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Le analisi relative alla presenza del plastificante DEHP e di alcuni POPs, effettuate sui campioni di PVC (nativo e marino) e nei mangimi (CTRL, MPV, MPI) hanno evidenziato la presenza di tutti i composti in entrambe le matrici. I dati relativi alle concentrazioni di ciascun contaminante sono riportati in tabella e sono espressi in ng/g rispettivamente per il DEHP in tabella 11 e per i POPs in tabella 12.

Tab.11. Concentrazioni del DEHP nei campioni di PVC e mangime. Matrice DEHP d.s. PVC nativo (ng/g) 1566,00 204,31 PVC marino (ng/g) 498,33 28,01 mangime CTRL (ng/g) 180,00 3,61 mangime MPV (ng/g) 186,33 6,43 mangime MPI (ng/g) 165,33 12,90

Tab.12. Concentrazioni dei OCs ed IPA nei campioni di PVC e mangime.

(ng/g p.s.) PVC nativo PVC marino mangime CTRL mangime MPV mangime MPI HCB 0,70 0,16 0,74 0,82 0,76 Σ PCBs 354,07 484,04 154,58 71,98 162,47 Σ IPA 1676,85 638,33 430,05 436,17 215,01 pp’DDE 34,06 39,73 71,62 58,18 77,05 pp’DDT 11,35 7,96 4,64 1,69 2,62 Σ DDT 79,40 67,55 92,30 74,84 93,36

Dai dati riportati in tabella 11 si evidenziano per la matrice plastica nativa (PVC) le concentrazioni più elevate del DEHP con valori di 1566,00 ng/g mentre risultano inferiori nei campioni di PVC marino (498,33 ng/g). Per quanto riguarda la matrice mangime, dai dati emerge che non ci sono differenze per i livelli di contaminazione da DEHP tra i tre trattamenti. Si evince inoltre che il pellet controllo pur non contenendo plastica risulta contaminato da DEHP come gli altri trattamenti.

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Relativamente alle concentrazioni dei POPs, eccetto che per la concentrazione di IPA totali nei campioni di PVC nativo (1676,85 ng/g) e marino (638,33 ng/g), non risultano differenze tra le due tipologie di plastiche ed i tre mangimi. I mangimi controllo (CTRL), infatti, sono contaminati allo stesso livello degli altri trattamenti (MPV, MPI).

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5.

DISCUSSIONI

Nell’ultimo decennio si è posta sempre più attenzione al problema delle plastiche in ambiente marino. Tale tematica ha suscitato l’interesse da parte del mondo della ricerca; molti studi pubblicati negli ultimi anni hanno affrontato diversi aspetti legati a questa tipologia di inquinamento focalizzandosi soprattutto sull’impatto delle microplastiche considerate contaminanti “emergenti”.

Il crescente interesse scientifico ha richiesto un continuo implemento nell’aggiornamento della letteratura esistente per migliorare la qualità dei risultati. Infatti, nel negli ultimi 3 anni (2013-2016) sono stati pubblicati circa 17.000 contributi sul marine litter e circa 2.000 specifici sulle microplastiche (Google scholar, 2016). Recentemente Deudero & Alomar, (2015) hanno inoltre evidenziato che in Mediterraneo, 134 specie di organismi marini appartenenti a diversi taxa sono stati segnalati per aver riportato interazione con il

plastic litter a diversi livelli.

Nonostante sia stato dimostrato che le plastiche sono ormai ubiquitarie in ambiente marino (Derraik, 2002; Andrady et al., 1989, 2011) cosí come nei contenuti stomacali di molti organismi a diversi livelli della catena trofica (Browne et al., 2008; Boerger et al., 2010; Cole et al., 2013; Lusher et al., 2013; Wright et al., 2013; Battaglia et al., 2015; Romeo et al., 2015a), ad oggi sono ancora molto discusse le teorie sull’effetto vettore della plastica e sul potenziale effetto ‘vettore-organismo’, ovvero le relazioni tra plastica e organismi viventi, uomo incluso (Syberg et al., 2015).

