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Per il seguente studio sull'analisi narratologica, il modello di partenza sarà quello elaborato da Genette, in particolare nel suo testo di riferimento Figure III.

Gli elementi sui quali verte la sua opera sono: il tempo del racconto, in relazione al concetto di “doppia temporalità”, che si basa sul confronto fra il tempo della storia e il

tempo del discorso; il modo, che comprende la distanza, quindi, la distinzione fra

“racconto puro” , “racconto mimetico” e “racconto misto”; le diverse strategie dell'informazione narrativa che si strutturano sopratutto a partire dalla focalizzazione; infine, la voce, identificabile come l'istanza narrante, con le sue diverse articolazioni in “tempo della narrazione”, “livello” e “funzioni del narratore”.

Di seguito approfondirò i concetti sopracitati e, come effettuato nei precedenti capitoli, li applicherò al mio testo di riferimento, Semplice.

* * *

In Discorso del racconto (1972) Genette individua tre diverse nozioni corrispondenti al termine “racconto”.

Il discorso narrativo è l'enunciato a cui Genette riserva la definizione di racconto tout court. Designa l'enunciato narrativo, il discorso orale o scritto e assume la connotazione di un avvenimento (o di una serie d'avvenimenti).

La storia corrisponde al racconto come contenuto narrativo, l'insieme di azioni e di

situazioni, reali o fittizie, che formano l'oggetto del discorso, e le loro varie relazioni di concatenamento. In questo caso, l'analisi del racconto significherà allora lo studio di un insieme di azioni e di avvenimenti a prescindere dal medium linguistico sul quale si basano.

Il racconto è il modo in cui sono concatenati e narrati gli eventi della storia, è la messa in intreccio.

Infine, la narrazione, intesa come atto di enunciazione. Il prodotto di quest'ultimo è il racconto in qualità di discorso, esattamente come qualunque enunciato è il prodotto di un atto di enunciazione. Questo terzo “senso di racconto” risulta essere il più antico e designa ancora una volta un avvenimento: non più, però, l'avvenimento narrato, bensì consistente nel fatto che qualcuno racconta qualcosa: rappresenta l'atto di narrare in sé stesso. Raccontare viene considerata come un'azione vera a propria poiché senza atto narrativo non può esistere nessun enunciato.

L'analisi del discorso narrativo implica da un lato lo studio delle relazioni fra quest'ultimo e gli avvenimenti a cui esso si riferisce (senso 2 del racconto), d'altro lato quello delle relazioni fra il medesimo discorso e l'atto che lo produce nella realtà (Omero) o nella finzione (Ulisse): senso 3 del racconto66.

Genette ritiene che fra i tre livelli precedentemente descritti, quello relativo al discorso narrativo sia l'unico veramente pertinente all'analisi testuale.

In questo caso, considera il racconto come lo sviluppo di una forma verbale elementare, nel senso grammaticale del temine: l'espansione di un verbo.

66 Gérard Genette, Figure III, Discorso del racconto, Piccola Biblioteca Einaudi. Saggistica letterarie e linguistica, Giulio Einaudi editore, Torino, 2006; pag. 75.

Sostiene che da una parte vi sono le forme minimali di racconto e dall'altra, ad esempio, l'Odissea si limita in fondo ad amplificare un enunciato quale: Ulisse torna a Itaca67.

Questo assunto lo autorizza a trattare l'analisi del discorso narrativo secondo categorie derivate dalla grammatica del verbo, facendo quindi riferimento alle tre classi fondamentali di determinazioni: quelle dipendenti dalle relazioni temporali fra racconto e diegesi, classificate nella categoria del tempo; quelle dipendenti dalla distanza e dalla prospettiva, e quindi i modi del racconto; infine, quelle dipendenti dalla situazione o dall'istanza narrativa: il narratore e il suo destinatario (reale o virtuale). Come vedremo, il termine usato in quest'ultimo caso da Genette è quello di voce.

Il tempo e il modo intervengo entrambi sul rapporto fra la storia e il racconto, mentre la voce riguarda sia i rapporti fra narrazione e racconto, sia quelli fra narrazione e storia.

Il “tempo del racconto”.

“Il racconto è una sequenza doppiamente temporale: vi è il tempo della cosa racontata e il

tempo del racconto (tempo del significato e tempo del significate). Dualità che non solo rende possibili tutte le distorsioni temmporali più facilmente rilevabili del racconto (tre anni della vita del protagonista riassunti da un romanzo in tre frasi, o in alcuni piani di un montaggio cinematografico [...]); ma, in modo più fondamentale, essa ci invita anche a constatare che una delle funzioni del racconto è di far fruttare un tempo in un altro tempo”68.

