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La produzione di sostanze sintetiche e la loro immissione nell’ambiente, rappresenta un problema crescente che ha assunto nell’ultimo millennio livelli preoccupanti. L’incremento delle attività antropiche tra cui lo sviluppo industriale, la produzione di

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energia, l’agricoltura intensiva, le attività di trasporto e ricreative hanno infatti determinato notevoli alterazioni ambientali.

Tutti gli organismi viventi risultano esposti a diversi livelli e tipologie di composti estranei all’organismo, denominati “xenobiotici”, la cui caratteristica è di possedere una struttura chimica differente da quella delle molecole naturali.

Tali sostanze possono essere di orgine naturale o sintetica, e si stima che fino ad oggi siano stati prodotti dall’industria chimica più di 100.000 composti di sintesi.

Da un punto di vista tossicologico nell’ambiente possiamo distinguere diverse classi di inquinanti:

• microinquinanti organici (pesticidi, PCB, IPA, fenoli, diossine ed idrocarburi); • alcune specie ioniche (nitriti, nitrati, fosfati, ioni ammonio, cloruri, floruri e solfati); • gli elementi minerali (macro-oligo-micro elementi) tra i quali rientrano i metalli pesanti;

Purtroppo i composti di sintesi rappresentano la classe più ampia e che maggiormente preoccupa. Le loro concentrazioni ambientali non sono molto elevate se paragonate ai composti organici di origine naturale ma, diversamente da questi risultano nocive a basse concentrazioni (microinquinanti organici).Queste molecole xenobiotiche possono infatti persistere nel comparto ambientale nel quale permagono, poiché si degradano molto lentamente. Alcune di queste, persistono quindi per decenni, ed una volta nell’ambiente possono essere trasportate a molti chilometri di distanza dal punto di immissione attraverso fenomeni di circolazione aerea ed acquatica “Long Range Transport” ed arrivare anche in ambienti remoti (Corsolini et al., 2002). Altri di questi composti, invece, non permangono molto nella biosfera e la loro pericolosità è limitata al luogo di immissione, poiché perdono le loro proprietà una volta raggiunto il comparto acqua.

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Inoltre, la pericolosità di tali sostanze è dovuta anche alla loro capacità di legarsi alla materia organica e, in particolare, ai tessuti grassi (liposolubilità), ciò ne determina un accumulo negli organismi (bioconcentrazione) ed in seguito al fenomeno di biomagnificazione il trasferimento lungo la catena alimentare (Kelly et al., 2007).

Alcuni dei composti xenobiotici tra cuigli insetticidi organoclorurati e organofosforici, i policlorobifenili (PCBs), le diossine, ftalati, furani, vernici antifouling, sono stati individuati quali importanti Endocrine Disruptors Compounds (EDCs) o Interferenti Endocrini, poiché capaci di alterare, a vari livelli e con meccanismi diversi, la normale regolazione ormonale degli organismi. Tali composti, costituiscono un pericolo per la salvaguardia della biodiversità ed indirettamente anche per l’uomo (Tyler et al., 1998; Vos et al., 2000).

1.5.1. Inquinanti e ambiente marino

La presenza di inquinanti nell’ambiente marino, è quindi lagata principalmente all’attività antropica e diverse possono essere le vie di immissione di tali composti.

I contaminanti presenti negli oceani possono essere di origine naturale come nel caso delle tossine prodotte da organismi marini, dei metalli organici ed inorganici oppure sono prodotti di sintesi. Tra queste sostanze le più comuni che possiamo ritrovare in ambiente marino sono appunto gli idrocarburi riversati accidentalmente dalle petroliere in seguito ad incidenti (caso di inquinamento acuto), gli idrocarburi derivati dalla combustione, i pesticidi clorurati ed i composti organoalogenati scaricati da industrie, impianti zootecnici ed agricoli (inquinamento cronico).

La loro distribuzione nell’ambiente marino è influenzata da diversi fenomeni che ne determinano una diffusione anche in aree lontane dalle fonti di immissione.