Numerosi studi suggeriscono che il costante utilizzo di plastica e la conseguente introduzione nell’ambiente marino, attraverso differenti vie, può rappresentare un vettore di esposizione a sostanze tossiche, costituendo un potenziale pericolo per gli organismi nonché per le specie ittiche (Cole et al., 2011; Fossi et al., 2012, 2014; Rochman et al., 2013, 2014) e per l’uomo quale consumatore finale (Galloway, 2015;Seltenrich, 2015).

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Rochman et al., (2013, 2014), riportano che l’esposizione cronica a polietilene (composto plastico di uso quotidiano maggiormente presente in ambiente marino), ha determinato in esemplari di Oryzias latipes stress epatico e anomala proliferazione di cellule germinali. Nello stesso tempo, altri studi hanno evidenziato che il ruolo della plastica nel veicolare contaminanti ambientali è trascurabile rispetto ad altre possibili vie di contaminazione in mare (Koelamns et al., 2013, 2014a; Herzke et al., 2015). Koelamns et al., (2014a,b) suggeriscono che sono necessari ulteriori studi per valutare l’effettivo ruolo della plastica come vettore di contaminati in ambiente marino, e soprattutto per testare la sua capacità di adsorbimento ed i tempi di lisciviazione in diversi ambienti ed in differenti condizioni ambientali.

Inoltre va anche considerato che l’ingestione di plastica ed in particolar modo di microplastiche (<5mm) ed il conseguente accumulo nell’apparato gastro-intestinale, può determinare un serio rischio per gli organismi a diversi livelli della catena trofica (detritivori, filtratori, carnivori), causando traumi meccanici e fisici. Wright et al., (2013), hanno evidenziato che la maggior parte degli studi effettuati ad oggi in mesocosmo hanno interessato gli invertebrati marini, i quali risultano molto sensibili all’impatto meccanico- fisico dovuto all’ingestione di microplastiche. Ed inoltre anche per molti vertebratisono state segnalate abrasioni interne e/o esterne, ulcere, blocchi del tratto digestivo e deterioramento fisico.

Da tale premessa, nasce l’esigenza di fornire nuovi strumenti ed input, necessari a chiarire ed approfondire il potenziale effetto vettore-organismo, ma soprattutto di analizzare gli aspetti relativi ad altri tipi d’impatto che le microplastiche possono avere sugli organismi marini, simulando su piccola scala una condizione simile a ciò che oggi sembra interessare tutto l’ecosistema marino. A tal fine è stato scelto come modello sperimentale,

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la spigola, una specie d’interesse commerciale, già ampiamente conosciuta e utilizzata in allevamento e soprattutto considerata un buon bioindicatore per gli studi ecotossicologici. Questo lavoro di tesi ha investigato la presenza di contaminanti persistenti ambientali (PCBs, HCB, DDTs,IPA) e del plastificante di-(2-etilesil) ftalato (DEHP) nei campioni di cloruro di polivinile (PVC) e nei mangimi prodotti. I risultati hanno confermato quanto riportato in letteratura relativamente alla ridotta capacità del PVC di adsorbire composti organici rispetto al polipropilene (PP) e polietilene (PE) (Teuten et al., 2007; Rochamn et al., 2013a). Infatti dalle analisi effettuate sulle plastiche native e marine non emergono differenze importanti riguardo le concentrazioni di POPs tra le due tipologie di PVC eccetto che per gli IPA. La concentrazione elevata degli IPA rilevata nel PVC nativo è probabilmente dovuta al fatto che tali composti pericolosi spesso si originano durante i processi di produzione delle plastiche come sottoprodotto; tali residui possono quindi rimanere nella plastica diventando uno degli ingredienti chimici (Lithner et al. 2011; Rochamn, 2015).

Nonostante il PVC sia un polimero caratterizzato da tassi di rilascio molto lenti (Teuten et al. 2009), la concentrazione del suddetto inquinante nel PVC marino è risultata invece, inaspettatamente di circa 1/3 più bassa rispetto ai valori riscontrati nel campione nativo. Probabilmente nei tre mesi di stabulazione, diversi fattori ambientali possono aver influenzato il meccanismo ed i tassi di desorbimento del PVC, oltre che il rilascio degli IPA che essendo dei composti idrofobici dovrebbero risultare molto resistenti ai processi di migrazione.

