anche perché con le immagini si può avere più ambiguità che con le parole.71

Il fatto che l’artista parli, è accaduto ad esempio nel corso della presentazione di These are not my images svoltasi a Pisa nel 2001, di quest’opera come di un “film” non deve trarre dunque in inganno; nell’uso che fa di questo termine, ben altrimenti che un desiderio di adesione al modello espressivo del cinema narrativo, sembra di poter riconoscere, da parte di un’artista cosciente di sé e della propria arte quale è Batsry, una rivendicazione di dignità: a fare di questo video, ai suoi occhi, un film saranno allora la durata propria del lungometraggio, l’attenzione maniacale alle condizioni di proiezione, una ricchezza di senso – di natura non narrativa o, se si vuole, para-narrativa – lontana da quel ghetto in cui molta parte della critica di ambito cinematografico, col fragore del suo silenzio, sembra voler frettolosamente confinare le opere video, scambiando il ruolo eminente della forma, nel migliore dei casi, per vuoto esercizio di stile e la dimensione intima e privata in cui ha origine quella aspirazione all’universalità che è propria anche della poesia, come un parlarsi addosso (per immagini) ingenuo e stucchevole. Ma ascoltiamo ancora le parole di Batsry:

Amo il cinema, […] e penso che sarebbe una cosa molto triste se la pellicola scomparisse, se il film materialmente scomparisse; è una questione di ecologia: uno non vuole che un certo tipo di pianta scompaia, che il colore del cielo scompaia. Perché è differente da qualsiasi altra cosa. Se mi piacerebbe lavorare in pellicola? Penso di no, perché credo nella libertà di filmare in video, non posso riprendere in cinema così come in video. Le cose che mi piacerebbero in pellicola, cose molto classiche, ci sono altre persone a farle. […] Ed il film come film sperimentale, se vogliamo, è limitante per me […] il fare qualcosa e non vedere cosa sta accadendo non fa per me…72

Nella poetica di Batsry il nucleo generativo del fare artistico è costituito non dal momento della ripresa ma da quello dell’elaborazione delle immagini: è in questo processo, nel cercare al loro interno la forma (o le forme plurime, da un’unica immagine originaria), così come lo scultore cerca la figura racchiusa, in potenza, nel blocco di marmo, che si manifesta una diversa e più acuta comprensione delle cose. L’immagine antinaturalistica, ispessita dalle stratificazioni, come scoperta di una significanza profonda, balenante di senso e al tempo stesso sfuggente nei suoi contorni. In tutto questo, che potremmo definire un comunicare epifanico, non possiamo non riconoscere una sostanziale affinità con il riverberarsi dei significati nella forma, e in quella forma lavorata il trovare da parte dei contenuti la loro forza, che è proprio del linguaggio poetico. Qualcosa che rifiuta e oltrepassa il dominio dell’istanza informativa che si manifesta nelle forme narrative, siano esse letterarie o cinematografiche.

E d’altra parte la stessa intenzione di sollecitare la capacità critica e analitica dello spettatore a discapito della sua immersione nella storia, le continue infrazioni al patto finzionale attuate per via dello scivolamento da una immagine documentaria ad una elaborata, o viceversa, o ancora la

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Ibidem, p. 50. 72

presenza dei personaggi come pure voci acusmatiche73 - presenze private di un corpo che spesso e a lungo lasciano spazio alle immagini e ai suoni per poi, fantasmaticamente, tornare a parlarci -, tutto questo ci indica come sia un ruolo servile quello della narrazione in questo video: uno stratagemma per l’espandersi di uno sguardo in forma di (cinema di) poesia.

Ma proprio l’accostamento di immagini elaborate e non, su cui sarebbe andato a reggersi l’intero impianto formale dell’opera, aveva creato grandi difficoltà all’artista, durante la lunga e meticolosa lavorazione del video nella fase del montaggio: “In effetti uno dei più grossi lavori che ho fatto, molto del tempo che ho impiegato è stato sulle transizioni, perché all’inizio si passava in maniera troppo netta da una modalità all’altra e il lavoro che ho voluto fare, invece, era di rendere uno scivolamento.”74

- Alcune note sui materiali analitici prodotti per «These are not my images»

Varrà la pena soffermarsi brevemente su questo punto, a proposito della strategia espressiva attuata da Batsry di un ossimoro espressivo e stilistico prodotto grazie all’accostamento di immagini elaborate e stratificate con immagini che si offrono come riproduzione della realtà, sulla questione della difficoltà incontrate dall’artista per rendere graduali i passaggi, di sfumare dal punto di vista formale lo scarto tra le une e le altre. Ho potuto rendermi conto di come un ponte attraverso cui, nel corpo dell’opera, si attenua la distanza tra i due poli sia costituito dal frequente ricorso ad immagini a basso grado di antinaturalismo; sono, infatti, immagini che si caratterizzano per “effetti” prodotti (o almeno potrebbero esserlo stati) già in fase di ripresa: incontrando al livello più basso la ripresa in controluce, si va, a salire, dallo sfaldarsi delle forme che si ottiene riprendendo lateralmente dal finestrino di un’auto o di un treno in corsa, alla sfocatura, fino ad arrivare alla striatura dei contorni degli oggetti e dei corpi in movimento che si ottiene riprendendo, in situazioni di luce scarsa e con la velocità di otturazione impostata su un tempo lungo. L’ordine che ho seguito in questo elenco non è casuale perché mi pare che queste soluzioni formali abbiano un carattere di “naturalezza” decrescente, a cui corrisponde in grado crescente una diversa familiarità, quella acquisita grazie all’uso ormai diffuso delle piccole telecamere, le handycam: se la visone difficoltosa di un paesaggio da un treno è qualcosa che ci è del tutto abituale (anch’esso, in realtà, è stato reso possibile da innovazioni tecnologiche), la sfocatura può essere ancora qualcosa di “naturale” ma è ormai comune, sempre di più, l’esperienza del provare a fare riprese con una telecamera che usata in automatico può incorrere nell’“errore” di andare fuori fuoco, così come tra le possibilità pensate per un pubblico non esperto c’è sempre, nelle videocamere di tipo consumer, la funzione shutter speed, che offre all’utente la possibilità di poter riprendere anche con poca luce. A questa casistica andranno poi aggiunte le immagini in bianco e nero, anche queste usate da Batsry, la cui familiarità è, a sua volta, un prodotto della fotografia e del cinema e che proprio al cinema, esplicitamente, rimandano.

Alla scomposizione del video in sequenze e immagini si è così sovrapposta l’individuazione di tutte queste forme lievi di visione alterata e di quelle immagini che invece si caratterizzano per un lavoro complesso sulla velocità dell’immagine, per l’uso di effetti, per una stratificazione di immagini: a rendere conto di queste informazioni ho inserito una serie di grafici posti nel volume allegato; ognuno di questi “effetti” in gradazione d’intensità viene preso in considerazione con uno specifico grafico riassuntivo. Il fatto poi che spesso si manifestasse la compresenza di più elementi di alterazione dell’immagine da un lato ha fatto sì che nel grafico generale delle alterazioni (sottoparagrafo 2.4.1. degli strumenti analitici in allegato) dell’immagine venisse di volta in volta segnalata, necessariamente, quella più significativa e, dall’altro, ha reso utile l’ulteriore inserimento di grafici (sottoparagrafi da 2.4.2. a 2.4.9. degli strumenti analitici in allegato) in cui venisse presa in considerazione, di volta in volta, una sola di queste categorie di “disturbo della visione”.

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Per questo concetto si fa riferimento a: Michel Chion, op. cit.. 74