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Le maggiori difficoltà da affrontare durante le indagini ecotossicologiche riguardano le misure degli effetti sinergici di più sostanze tossiche su un organismo, e gli effetti della conseguente esposizione ad una determinata sostanza a lungo termine ed a basse concentrazioni.

Al fine di valutare gli effetti e l’esposizione dei contaminanti in un determinato ambiente, l’utilizzo dei biomarker può essere considerato un ottimo strumento d’indagine.

Tale approccio metodologico utilizza le risposte che un organismo bioindicatore genera nei confronti di uno o più fattori di stress (fisici e/o chimici) ambientale.

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1.6.1. Livelli di organizzazione biologica

La presenza di un contaminante in un ecosistema influenza la componente biotica, e ne può determinare una serie di alterazioni o danni a diversi livelli di complessità strutturale. Tali alterazioni, possono dapprima esercitare un effetto a livello molecolare e biochimico determinando modificazioni delle attività enzimatiche, ma successivamente compromettere l’integrità cellulare, e con un meccanismo a cascata che coinvolge tutti i livelli superiori dell’organizzazione gerarchica, modificare la struttura della popolazione o di un’intera comunità (Stebbing, 1985). In questo modo gli effetti biologici sui singoli organismi si possono riflettere in risposte che coinvolgono intere comunità. Più è alto il livello di complessità biologica più generalizzata sarà la risposta; per tale motivo quando si vuole valutare l’impatto di un contaminante, è importante considerare i segni precoci di esposizione e quindi andare a valutare gli effetti sui primi livelli di complessità biologica.

1.6.2. Organismo “bioindicatore”

Per organismo bioindicatore si definisce ogni organismo vivente, animale o vegetale, il quale mediante risposte identificabili (biochimiche, fisiologiche, comportamentali) a condizioni di stress, ci fornisce indicazioni sul livello di contaminazione di un determinato ambiente (Bargagli et al., 1998).

La scelta dell’organismo bioindicatore dipende da molti fattori, e soprattutto dal quesito sperimentale di partenza. L’approccio più comunemente utilizzato dalla bioindicazione si basa proprio sulla valutazione dei livelli di contaminanti nell’organismo sentinella. Gli organismi (animali e vegetali), infatti, sono generalmente in grado di accumulare nei propri tessuti contaminanti talvolta anche a concentrazioni superiori rispetto a quelle presenti nell’ambiente in cui si trovano.

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Un organismo vivente in genere non subisce passivamente gli effetti di un'alterazione ambientale, ma mette in atto una serie di risposte che tendono a ripristinare l'omeostasi (Fossi, 1998). Quando l’immissione di una sostanza nel comparto ambientale determina variazioni misurabili a livello fisiologico, morfologico o nella distribuzione di un determinato organismo, a quel punto esso può essere utilizzato come bioindicatore. La scelta dell’organismo bioindicatore deve tenere conto non solo della capacità di quest’ultimo di accumulare sostanze tossiche ma anche di una serie di caratteristiche relative alla sua anatomia, fisiologia ed ecologia, alle esigenze alimentari, all’habitat ed alle abitudini generali di quella specie(Bargagli et al., 1998).

1.6.3. Biotrasformazione

Quando le sostanze tossiche interagiscono con un organismo vanno incontro ad una serie di reazioni chimiche, per cui tali molecole esogene o endogene generalmente lipofile e prive di carica elettrica, vengono biotrasformate in composti più polari e idrosolubili, in modo da essere eliminate dall’organismo. Negli organismi vertebrati il principale sito di biotrasformazione è il reticolo endoplasmatico degli epatociti, ma ciò può avvenire anche in altri organi come il rene, l’intestino, il polmone, la milza, il pancreas, il cuore, il cervello e le gonadi (Orellana & Guajardo, 2004).

Le reazioni chimiche sono catalizzate da enzimi del metabolismo dei composti lipoaffini attraverso un processo costitutito da 3 fasi, la fase I o di biotrasformazione, la fase II o di coniugazione, e la fase III o di deconiugazione e trasporto.

Gli enzimi deputati alle reazioni di biotrasformazione sono caratterizzati da un’ampia specificità di substrato. I loro siti catalitici sono in grado di adattarsi a molte tipologie di substrati (Scott et al., 2003).

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Non sempre dal processo di biotrasformazione, i composti lipoaffini e le loro attività vengono neutralizzate o ridotte, spesso può accadere che si attivino dei metaboliti intermedi, più instabili e reattivi.