Va anche considerato che tre mesi di esposizione in mare delle plastiche native in un sito definito contaminato (area SIN) non hanno determinato un aumentosignificativo né dei livelli dei PCBs, né dei livelli degli altri OCs e IPA. Tale risultato può tuttavia essere legato al fatto che pur avendo scelto a priori un sito definito SIN, studi recenti

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(D’Alessandro et al., 2016) hanno rilevato che i livelli di contaminazione da POPs nello stesso sito di stabulazione della plastica sono alquanto bassi. Tale stato può pertanto avere influito sulle concentrazione rilevate nelle plastiche stabulate dopo tre mesi, visto che la capacità di adsorbimento della plastica in mare è strettamente dipendente dalle dimensioni e dalla tipologia di polimero ma soprattutto dal livello di contaminazione del sito in cui essa diventa un rifiuto marino (Rochman, 2015). Inoltre, è probabile che 3 mesi di stabulazione in mare, soprattutto per il PVC che adsorbe a livello della superficie polimerica (Karapanagioti & Klontza, 2008), non sono un tempo sufficiente per garantire un accumulo rilevabile di contaminanti quali PCBs ed IPA (Rochman, 2015).

E’ stato tuttavia confermato che il PVC contiene allo stato naturale elevate concentrazioni del di-(2-etilesil) ftalato (DEHP) (Lambert et al., 2014), poiché gli ftalati spesso rappresentano il 50% del peso totale del polimero (Lithner et al. 2011; Rochman, 2015). I valori ridotti di DEHP individuati nel PVC marino stabulato evidenziano la caratteristica delle plastiche di rilasciare ftalati (DEHP). Tali additivi, infatti, non sono chimicamente legati alla matrice polimerica in cui vengono integrati, e tendono quindi a migrare lentamente verso la superficie del prodotto e lisciviare o evaporare dalla plastica nell'ambiente circostante (Lambert et al., 2014).

Koelamns et al., (2014b) suggeriscono che rispetto all’importanza attribuita alle plastiche per il ruolo di vettori di contaminanti, il rilascio di additivi da parte delle plastiche in mare potrebbe rappresentare un pericolo maggiore dei meccanismi di adsorbimento in quanto via diretta di contaminazione sia nell’ambiente che per gli organismi stessi.

Nonostante i valori delle concentrazioni di POPs rilevati in tutti i mangimi rispettino i valori previsti dalla vigente normativa relativa alle sostanze indesiderabili nell’alimentazione degli animali (Direttiva 2002/32/CE del 7 maggio 2002), e’ di primaria importanza il risultato relativo alla presenza nel mangime controllo (ovvero

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senza aggiunta di materiale plastico) di concentrazioni di OCs, IPA e del DEHP, sicuramente da imputare alla presenza di olio di pesce e farina di pesce che sono noti per la presenza di elevate concentrazioni di POPs (Rochman et al., 2013b), mentre il processo di pellettatura può essere il responsabile della contaminazione da DEHP. Tale risultato necessita pertanto di un’attenzione nel monitoraggio di specie di allevamento e nello studio della qualità delle carni del prodotto allevato, attivando misure di correzione e di controllo nella preparazione dei mangimi soprattutto relativamente alla concentrazione degli ftalati. Infatti, per tali plastificanti, la normativa vigente dovrebbe essere implementata includendo anch’essi tra i composti da monitorare nella composizione dei mangimi.

Considerando che i contaminanti rappresentano un importante fattore di stress per gli organismi e che sulle microplastiche ad oggi, sono pochi gli studi che attestano l’effetto di vettore ma anche meccanico, è stato valutato lo stato di salute delle spigole esposte per 90 giorni al PVC nativo e marino utilizzando sia degli indici morfometrici (CF, HSI) che

biomarker a diversi livelli biologici (molecolare, subcellulare ed istologico). In

letteratura, tutti questi fattori, sono infatti, considerati indicatori dei potenziali effetti tossici di un’esposizione a sostanze tossiche e/o ad altri tipi di stress ambientali (Mayer et al., 1992; Pacheco & Santos, 2002). In particolare questo approccio rappresenta uno strumento vantaggioso e sensibile che ci ha permesso di valutare e misurare i possibili effetti subletali indotti da sostanze tossiche veicolate dal PVC ma anche potenziali danni meccanico-fisici nella spigola.