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Inoltre grazie alla liposolubilità, i composti xenobiotici entrano nella catena trofica sia per diffusione attraverso le membrane che in seguito al fenomeno di ingestione, e si accummulano lungo la catena alimentare, soprattutto a livello dei predatori di vertice (Aguilar & Borrell, 1994; Aguilar et al., 2002; Fossi et al., 2006). Infatti, i consumatori che si inseriscono a vari livelli della catena alimentare sono soggetti ad accumulare tali sostanze tossiche in quantità sempre maggiori quanto più alto è il livello che essi occupano, e ciò rappresenta un potenziale pericolo non solo per gli organismi marini, ma anche per l’uomo, in quanto consumatore finale (Ross & Birnbaum, 2003). Diversi studi hanno investigato l’impatto di tali sostanze nei confronti di organismi marini evidenziando la pericolosità dovuta al loro accumulo lungo la catena trofica, e soprattutto sulla loro capacità di fungere da Interferenti Endocrini (Geyer at al., 2000; Porte et al., 2006).

1.5.2. Additivi plastici

Gli additivi plastici sono sostanze chimiche che vengono integrate alla struttura porosa tridimensionale dei polimeri durante la manifattura, al fine di potenziarne le caratteristiche. Numerosi additivi vengono quindi impiegati per valorizzare le proprietà naturali dei diversi tipi di plastica, per ammorbidirli, colorarli, renderli più processabili o più durevoli.

Questi additivi possono essere rilasciati nell'ambiente durante il processo di fabbricazione, durante il ciclo vitale della plastica e durante le successive fasi di degradazione a cui va incontro la plastica stessa. Il grado di lisciviazione dipende dal diametro dei pori della matrice polimerica, che varia in base al tipo di polimero, dalla quantità e proprietà (basso peso molecolare) dell'additivo ed infine dalle condizioni ambientali (Teuten et al., 2009). Infatti gli additivi dal basso peso molecolare si muovono

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più facilmente attraverso la matrice di un polimero. Diversi studi effettuati hanno rilevato la presenza di tali sostanze nell’ambiente riportando concentrazioni comprese tra ng/L a mg/L (Lambert et al., 2014).

Tra questi i più comuni e soprattutto i più pericolosi per l’ambiente includono prodotti chimici come gli ftalati, i ritardanti di fiamma bromurati (BFR) ed il bisfenolo A (BPA). Plastificanti, altri additivi plastici e residui di monomeri in quanto sostanze tossiche e pericolose rappresentano una potenziale minaccia per l’ambiente, poiché possono lisciviare dalla matrice polimerica nell’ambiente stesso (Teuten et al., 2009).

1.5.3. Ftalati e ambiente marino

Gli ftalati, sono esteri dell'acido ftalico utilizzati principalmente per migliorare la plasticità di polimeri industriali e per questo impiegati per la produzione di un certo numero di prodotti come giocattoli, vernici, adesivi, lubrificanti, materiale d'imballaggio e per la costruzione, nel campo dell’elettronica, e per i dispositivi medici (Mankidy et al., 2013).

Gli esteri dell’acido ftalico sono infatti, ampiamente utilizzati in tutto il mondo e rappresentano il 69% dei plastificanti utilizzati negli Stati Uniti, il 92% nell’Europa Occidentale e l’81% in Giappone. Nel complesso, essi rappresentano l'82% dei 2,5 milioni di tonnellate di plastificante utilizzato in queste aree. Come conseguenza del loro ampio utilizzo, sono tra le più abbondanti sostanze chimiche presenti nell'ambiente (Stringer et al., 2000).

Tali additivi non sono chimicamente legati alla resina polimerica in cui vengono integrati, tendono quindi a migrare lentamente verso la superficie del prodotto e lisciviare o evaporare dal prodotto verso l'ambiente circostante (Lambert et al., 2014). La struttura e

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le proprietà fisiche variano tra gli ftalati, influenzando il loro comportamento nell’ambiente (Mankidy et al., 2013).

Gli ftalati non sono classificati come composti persistenti (Staples et al., 1997), ma sono stati descritti come una delle sostanze chimiche più abbondante e ubiquitaria nell'ambiente e di conseguenza rilevate anche nell’uomo, nonostante le diverse teorie riguardo la loro rapida biodegradazione in alcuni ambienti (Oehlmann et al., 2009). Residui di alcuni ftalati sono stati infatti individuati in più comparti ambientali: acque superficiali, sedimenti fluviali, fanghi di depurazione, acque reflue effluenti trattate e non, nell'acqua piovana e nei suoli agricoli (Lambert et al., 2014). Nell’uomo sono stati rilevati nel sangue, urine, saliva, liquido amniotico, latte materno e nel cordone (Mankidy et al., 2013).