La prima fase prevede reazioni di ossidazione, epossidazione, riduzione, dealogenazione o idrolisi che introducono uno o più gruppi funzionali per ottenere un metabolita più polare. Se dalla fase di biotrasformazione i metaboliti non sono abbastanza polari da poter essere eliminati dall’organismo vanno incontro ad una ulteriore trasformazione ad opera degli enzimi di fase II. Nelle reazioni di fase II, dette di coniugazione, tali metaboliti, prendono parte a reazioni con composti endogeni (macromolecole) come glucuronato, acetato, solfato, fosfato, glicina, glutatione, metile ecc. che generano composti più polari e idrosolubili che possono quindi essere facilmente escreti dall’organismo. Le reazioni di fase III comprendono i trasporti extracellulari catalizzati da proteine trans-membrana e, catalisi svolte dalla flora batterica.

1.6.4. Biomarker

Con il termine biomarker si definisce la risposta/e che un organismo bioindicatore può attuare nei confronti di uno o più fattori stressanti, nonché “una variazione biochimica, cellulare, fisiologica o comportamentale, che può essere misurata in un tessuto, in un fluido biologico o a livello dell’intero organismo (individuo o popolazione) la quale fornisce l’evidenza di un’esposizione e/o un effetto ad uno o più composti inquinanti” (Fossi, 1991).

L’utilizzo dei biomarker rappresenta uno strumento di diagnosi, poiché ci permette di valutare, attraverso lo studio delle risposte immediate (induzione dei sistemi detossificanti, alterazioni del DNA, ecc.), il tipo e/o i tipi di contaminanti a cui l’organismo bioindicatore è stato esposto, ed i livelli semi-quantitativi dell’esposizione,

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ma nello stesso tempo è anche uno strumento di prognosi in quanto permette di prevedere il verificarsi di effetti negativi a lungo termine anche su scala ecologica (Fossi, 1998). I biomarker, in generale possono essere suddivisi sia in funzione dell’interazione tra organismo e contaminante, sia in base alla loro specificità di risposta nei confronti di una determinata classe di inquinanti.

Nel primo caso possiamo distinguere i biomarker d’esposizione da quelli d’effetto. Mentre i biomarker d’esposizione segnalano risposte relative alla prima interazione tra l’inquinante ed il recettore biologico, i biomarker d’effetto segnalano come un organismo, una popolazione o una comunità siano soggette ad effetti tossicologici

da parte di uno o più inquinanti. Nel secondo caso, i biomarker possono invece essere suddivisi in due categorie: biomarker specifici e biomaker generali (Peakall & Shugart, 1993).

I biomarker specifici comprendono tutte quelle risposte molecolari e biochimiche che si manifestano in un organismo a seguito dell’esposizione ad una specifica classe di contaminanti; i biomarker generali, invece, includono tutte quelle risposte dell’organismo a livello molecolare, cellulare e fisiologico, che non possono essere direttamente ricondotte ad una sola classe di contaminanti, ma che comunque indicano lo stato generale di stress dell’organismo, ad esempio, danni al DNA, al sistema immunitario, variazione dei caratteri somatici.

La possibilità di utilizzare batterie di biomarker è quindi fondamentale per valutare al meglio i risultati e ridurre il più possibile errori di interpretazione in casi di esposizione a più contaminanti (Linde-Arias et al., 2008).

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1.6.5. Classificazione dei biomarker

I biomarker vengono classificati in funzione della diversa risposta a livello gerarchico nelle seguenti categorie (Fossi, 1998).

• Alterazioni del DNA; • Risposte di proteine; • Prodotti metabolici;

• Variazioni del sistema immunitario; • Alterazioni istopatologiche;

• Biomarker non specifici e fisiologici • Biomarker comportamentali.

A seconda del livello strutturale considerato, la risposta temporale dell’organismo può essere "precoce" (ore o giorni) nel caso delle risposte molecolari o "ritardata" (settimane, mesi, anni) nel caso delle risposte cellulari e fisiologiche (Fossi, 1998).

Le risposte di biomarker presentano inoltre un andamento specifico in funzione dell’esposizione a stress biochimico e fisiologico come si evince dalla figura 2a.

I biomarker di genotossicità ad esempio presentano un andamento crescente, rispondendo con un incremento nei valori del danno al DNA all’aumentare dell’espozione a composti genotossici. Altri biomarker tra cui i sistemi di detossificazione di fase I (EROD) ed i

biomarker di stress ossidativo (LPO) invece sono caratterizzati da un andamento a

campana, ovvero gli organismi rispondono con un incremento nel tempo dei valori dei

biomarker all’aumentare dello stress. Se i livelli di contaminazione rimangono costanti

nel tempo oppure diventano eccessivi, si assiste ad un apparente assenza di induzione. In questo caso, infatti, i biomarker possono mostrare valori simili ed in alcuni casi anche inferiori a quelli dei controlli come risposta ad un elevato stress biochimico e fisiologico.