Trattandosi della prima sperimentazione nota in letteratura, molti dei risultati ottenuti sono risultati di difficile confronto e correlabili solo alle concentrazioni di POPs e del plastificante di-(2-etilesil) ftalato (DEHP) rilevate nei campioni di plastica. Ma ciò non

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esclude che le plastiche possano aver adsorbito altri contaminanti che ad oggi per diversi motivi non sono stati ancora investigati.

Una valutazione di primo livello è stata quindi effettuata utilizzando gli indici CF ed HSI, parametri generici e poco sensibili (poiché facilmente influenzabili da fattori non inquinanti come le stagioni, patalogie e apporto nutrizionale) ma considerati necessari nella fase di screening dei biomarker. Tali parametri sono facilmente misurabili e nello specifico forniscono indicazioni sullo stato di salute generale dei pesci, sulle relative condizioni del fegato e delle riserve energetiche (Mayer et al., 1992; Ameur et al., 2012). I risultati relativi al fattore di condizione (FC), pur mantenedosi entro il valore limite di 1, ovvero il valore di riferimento per un esemplare in buono stato di salute (LIoret et al., 2014), hanno comunque mostrato dei valori leggermente ridotti di FC rispetto ai dati presenti in letteratura nell’area del Mediterraneo per questa specie in allevamento, di cui si riportano valori pari a 1,32 g/cm3 per valori medi di peso e lunghezza rispettivamente

di 253,3 g e 26,7 cm (Coz-Rakovac et al., 2005), e 1,9g/cm3 per valori medi di peso e

lunghezza rispettivamente di 323,7 g e 25,5 cm (Manera et al., 2003).

La riduzione del FC rilevata nei trattamenti alimentati con PVC nativo e marino (MPV, MPI) dopo 60 giorni e per il gruppo MPV a 90 giorni di esposizione rispetto ai relativi gruppi di controllo, può essere attribuita ad alterazioni del metabolismo epatico e/o al ridotto apporto disostanze nutritive per l’esposizione a PVC con conseguente utilizzo del grasso di riserva. Nel primo caso ciò può avere inciso sulla variazione delle dimensioni e stato di salute del fegato, mentre nel secondo caso ciò è testimoniato dalla riduzione (in alcuni casi molto evidente) del grasso periviscerale osservata macroscopicamente dopo 90 giorni di esposizione in molte spigole. Per animali di piccole dimensioni (<500 g), infatti, anche una piccola variazione di peso di ciascun tessuto/organo può incidere sul peso totale dell’esemplare, alterando pertanto il valore del CF.

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Riguardo l’indice epatosomatico (HSI), i valori osservati nelle spigole durante la sperimentazione sono in linea con i dati di HSI presenti in letteratura per la spigola, eccetto che per le spigole alimentate con PVC nativo e marino (MPV, MPI) per 90 giorni, i cui valori osservati sono più bassi. Manera et al., (2003) infatti hanno osservato valori medi di HSI in spigole allevate corrispondenti a 2,7 per peso medio totale di 323,7 g e peso medio del fegato di 8,6 g. Inoltre, Peres & Oliva-Teles, (1999), riportano che i valori normali di HSI per giovanili di spigola sono tra 1,64 e 2,8.

I valori ridotti di HSI osservati nei rispettivi trattamenti MPV ed MPI a 90 giorni di esposizione rispetto al gruppo di controllo, insieme ai valori ridotti del CF a 60 giorni per entrambi i gurppi ed a 90 solo per il trattamento MPV possono essere associati ad una perdita di energia ascrivibile ad una serie di fattori avversi, tra cui l’esposizione a contaminanti veicolate dalle plastiche.

Norris et al., (2000), infatti, riportano che l’esposizione ad alcuni contaminanti come i metalli pesanti può determinare nelle specie ittiche una riduzione dell’HSI rispetto al gruppo controllo.

Ma è anche stato osservato da Ferreira et al., (2010) che nelle spigole allevate entrambi gli indici morfometrici (CF e HSI) tendono a diminuire all’aumento del peso e quindi della taglia degli esemplari stessi; ciò non è in linea con quanto osservato durante i 90 giorni di sperimentazione per il fattore di condizione CF mentre sembra rispecchiare l’andamento del HSI.