L'analisi che Genette compie del “tempo del racconto” si basa sull'esistenza di una “doppia temporalità”: quella inerente il discorso (come i fatti vengono raccontati nel testo, che

67 Ivi; pag.78.

68 Christian Metz, Essais sur la signification au cinema, Klincksieck, Paris 1968. In: Gérard Genette, Figure III. cit. pag. 81.

Genette definisce come uno “pseudo-tempo”) e quella appartenente alla storia.

È una distinzione che il cinema rende particolarmente percepibile, attraverso il gioco dei flashback e dei flashforward, e delle contrazioni o dilatazioni temporali prodotte dal montaggio. In ogni caso, non è esclusiva del cinema.

Studiare e classificare le forme del tempo del racconto significa studiare le relazioni fra tempo della storia e lo pseudo-tempo del racconto, secondo le loro tre determinazioni: i rapporti fra l'ordine temporale della successione degli avvenimenti e l'ordine pseudo- temporale della loro disposizione nel racconto; i rapporti fra la durata di tali avvenimenti e la relativa pseudo-durata nel racconto (rapporti, quindi, di velocità); infine, i rapporti di

frequenza, cioè, la relazione fra la ripetizione degli avvenimenti nella storia e nel racconto.

3.1 Ordine.

La categoria analizzabile sotto il termine di “ordine” riguarda le modalità di esposizione degli avvenimenti nel racconto, confrontate con l'ordine della storia69.

Sulla base di quanto stabilito, può essere suddiviso in tre diverse tipologie:

a) Naturale: l'ordine di esposizione dei fatti nel racconto coincide con l'ordine dei fatti

nella storia, così come lo ricostruisce il lettore (o lo spettatore).

b) Anacronico: si utilizza il termine generale di anacronia per indicare tutte le forme di

discordanza fra i due ordini temporali.

Il reperimento e la misura delle anacronie narrative definiscono, come conseguenza, l'esistenza di un “grado zero”, identificabile come uno stato di perfetta coincidenza temporale fra racconto e storia.

Si identifica come “racconto primo” il livello temporale rispetto al quale l'anacronia si inserisce come tale, anacronia che a sua volta può essere racconto primo di un'ulteriore anacronia ad essa subordinata.

Qualcunque anacronia implica quindi, rispetto al racconto in cui si inserisce, un racconto secondo che, dal punto di vista temporale, è subordinato al primo in una sorta di sintassi narrativa70.

L'ordine della storia può essere alterato come conseguenza data da due diverse tipologie di anacronia:

analessi: salto all'indietro rispetto al punto nel quale è arrivata la storia fino a quel

momento. Qualsiasi evocazione, a fatti compiuti, di un evento anteriore al punto della storia in cui ci si trova. In base alla loro fonte (narratore eterodiegetico o omodiegetico), si distinguono in “oggettive” o “soggettive”.

Prolessi: consiste nel raccontare o evocare in anticipo un evento ulteriore, si tratta

quindi di salti in avanti rispetto al punto nel quale era arrivata la storia.

L'anticipazione, o prolessi temporale, è meno frequente rispetto alla figura opposta, sopratutto nel racconto classico, dove si tende a mantenere un certo ordine narrativo. L'inserimento stesso della suspense non giustifica sempre questo genere di pratica, poiché nella narrazione tradizionale si fa in modo che il personaggio (insieme al lettore/spettatore) scopra ciò che gli accadrà nello stesso momento in cui lo racconta71.

Al contrario, il cosiddetto “cinema moderno” è più ricco di anacronie prolettiche. Il racconto “in prima persona” si presta meglio alle anticipazioni per via del suo

70 Ivi; pag 97. 71 Ibidem. pag. 115

carattere soggettivo, tale da autorizzare il narratore a introdurre delle allusioni future rispetto alla sua presente situazione72.

L'analessi e la prolessi del racconto letterario corrispondono al flashback e al flashforward, così definite nel gergo cinematografico.

c) Acronico: l'ordine del racconto è talmente complesso da rendere l'ordine della storia non

ricostruibile. Lo scopo di tali salti temporali non è quindi finalizzato alla comprensione di eventi presenti e, per questo motivo, è una pratica quasi del tutto assente nel cinema classico mentre, al contrario, è abbastanza presente nel cinema moderno.

