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Analogie e movimento: verso il pneuma nel De motu animalium

In apertura al De motu animalium Aristotele stabilisce, come è sua abitudine, l’argomento dell’opera e lo raccorda col panorama dei suoi lavori consimili: nel De

partibus animalium e nel De incessu animalium Aristotele ha già affrontato il

movimento animale come una delle tante caratteristiche di determinate specie di animali. Nel testo che invece ci accingiamo ad affrontare l’obiettivo del filosofo è

“indagare in generale la causa comune del muoversi secondo un moto qualsiasi” (ὅλως δὲ

περὶ τῆς κοινῆς αἰτίας τοῦ κινεῖσθαι κίνησιν ὁποιανοῦν, ARIST., De motu an., 1, 698 a 4),

indipendentemente da come si concretizzi questo moto in uno o più animali. Non si tratta solamente di un allargamento della ricerca dal caso particolare alla generalità di una determinata operazione comune a certi animali, bensì dell’apertura di una indagine

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sul significato stesso del moto in rapporto all’animale che ne è dotato e,

contestualmente, in rapporto al mondo col quale esso interagisce193.

Nell’VIII libro della Fisica Aristotele ha stabilito che qualcosa deve restare in quiete affinché si compia un moto, e che sotto un punto di vista universale deve esserci un motore immobile da cui il moto dipende, onde evitare di incorrere in un regressus ad

infinitum. Da ciò Aristotele ha derivato uno schema (motore, ciò che muove, ciò che è

mosso) che abbiamo visto poco sopra essere stato adoperato nel De anima proprio in

riferimento al movimento animale194. Richiamando questa teoria di valenza generale,

Aristotele afferma che essa, per avere una piena valenza scientifica che soddisfi le sue pretese di universalità, deve essere anche calata su casi più circoscritti ed essere messa alla prova su di essi, giacché si tratta di quei casi particolari e di quegli oggetti di esperienza “grazie ai quali noi ricerchiamo anche le teorie universali, e ai quali

pensiamo che queste teorie debbano adeguarsi” (δι' ἅπερ καὶ τοὺς καθόλου ζητοῦμεν λόγους,

καὶ ἐφ' ὧν ἐφαρμόττειν οἰόμεθα δεῖν αὐτούς, ARIST., De motu an., 1, 698 a 13 - 14). Uno dei

sottoinsiemi degli enti di natura a cui si applicano i principi del movimento sono gli animali: Aristotele offre dunque una connotazione biologica di quei principi generali summenzionati, e lo fa chiamando in causa nuovamente le articolazioni, delle quali ha già accennato i tratti salienti nel De anima.

καμπτομένου δὲ καὶ κινουμένου τὸ μὲν κινεῖται σημεῖον τὸ δὲ μένει τῶν ἐν ταῖς καμπαῖς, ὥσπερ ἂν εἰ τῆς διαμέτρου ἡ μὲν Α καὶ ἡ Δ μένοι, ἡ δὲ Β κινοῖτο, καὶ γίνοιτο ἡ ΑΓ. ἀλλ' ἐνταῦθα μὲν δοκεῖ πάντα τρόπον ἀδιαίρετον εἶναι τὸ κέντρον (καὶ γὰρ τὸ κινεῖσθαι, ὡς φασί, πλάττουσιν ἐπ' αὐτῶν· οὐ γὰρ κινεῖσθαι τῶν μαθηματικῶν οὐδέν), τὰ δ' ἐν ταῖς καμπαῖς δυνάμει καὶ ἐνεργείᾳ γίνεται ὁτὲ μὲν ἓν ὁτὲ δὲ διαιρετά. ἀλλ' οὖν ἀεὶ ἡ ἀρχή, ἠρεμεῖ κινουμένου τοῦ μορίου τοῦ κάτωθεν, οἷον τοῦ μὲν βραχίονος κινουμένου τὸ ὠλέκρανον, ὅλου δὲ τοῦ κώλου ὁ ὦμος, καὶ τῆς μὲν κνήμης τὸ γόνυ, ὅλου δὲ τοῦ σκέλους τὸ ἰσχίον.

Quando dunque la parte è soggetta a curvatura e a movimento, un punto dell’articolazione si muove mentre l’altro resta fermo, come se di un diametro i punti A e D restassero fermi, mentre B si muovesse e desse luogo ad AC. Ma mentre in questo caso il centro sembra in ogni modo indivisibile (per questo tipo di oggetti, come si dice, il movimento è fittizio, perché nessuno degli enti matematici si muove), nelle articolazioni essi ora vengono ad essere in potenza ed in atto un’unità ora sono divisi. Il principio in relazione al quale, in quanto principio, sta dunque sempre in quiete quando si muove la parte inferiore, come per esempio il gomito quando si muove l’avambraccio, la spalla quando è tutto l’arto a muoversi, e il ginocchio è il principio della gamba, l’anca di tutto l’arto (ARIST., De motu an., 1, 698 a 21 - b 4).