Si evince inoltre che l’incremento ponderale di ciascun gruppo di esemplari per trattamento è stato in linea con quanto previsto dai regimi nutrizionali del mangime somministrato (circa 30 g). Per tale motivo possiamo affermare che 90 giorni di esposizione al PVC non sono un intervallo di tempo sufficiente per poter interferire con i processi di crescita di una specie ittica.

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Considerando che la spigola rappresenta una specie altamente sensibile agli effetti genotossici indotti da contaminanti come IPA (Gravato & Santos 2002, 2003), è stata valutata la frequenza totale delle anomalie nucleari degli eritrociti maturi (ENA assay). Tale biomarker di genotossicità è molto sensibile e rappresenta uno strumento specifico, indicatore di un danno al DNA.

I contaminanti, infatti, possono determinare alterazioni a livello del DNA, creando anche in determinati casi dei danni irreversibili; per tale motivo oltre alla frequanza delle anomalie nucleari è stata valutata la frequenza dei micronuclei in quanto indicatori indiretti di aberrazioni cromosomiche strutturali e numeriche.

Durante la sperimentazione, ad ogni tempo d’esposizione è stato osservato un andamento pressocchè uguale della frequenza totale delle anomalie nucleari dei gruppi sperimentali rispetto ai relativi controlli. Ciò può significare che un’esposizione prolungata al PVC nativo e marino ha determinato una risposta dose-effetto rapida a livello genotossico che però si è mantenuta pressochè costante per tutta la durata della sperimentazione. Tale andamento, che si è manifestato con un discreto aumento dell’ENA nei gruppi sperimentali rispetto ai relativi controlli (a 30 e 60 giorni senza differenze significative, mentre a 90 con differenze significative con il controllo), può attestare che seppur limitato, l’effetto genotossico delle plastiche si è verificato già dopo 30 giorni di esposizione.

Però il fatto che i valori di ENA più alti siano stati riscontrati sempre nei gruppi MPI e che a 90 giorni di esposizione tale gruppo abbia mostrato differenze altamente significative rispetto al gruppo controllo, può confermare che nonostante i risultati ottenuti dalle analisi chimiche sul PVC e mangimi, il trattamento MPI favorisce una risposta dose-effetto rispetto al gruppo MPV.

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Anche in questo caso i valori osservati per il biomarker ENA per tutti i trattamenti sono risultati molto bassi rispetto ai dati presenti in letteratura per specie ittiche esposte a contaminanti (Gravato & Santos 2002,2003; Pacheco & Santos, 2002).

Le frequenze dei micronuclei sebbene siano state rilevate nel gruppo MPI a 60 giorni di esposizione ed in entrambi i gruppi (MPV, MPI) dopo 90 giorni in accordo con i dati osservati per ENA, sono comunque risultate estremamente basse. Ciò suggerisce che 90 giorni di esposizione alle microplastiche è comunque da ritenersi un periodo limitato per crare danni irreversibili nel DNA.

L’induzione del complesso delle monossigenasi a funzione mista (principale sistema multienziamtico coinvolto nella fase I di biotrasformazione) è stata misurata come attività etossiresorufina-O-deetilasi (EROD). L’attività EROD nei pesci rappresenta un

biomarker molto sensibile in quanto tale enzima viene indotto anche dalla presenza di

bassi livelli di contaminanti (Billiard et al., 2004).

Dai risultati ottenuti per l’attività EROD misurata nel fegato di spigole alimentate con PVC nativo e marino, è emerso che l'attività non è stata indotta rispetto ai gruppi di controllo in nessun trattamento a nessun tempo di esposizione.

Ciò potrebbe essere in accordo con quanto riportato anche da Rochman et al., (2013b), ovvero che i medaka (O. latipes) nonostante siano stati esposti per due mesi ad un mix di sostanze tossiche veicolate dal polietilene a bassa densità (LDPE) nativo e marino, non hanno mostrato differenze significative tra i gruppi sperimentali ed i controlli.