Un'anacronia, nel passato o nel futuro, può “andare” più o meno lontano dal presente, cioè dal momento della storia in cui il racconto si interrompe per introdurla: questa distanza temporale viene identificata come la portata dell'anacronia.

A sua volta, essa può coprire una durata di storia più o meno lunga: si tratta della categoria che analizzerò con il termine di ampiezza73.

Portata

La portata dell'anacronia può essere:

1. Esterna: analessi la cui ampiezza resta esterna a quella del racconto primo, il suo intero arco temporale, cioè, si colloca prima del suo punto d'inizio.

Le analessi esterne, quindi, non interferiscono mai con il racconto primo: la loro funzione è quella di completarlo, fornendo al lettore maggiore chiarezza su determinati avvenimenti74.

Anche le prolessi possono essere completive, quando colmano in anticipo delle future

72 Ivi. pag. 116. 73 Ibidem. pag. 96. 74 Ibidem. pag. 97.

lacune.

2. Interna: si ha quando l'analessi è posteriore al punto di partenza del racconto primo. Come conseguenza, causerà un'interferenza con il racconto primo.

Per quanto riguarda quest'ultima tipologia, occorre distinguere fra:

- analessi interne eterodiegetiche, fondate su una storyline diversa da quella del racconto primo e, per questo motivo, non presentano delle vere interferenze con il racconto primo; - analessi interne omodiegetiche, basate sulla medesima linea d'azione del racconto primo, aventi la funzione di colmare, a posteriori, una lacuna anteriore del racconto (un'ellissi temporale, un fatto tralasciato, l'omissione di un dato): le analessi interne di questo tipo, prevedono quasi inevitabilmente delle interferenze rispetto al racconto primo.

Le prolessi interne omodiegetiche, pongono lo stesso genere di problema delle analessi corrispondenti: quello dell'interferenza fra il racconto primo e quello assunto dal discorso prolettico. Ad esempio, le ripetitive (brevi allusioni che anticipano eventi che verranno raccontati per esteso solo successivamente) causano una ridondanza, sono definite anche

richiami e sono presenti solo in forma di “rapide allusioni”.

Quest'ultimo tipo di prolessi, che Genette chiama anche preannuncio, non deve essere confuso con ciò che definisce le esche, ovvero strategie preparatorie che solo in un secondo momento troveranno il loro significato.

3. Mista: si ha quando un'analessi esterna si prolunga fino a raggiungere e superare il punto di partenza del racconto primo.

Si può dedurre che la presenza o meno di un'interferenza dipende dall'eventuale carattere omodiegetico dell'analessi.

Ampiezza.

Le analessi, a loro volta, possono essere:

1. Parziali: rievocano un episodio del passato che si colloca molto prima rispetto al punto d'inizio del racconto primo, ma senza arrivare a raggiugerlo.

2. Complete: l'analessi si estende fino a raggiungere quel punto di partenza.

Per quanto riguarda le prolessi, Genette ritiene che, pur potendosi distinguere teoricamente in parziali e complete, in realtà tutte le prolessi sono di tipo parziale.

3.2 Durata

La durata fa parte delle categorie inerenti la doppia temporalità e riguarda il confronto fra la durata “reale” di un avvenimento (quindi, di ciò che è accaduto nella storia), e la sua durata nel Racconto.

Quest'ultima viene calcolata, per quanto riguarda il racconto letterario, in numero di righe e di pagine, quindi in modo approssimativo, mentre per il racconto cinematografico questa difficoltà non si pone, poiché le unità narrative rappresentate sullo schermo hanno una durata reale, misurabile.

L'isocronia di un racconto si può definire non tanto mediante un confronto fra la sua durata effettiva e quella della storia narrata, ma in una maniera assoluta e autonoma, come costanza di velocità.

Il nostro ipotetico grado zero, cioè il racconto isocrono è, quindi, un racconto dalla velocità uguale, senza accelerazioni o rallentamenti, in cui il rapporto fra la durata degli avvenimenti nella storia e la relativa lunghezza del racconto rimane costante.

Un racconto del genere, ovviamente, non esiste, poiché è inammissibile l'esistenza di una narrazione che non contenga nessuna variante di velocità.

Le diverse tipologie di differenze per quanto riguarda le velocità narrative si suddividono in varie categorie, ovvero, quattro forme fondamentali del movimento narrativo, anche chiamati movimenti narrativi.

Questa gradazione parte dalla velocità infinta delle ellissi, dove un segmento inesistente di racconto corrisponde a una durata qualsiasi di storia; fino ad arrivare alla lentezza assoluta della pausa descrittiva, dove un segmento qualunque del discorso narrativo corrisponde a una durata diegetica pari a zero.