Grazie alla loro idrofobicità, possiedono un discreto potenziale di bioaccumulo. Ftalati con basso peso molecolare, come dietil ftalato (DEP) hanno un fattore di bioaccumulo (BAF) elevato, mentre gli ftalati con elevato peso molcolare tra cui il di-(2-etil esil) ftalato (DEHP) tendono ad avere minori BAF (Staples et al., 1997). Tali fattori di bioconcentrazione (BCF) per plastificanti, differiscono ampiamente tra le specie. Alcune di queste differenze riguardano il tipo e la natura dei plastificanti, ma altri riguardano le differenze nei disegni sperimentali impiegati, le concentrazioni utilizzate, le caratteristiche delle specie ed il tipo di tessuto esaminati. Infatti fattori di bioconcentrazione riportati in organismi invertebrati sono generalmente più alti rispetto a quelli di vertebrati (Oehlmann et al., 2009).

Diverse indagini sui meccanismi d'azione dei plastificanti sottolineano come gli ftalati possono avere più siti di interazione in un organismo, che interessano una vasta gamma di processi biologici e che possono indurre già effetti biologici negativi nel range di concentrazione tra i ng/l-µg/l (Oehlmann et al., 2009).

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In ambiente marino, la loro presenza è stata rilevata in diversi comparti (Magdouli et al., 2013; Mankidy et al., 2013), e soprattutto a diversi livelli della catena trofica, dallo zooplancton fino ai livelli più alti della catena alimentare (Fossi et al., 2012; 2014). In particolare molti studi si sono concentrati sul di-(2-etilesil) ftalato (DEHP) che rappresenta lo ftalato più abbondante nell'ambiente; sia in organismi invertebrati che vertebrati, che viene rapidamente metabolizzato nel suo metabolita primario, il mono-(2- etilesil) ftalato (MEHP), che può essere utilizzato come indicatore di esposizione al DEHP negli organismi (Fossi et al., 2012; Magdouli et al., 2013; Andrady et al., 2015). Nonostante un certo numero di studi etichetti gli ftalati come sostanze che non persistono nell'ambiente (Staples et al., 1997) e che mostrano molta poca tendenza al bioaccumulo (Gobas et al., 2003), non si può non considerare che il loro elevato tasso di sintesi potrebbe sostituire il tasso naturale di rimozione e degradazione, favorendo un eventuale accumulo di queste sostanze chimiche nell'ambiente e quindi negli organismi, incluso l’uomo.

Gli ftalati sono stati indicati quali uno dei principali contaminanti emergenti (EC) che oltre ad essere ormai ubiquitari nell’ambiente, alterano diversi processi biochimici negli esseri umani e fauna selvatica. Questi includono effetti sulla riproduzione, sullo sviluppo neurologico ed allergie. Poichè gli esseri umani e gli organismi possono essere esposti contemporaneamente a più ftalati, qualsiasi valutazione sui loro rischi non può prescindere dagli effetti combinati di tali plastificanti e dalle rispettive concentrazioni (Magdouli et al., 2013; Mankidy et al., 2013).

1.5.4. Inquinanti organici persistenti (POPs)

Con il nome di POPs (persistent organic pollutants) o inquinanti organici persistenti vengono considerate tutte le sostanze chimiche a base di carbonio che presentano come

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caratteristiche principali la persistenza nell’ambiente per lunghi periodi (in quanto resistenti ai processi di degradazione chimica, biologica, fotochimica) e la capacità di accumularsi nei tessuti adiposi degli organismi compreso l’uomo (Spezzano, 2004). Inoltre essendo anche composti semivolatili, possono essere facilmente trasportati attraverso fenomeni di circolazione aerea ed acquatica “Long Range Transport” anche in aree in cui non sono utilizzati o prodotti rappresentando un serio pericolo sia in ambiente marino che terrestre (Spezzano, 2004; Abdallah, 2015). Si distinguono dagli altri composti organici per quattro caratteristiche fondamentali: persistenza, bioaccumulo, tossicità e mobilità nell’ambiente (Spezzano, 2004).

Tra i POPs più pericolosi, sono state individuate 12 molecole, 9 tipi di pesticidi e 3 tipologie di prodotti industriali tra cui i policlorobifenili (PCB), le policlorodibenzodiossine (PCDD) ed i policlorodibenzofurani (PCDF).