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Fig.2a. Trend delle risposte dei biomarker ad un determinato gradiente di contaminazione in relazione ad uno stress biochimico e fisiologico.

Di seguito saranno descritti i biomarker utilizzati per questa tesi.

1.6.6. Alterazioni del DNA

Tutte le modificazioni indotte direttamente o indirettamente da contaminanti ambientali (IPA, PCB, diossine, metalli pesanti) che causano danni di diverso tipo alle molecole di DNA possono essere utilizzati come biomarker di tipo precoce o ritardato. Infatti, l’interazione tra un composto genotossico ed il DNA dà inizio ad una serie di reazioni a cascata che determina la fomazione di addotti, modificazioni secondarie, e se non si ha un incremento nella velocità dei meccanismi di riparazione si possono verificare eventi irreversibili e mutazioni.

La valutazione dei danni al DNA in organismi acquatici può essere rilevata mediante test differenti, spesso usati in maniera incrociata per ottenere risultati più affidabili (Monserrat et al., 2007). Tra questi i più utilizzati nel campo scientifico sono i test citogenetici come il Test del Micronucleo e l’Erythrocytic Nuclear Abnormalities (ENA) assay.

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1.6.7. Risposte di proteine

In questo caso si tratta di biomarker di tipo rapido, indotti da inquinanti come metalli pesanti, IPA e DDTs, che determinano una variazione nell’attività proteica. Generalmente gli organismi attivano dei meccanismi adattativi e protettivi, inducendo l’attività di proteine funzionali (monoossigenasi a funzione mista-MFO, metallotioneine, esterasi) che in alcuni casi possono svolgere un’azione detossificante nei confronti di composti lipoaffini.

Lo studio dell’induzione delle proteine può essere effettuato attraverso l’applicazione di diverse metodologie. In particolare l’induzione del complesso delle MFO che rappresenta il principale sistema multienziamtico coinvolto nella fase I di biotrasformazione viene misurato come attività dell’etossiresorufina-O-deetilasi (EROD) ovvero una misura indiretta dell’isoforma 1A1 del citocromo P450 (CYP1A1). La valutazione dell’attività dell’etossiresorufina O-deetilasi (EROD) rappresenta uno dei biomarker più specifici attualmente utilizzati in diverse specie di organismi acquatici in quanto tale enzima viene indotto anche dalla presenza di bassi livelli di contaminanti (Billiard et al., 2004; Ortiz- Delgado et al., 2008).

1.6.8. Prodotti metabolici

Certi composti tossici (PCBs, IPA, metalli pesanti) possono alterare il normale metabolismo di composti endogeni (porfirine, acido amminolevulonico deidratasi-ALAD), provocando un accumulo anormale di prodotti di sintesi intermedi (biomarker di tipo medio o rapido).

In questa tesi nello specifico è stato anche considerato un biomarker di stress ossidativo. Le specie reattive dell’ossigeno (ROS, Reactive Oxygen Species) sono continuamente prodotte durante il metabolismo cellulare, ma può accadere che una piccola percentuale

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sfugga al controllo dei meccanismi di difesa antiossidanti oppure che la loro produzione aumenti in seguito all’esposizione di inquinanti tra cui IPA e PCBs. Per misurare i livelli di perossidazione lipidica il metodo più diffuso è quello che valuta la fomazione della malondialdeide (MDA), quale prodotto secondario del processo di perossidazione (Janero, 1990).

1.6.9. Alterazioni istopatologiche

L'esposizione a concentrazioni subletali di sostanze chimiche ambientali può portare ad alterazioni istologiche di un organo o tessuto che ne può compromettere significativamente la sua funzionalità. L’utilizzo di cambiamenti istopatologici come

biomarker ha il vantaggio di esaminare specifici organi bersaglio e di valutare la risposta

degli organismi ad effetti acuti e cronici indotti da inquinanti (Bernet et al., 1999; Au, 2004). Nei vertebrati, oltre al fegato, altri organi e tessuti possono essere oggetto di studio di biomarker istopatologici quali la pelle, l’apparato muscolo-scheletrico, il tratto gastro- intestinale, la milza, il rene, gli organi riproduttori ed il sistema nervoso.

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