Oltre a questi due estremi sopracitati, ne esitono altrettanti due intermedi: la scena che, nella maggior parte dei casi, è dialogata e convenzionalmente rispecchia l'uguaglianza di tempo fra racconto e storia; e il sommario: categoria dal movimento variabile che copre tutto il campo compreso fra la scena l'ellissi.

Riporto lo schema utilizzato da Genette, nel quale schematizza i valori temporali dei quattro movimenti nel seguente modo:

pausa…………...TR=n, TS=0. Quindi: TR “infinitamente maggiore” di TS scena………… TR=TS

sommario………TR<TS

ellissi…………...TR=0, TS=n. Quindi: TR “infinitamente minore” di TS.

Dove TS sta per tempo della storia e TR per pseudo-tempo (o tempo del racconto).

3.3 Frequenza

Genette indica con il termine di frequenza narrativa le relazioni di ripetizione fra il racconto e la diegesi.

“Un evento non è solo in grado di prodursi: può anche riprodursi, o ripetersi75

La frequenza narrativa è dunque la “capacità di ripetizione” degli eventi della storia e degli enunciati narrativi del racconto, attraverso cui si stabilisce un sistema di relazioni che si possono schematizzare in quattro tipologie, in base alle possibilità offerte dall'una e dall'altro: evento ripetuto opppure no, enunciato ripetuto oppure no76.

“Possiamo dire, molto schematicamente, che un racconto, di qualsiasi tipo, può raccontare una volta sola quanto è avvenuto una volta sola, n vote quanto è avvenuto n volte, n volte quanto è avvenuto una sola volta, una volta quanto è avvenuto n volte.77

1) Racconto singolativo (o singolare), 1R/1S → si racconta una volta quanto è avvenuto una volta sola nella storia, come nel racconto “puro”, sia letterario che cinematografico. 2) Racconto singolativo multiplo, nR/nS → consiste nel raccontare “n” volte avvenimenti accaduti “n” volte. Si tratta quindi di una semplice variante del racconto singolativo.

3) Racconto ripetitivo, nR/1S → si racconta “n” volte (spesso attraverso una variazione di narratore, quindi di punto di vista, o di stile) quanto nella storia è accaduto una sola volta. 4) Racconto iterativo, 1R/nS → viene raccontato in una volta sola quanto è avvenuto “n” volte. Un'unica emissione narrativa riporta attraverso espressioni quali “tutti i giorni”, oppure “tutta la settimana”, avvenimenti simili accaduti nella storia.

75 Genette, Figure III. cit. pag. 162 76 Ibidem; pag 163.

3.4 Modo

È possibile narrare un determinato avvenimento della storia secondo vari puti di vista: la categoria identificata da Genette sotto il temine “modo” si riferisce a questa pratica, ossia alla possibilità di riportare gli eventi attraverso modalità differenti.

Pertanto, si tratta di uno studio delle forme e dei gradi della rappresentazione narrativa, modalità essenziali nella regolazione dell’informazione narrativa.

Innanzitutto, il racconto può fornire al lettore maggiori o minori particolari e in maniera più o meno diretta, dando così l'imporessione di essere a una determinata “distanza” rispetto a cià che viene raccontato.

Si può scegliere di adottare il punto di vista di un personaggio oppure di presentarsi come esterno ai fatti e onniscente.

Per Genette il procedimento della focalizzazione, cioè di introduzione di un focus percettivo-cognitivo, è uno strumento di regolazione del flusso di informazione narrativa nella “comunicazione” tra narratore e destinatario.

Distanza e prospettiva sono, pertanto, le due modalià attraverso i quali regolare

l'informazione narrativa.

1) Distanza.

La questione della distanza del narratore rispetto al racconto è stata affrontata per la prima volta da Platone78 nel III libro della Repubblica79.

Egli oppone due modi narrativi a seconda che il narratore parli a suo nome (senza cercare di farci credere che sia un altro a parlare), procedimento da lui chiamato racconto puro;

78 Platone (Atene, 428/427 a.C. - Atene, 348/347 a.C.) filosofo greco antico che, insieme al suo maestro Socrate e al suo allievo Aristotele ha posto le basi del pensiero filosofico occidentale. 79 Genette, Figure III. cit. pag. 209.

mentre, nel secondo caso, si sforza di illuderci che sia un personaggio a parlare e siamo di fronte a ciò che chiama imitazione in senso proprio, o mimesi80.