Tali composti sono orma stati banditi o comunque sono state attuate restrinzioni soprattutto dopo la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development), tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, durante la quale gli stati di tutto il mondo si riunirono per affrontare la questione riguardo la salvaguardia dell’ambiente e per far maturare nei Paesi industrializzati la consapevolezza di dover prevenire con maggior determinazione i fenomeni di inquinamento e nello stesso tempo fornire strumenti di gestione e controllo per mitigare gli impatti. Purtroppo i passi avanti fatti in questo senso nell’ambito dello sviluppo sostenibile non sono risultati sufficienti e ciò è stato confermato successivamente durante il summit mondiale sullo Sviluppo Sostenibile (WSSD, World Summit on Sustainable Development) tenutosi a Johannesburg nel 2002. Inoltre, con la Convenzione di Stoccolma entrata in vigore nel 2004, a cui hanno aderito 150 paesi inclusii paesi dell’Unione Europea, è stata ridotta o vietata la produzione, l’impiego e/o il

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rilascio di 12 POPs in quanto ritenuti molto pericolosi per l’ambiente e l’uomo (Abdallah, 2015). E’ stato riportato che i POPs possono causare disfunzioni del sistema immunitario, disturbi nella riproduzione, disordini neurologici e anomalie comportamentali (ATSDR, 2003), e in alcuni casi possono essere anche mutageni e cancerogeni (Spezzano, 2004). Tutt’oggi tali sostanze a causa della loro persistenza e della loro diffusione ormai a livello globale rappresentano un pericolo per l’ambiente e per gli organismi che lo popolano.

1.5.5. POPs e ambiente marino

A causa delle loro caratteristiche (persistenza, liposolubilità, tossicità e diffusione ad ampio raggio) i POPs sono ubiquitari in ambiente marino con conseguente contaminazione anche in aree remote (Corsolini et al., 2002). Molti studi infatti, riportano la presenza di tali in composti in diverse aree e conseguentemente in molti organismi marini a differenti livelli trofici (Meador et al., 1995; Baumard et al., 1998; Marsili & Focardi, 1997; Marsili et al., 1997; Fossi et al., 2006, 2014; Pinzone et al., 2015; Bonito et al., 2016). Il comportamento dei POPs nell’ambiente appare molto complesso, poiché essendo dei composti ubiquitari e caratterizzati da facile motilità nell’ambiente caratterizzano diversi comparti che interagiscono tra di loro (Spezzano, 2004). Negli ambienti acquatici i POPs sono motivo di forte preoccupazione, poichè vanno in contro a processi di scambio con i sedimenti oppure possono essere rilasciati nell’atmosfera (Spezzano, 2004). Inoltre i POPs a causa della loro idrofobicità, presentano una notevole affinità per il particolato organico e la loro permanenza nell’ambiente può essere influenzata da diversi fattori tra cui i livelli di adsorbimento e il peso molecolare. Quando tali composti raggiungono il comparto marino tendono a distribuirsi lungo la colonna d’acqua in base al loro peso molecolare. I composti a basso peso molecolare rimangono in superficie, dove possono essere rilasciati nell’atmosfera oppure essere adsorbiti dal

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particolato, poi pian piano tendono a depositarsi nei sedimenti, i composti con un peso molecolare elevato, invece, scendono in profondità, dove si accumulano essendo adsorbiti dai sedimenti nei fondali marini. Sia il particolato organico che i sedimenti costituiscono una potenziale fonte di nutrimento per organismi bentonici, tali sostanze entrano cosi’ in seguito a fenomeni di bioaccumulo e di biomagnificazione nella catena alimentare (Meador et al., 1995; Björk & Gilek, 1997; Baumard et al., 1998; Muccio et al., 2002). La maggiore fonte di questi composti persistenti è attualmente rappresentata proprio dal ricircolo dei composti dal sedimento e il loro conseguente accumulo nel tessuto adiposo degli organismi acquatici. Ciò è particolarmente allarmante per i periodi estremamente lunghi di rilascio di tali composti dai sedimenti, che protraggono la problematica nel tempo, e per il fatto che l’esposizione umana ai contaminati è strettamente correlata al consumo di pesce in particolar modo ai pesci grassi (Tsutsumi et al., 2001).

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