Utilizzando la stessa similitudine matematica a scopo illustrativo, ed entrando più nello specifico rispetto al De anima, Aristotele ribadisce la duplicità dell’articolazione sottolineando le differenze che sussistono tra l’ambito degli enti matematici e quello del movimento animale che, in via negativa, viene contemporaneamente illuminato.

193 Cfr. Aristotele, Opere biologiche (a cura di Diego Lanza e Mario Vegetti), cit., p. 1253. 194 Cfr. in particolare ARIST., Phys., VIII, cap. 1 - 2, e 5.

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Infatti, per il raggio AB che si muove spostandosi nella posizione AC il movimento è soltanto figurato e pertanto l’indivisibilità con l’altro segmento del diametro DB è assoluta, giacché il punto geometrico non è in alcun modo divisibile, inoltre AB non si sposta realmente e non è affatto la stessa cosa di AC (piuttosto sono due segmenti distinti). Al contrario, nel movimento del braccio di un essere vivente l’indivisibilità del punto in cui c’è coincidenza spaziale tra le due parti (l’articolazione del gomito) è in primo luogo indivisibilità di un ente fisico, in secondo luogo è diversa a seconda che il braccio sia steso o sia piegato in un certo modo195. Inoltre quando un’articolazione si muove, il punto che rimane fermo è sempre quello superiore all’arto mosso, come per l’avambraccio il gomito e per il braccio la spalla. Aristotele ci offre così una visione approfondita della centralità delle articolazioni per il movimento animale.

La dinamica delle articolazioni secondo il principio della quiete necessaria al moto non esaurisce però l’applicazione di tale principio, la cui pervasività viene ribadita da Aristotele ampliando il fuoco dell’analisi del movimento animale anche all’ambiente esterno nel quale esso si sposta. Infatti “ogni quiete interna è ugualmente priva di valore

se non c’è esternamente qualche cosa assolutamente quieto ed immobile (πᾶσα ἡ ἐν αὐτῷ

ἠρεμία ὅμως ἄκυρος, ἂν μή τι ἔξωθεν ᾖ ἁπλῶς ἠρεμοῦν καὶ ἀκίνητον, ARIST., De motu an., 2, 698 b 8 - 9)”. Ci deve essere dunque anche esternamente all’animale qualcosa di immobile su cui esso può poggiare per effettuare la propria locomozione, e se così non fosse si troverebbe nella situazione di non aver alcun punto fermo su cui far forza, come capita allorché si cammina nella sabbia ed il piede sprofonda. In quel caso, “qualora la terra non rimanesse ferma, non sarebbe possibile né camminare, né volare o nuotare, se l’aria o l’acqua non opponessero resistenza (οὐδ' ἔσται οὔτε πορεία, εἰ μὴ ἡ γῆ μένοι, οὔτε πτῆσις ἢ νεῦσις, εἰ μὴ ὁ ἀὴρ ἢ ἡ θάλαττα ἀντερείδοι, ARIST., De motu an., 2, 698 b 17 - 18)”.

195 Il passaggio è alquanto oscuro circa il perché la coincidenza del concavo e del convesso

nell’articolazione non sia uguale a quella di due segmenti (AB, AD) di uno stesso diametro DB. La Nussbaum si concentra principalmente sul fatto che il punto geometrico, giacché non possiede una dimensione fisica ma è semplicemente un’astrazione, non è divisibile in alcun modo (Cfr. Nussbaum in Aristotle op. cit., pp. 282 - 283).

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Questo riferimento all’ambiente circostante in cui avviene il moto animale, ed al fatto che esso deve rimanere immobile, offre ad Aristotele la possibilità di sollevare un problema cosmologico alla cui risoluzione dedica i due capitoli successivi. Si tratta di una di quelle parti della trattazione del De motu animalium che avvalorano la rubricazione dell’opera sotto la categoria di trattato interdisciplinare. Tuttavia è opportuno sottolineare che già in apertura Aristotele ha posto l’intera ricerca sotto l’egida dei principi generali del movimento, guadagnati nei libri della Fisica, ed ha sottolineato che essi devono adeguarsi a ciò che emerge dallo studio degli enti particolari. Aprire quindi una discussione cosmologica sul movimento del cielo a partire dalle conclusioni ricavate attorno al movimento degli animali, le quali in apparenza possono suscitare problemi per la comprensione del più vasto panorama cosmologico al cui interno gli animali si collocano, è assolutamente legittimo. Non dimentichiamo, inoltre, che il filo rosso teso attraverso tutta l’opera è appunto il movimento degli animali sia in se stessi che in rapporto all’ambiente circostante, la cui massima delimitazione possibile coincide con l’intero universo fisico.