Una simile opposizione è stata nuovamente tirata in ballo nelle teorie sul romanzo elaborate negli Stati Uniti e in Inghiterra fra il XIX e il XX secolo da Henry James81,

tramite l'utilizzo dei temini showing (mostrare) vs. telling (narrare)82 .

Genette ritiene che la nozione di showing, così come quella di imitazione è, in fin dei conti, illusoria: nessun racconto, al contrario della rappresentazione drammatica, può mostrarci o imitare nel vero senso della parola la storia che viene narrata.

Può soltanto raccontarla in modo particolarmente preciso, fornendoci una migliore illusione di mimesi.

2) Prospettiva.

La prospettiva narrativa rappresenta la seconda modalità attraverso la quale regolare l'informazione da fornire ai lettori/spettatori e deriva dalla scelta (o dalla “non scelta”) di adottare un punto di vista restrittivo (di un personaggio interno alla narrazione, spesso il protagonista).

Tuttavia, secondo Genette, la maggior parte degli studi tecnici che hanno affrontato questo argomento peccano di confusione fra qaunto lui identifica come modo o come voce.

Cioè, fra la domanda: qual è il personaggio il cui punto di vista orienta la prospettiva

80 Ivi.

81Henry James (New York, 15 aprile 1843 – Londra, 28 febbraio 1916), scrittore e critico letterario statunitenste naturalizzato inglese. Nell'applicare la regola "mostra, non raccontare" (espressione di tecnica narrativa di derivazione appunto anglosassone), lo scrittore fa molto più che raccontare al lettore qualcosa su un personaggio, lo svela attraverso ciò che questi dice e fa. Il mostrare può essere ottenuto in diversi modi: descrivendo le azioni dei personaggi o rivelando il personaggio attraverso il dialogo.

In: http://www.treccani.it/enciclopedia/henry-james/ , consultato il 3 maggio 2019 82 Genette, Figure III. cit. pag. 210.

narrativa? Oppure: chi è il narratore? Quindi, in sintesi, fra la domanda: chi vede?

E quella: chi parla83?

Elabora quindi una tipologia a tre termini, il primo dei quali corrisponde alla modalità che viene generalmente attribuita ad un narratore onnisciente, mediante la formuna

narratore > personaggio, dove il narratore sa di più del personaggio.

Nella seconda, scematizzata nel seguente modo: narratore= peronaggio, il narratore finge di conoscere soltanto ciò che sa il personaggio del quale assume il punto di vista.

Nell'ultima, narratorre < personaggio, il narratore sostiene di sapere meno di quanto non sappia persino il personaggio stesso. Si tratta del racconto oggettivo, caratterizzato da una visione dall'esterno.

Per evitare di utilizzare i temini, secondo Genette eccessivamente visivi, visione, campo o

punto di vista, ne adotta uno un po' più generico e astratto: focalizzazione84.

Il primo tipo di racconto è quello “non focalizzato” o, più specificamente, a focalizzazione

zero.

Il secondo è caratterizzato dalla focalizzazione interna, che può essere fissa o variabile (in base a se il personaggio del quale si assume la “prospettiva” rimanga sempre lo stesso oppure cambi durante il racconto) o multipla, come avviene nei romanzi epistolari, dove lo stesso avvenimento viene narrato più volte, a seconda del punto di vista dei diversi personaggi corrispondenti.

Questa tipologia viene raramente applicata in maniera rigorosa poiché implicherebbe che il personaggio focale non venga mai descritto dall'esterno o che le sue riflessioni e sentimenti

83 Ivi; pag. 233. 84 Ibidem; pag. 236.

non vengano mai analizzati oggettivamente dal narratore. Si può pertanto affermare che non esiste una focalizzazione interna in senso stretto.

Il terzo e ultimo tipo è il racconto con focalizzazione esterna, dove il protagonista agisce e compie l'azione, ma non conosceremo mai i suoi pensieri e le sue emozioni85

Le ultime due situazioni narrative (focalizzazione interna e focalizzazione esterna) servono come strumenti di limitazione, almeno di dilazione nel tempo, del “sapere narrativo” messo a disposizione del fruitore, dato che si assume un orizzonte cognitivo limitato, legato alla contingenza spazio-temporale del personaggio.

Le variazioni di punto di vista che si producono lungo un racconto possono essere quindi analizzate come cambiamenti di focalizzazione: si parlerà allora di focalizzazione variabile di coscienza, con possibili parziali riduzioni di campo se, durante il passaggio, si adotta una delle tre diverse modalità, riducendo ad esempio il punto di vista onniscente del

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