Da altri studi relativi all’esposizione della specie D. labrax a vari contaminanti emerge, inoltre, che l’attività EROD in alcuni casi può essere semplicemente inattivata dopo un determinato periodo da alcuni induttori di sintesi come gli IPA (Gravato & Santos, 2002; Gravato & Santos, 2003) o del tutto inibita dall’elevata concentrazioni di determinati contaminanti (Hahn et al., 1993; Gravato & Santos, 2003).

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E’ importante sottolineare che comunque i livelli epatici dell’attività EROD ottenuti da queste analisi sono da considerarsi in tutti i gruppi molto bassi rispetto ai dati presenti in letteratura per i pesci esposti a contaminanti come i PCBs ed IPA (Fonseca et al., 2011; Behrens & Segner, 2005). Cio’ potrebbe essere una conseguenza dei bassi livelli dei contaminanti OCs ed IPA rilevati nei campioni di PVC utilizzati durante la sperimentazione.

Molti inquinanti tra cui i POPs o loro metaboliti possono esercitare tossicità correlata allo stress ossidativo. Lo stress ossidativo è stato anche identificato come il meccanismo fondamentale di tossicità per esposizione a ftalati in particolar modo ad di-(2-etilesil) ftalato (DEHP) (Mankidy et al., 2013). Inoltre la perossidazione lipidica, è stata osservata in organismi esposti al DEHP (Magdouli et al., 2013).

Sono stati misurati quindi, i livelli di perossidazione lipidica, in quanto indicatore di stress ossidativo a livello cellulare (Storey, 1996), in spigole alimentate con PVC nativo e marino. I risultati hanno rilevato che le concentrazioni dei POPs, del plastificante (nonostante le sue elevate concentrazioni nel PVC nativo) e degli altri possibili contaminanti veicolati dalle microplastiche ingerite non sono sufficientemente elevate per determinare danno ossidativo a livello epatico.

Ad eccezione del periodo di esposizione a 30 giorni nel quale entrambi i gruppi sperimentali presentavano valori medi più bassi del controllo, il gruppo MPI ha presentato sempre valori medi di LPO maggiori rispetto al gruppo controllo, anche se le differenze non sono mai risultate significative. Tale risultato potrebbe essere una conseguenza dei primi effetti del cocktail di sostanze tossiche che generalmente caratterizzano le plastiche stabulate, e che in questa sperimentazione non sono state tutte indagate.

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I livelli di LPO misurati in tutti i gruppi sono da considerarsi molto bassi se comparati con alcuni dati presenti in letteratura per questa specie esposta a pesticidi (Alemida et al., 2010). Ma nello stesso tempo altrettanti lavori riportano valori tendenzialmente bassi di LPO per pesci esposti a diversi contaminanti tra cui metalli pesanti IPA ed insetticidi (Monteiro et al., 2006; Fonseca et al., 2011).

L’esposizione a contaminanti ambientali può portare a cambiamenti ultrastrutturali a livello cellulare ma può anche interessare i tessuti e gli organi stessi, alterandone significativamente la funzione (Bernet et al., 1999). Per tale motivo le indagini istologiche possono essere considerate un biomarker primario di esposizione a contaminati che ha il vantaggio di esaminare specifici organi bersaglio e di rilevare effetti infiammatori sia acuti che cronici (Bernet et al., 1999; Au, 2004). Il fegato rappresenta un importante organo poiché svolge funzioni vitali per l’organismo tra cui regolazione dei processi metabolici, immagazzinamento di risorse energetiche, nonché un organo che gioca un ruolo fondamentale nei processi di detossificazione e biotrasfromazione di POPs e di altre sostanze ritenute tossiche all’organismo (Health et al., 1995). La scelta di utilizzare il fegato quale organo bersaglio su cui effettuare indagini istologiche e morfometriche è stata determinata dal fatto che nei pesci esso rappresenta un organo molto sensibile all’esposizione di contaminanti poiché riesce ad accumulare tali sostanze a concentrazioni più elevate di altri organi (Health et al., 1995).

Tutte le spigole analizzate durante l’indagine istologica sono risultate caratterizzate da fegati fortemente steatosici. Tale quadro istologico del fegato è riportato in letteratura per le specie allevate, come conseguenza di un alimentazione a base di mangimi commerciali

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