Ἀπορήσειε δ' ἄν τις, ἆρ' εἴ τι κινεῖ τὸν ὅλον οὐρανόν, εἶναι θέλει ἀκίνητον, καὶ τοῦτο μηθὲν εἶναι τοῦ οὐρανοῦ μόριον μηδ' ἐν τῷ οὐρανῷ. εἴτε γὰρ αὐτὸ κινούμενον κινεῖ αὐτόν, ἀνάγκη τινὸς ἀκινήτου θιγγάνον κινεῖν, καὶ τοῦτο μηδὲν εἶναι μόριον τοῦ κινοῦντος· εἴτ' εὐθὺς ἀκίνητόν ἐστι τὸ κινοῦν, ὁμοίως οὐδὲν ἔσται τοῦ κινουμένου μόριον. καὶ τοῦτό γ' ὀρθῶς λέγουσιν οἱ λέγοντες, ὅτι κύκλῳ φερομένης τῆς σφαίρας οὐδ' ὁτιοῦν μένει μόριον·

C’è un problema: se tutto il cielo è mosso da qualche cosa, questo deve essere immobile e non sarà alcuna parte del cielo né sarà nel cielo. Se infatti ciò che muove il cielo fosse esso in movimento, dovrebbe muoverlo grazie al contatto di qualche cosa di immobile, e questo non dovrebbe costituire alcuna parte del motore; se invece il motore è direttamente immobile, ugualmente non sarà alcuna parte di ciò che è in moto. In questo hanno dunque ragione coloro che affermano che quando la sfera ruota nessuna sua parte resta in quiete (ARIST., De motu an., 3, 699 a 12 - 19).

Il ragionamento analogico sotteso alla posizione del problema da parte di Aristotele è il seguente: come l’animale che si muove deve avere qualcosa ad esso esterno che sia immobile in senso assoluto, così i cieli in movimento devono avere qualcosa ad essi esterno che sia immobile in senso altrettanto assoluto. Se quest’ultimo sia anche ciò che causa il loro moto, oppure i due motori siano, come nell’essere vivente, entità distinte è un quesito a cui Aristotele risponde positivamente. Immobile in senso assoluto (haplos), sottolinea Aristotele, è ciò che non fa parte in alcun modo di ciò che si muove. La teoria di Atlante affrontata nel seguito del capitolo terzo e gli argomenti del capitolo quarto sono funzionali, sotto questo punto di vista, ad una critica fondamentale di qualsiasi posizione consideri il motore dei cieli né esterno a ciò che si muove, né immobile ed in grado di muovere senza essere mosso. La Nussbaum ha chiaramente identificato nel

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complesso ragionamento aristotelico tre passaggi compiuti da Aristotele per circoscrivere, ex negativo, l’unica posizione coerente con il suo sistema filosofico.

Come prima cosa Aristotele sostiene che, a differenza degli animali, le sfere celesti non sono articolate in parti strumentali, alcune delle quali capaci di causare il movimento dell’intero organismo ed altre, invece, capaci di rimanere in quiete per consentire quest’operazione. Piuttosto le sfere celesti sono omogenee e continue, di conseguenza se si muovono lo fanno tutte assieme. Dopodiché Aristotele confuta la “teoria dei poli” che sappiamo appartenere ai Pitagorici, ai quali fa riferimento allorché parla di certuni che hanno riconosciuto giustamente la rotazione uniforme delle sfere, ma l’hanno giustificata in modo erroneo, giacché hanno anche ritenuto che i due poli costituiscano, nell’insieme delle sfere celesti, quell’elemento propulsore che le mette in

moto tutte quante196. Aristotele, in primo luogo, nega che i poli, i quali sono punti

geometrici ottenuti per astrazione, possano possedere una loro dynamis, giacché per

definizione il punto è qualcosa di astratto e privo di estensione197.

In secondo luogo Aristotele compie una delle sue operazioni di interpretazione dei miti antichi, riconoscendo in essi le rappresentazioni metaforiche di teorie scientifiche che traduce secondo le sue categorie concettuali. Ciò accade per il cosiddetto “mito di Atlante”: Atlante, con i piedi posati a terra, sorregge la volta del cielo, che in sua assenza cadrebbe rovinando sul mondo sublunare, e ne produce il moto rotatorio. Tradotto in termini scientifico-aristotelici, il mito adombra la teoria scientifica secondo cui la volta del cielo è messa in moto, per contatto, da un motore mosso (il mitico Atlante) che poggia su un motore immobile (la terra) esterno a ciò che si muove (la volta celeste). La teoria di Atlante è apparentemente in linea con i principi del movimento stabiliti da Aristotele nel capitolo secondo, giacché motore immobile, motore mosso e ciò che si muove compaiono in un rapporto dinamico rispettoso della teoria generale del movimento fisico, ed anche passibile di essere posto in analogia con il mondo del vivente. Anzi, lo stesso mito di Atlante non è altro che, a ben vedere, l’applicazione alla rotazione celeste di una analogia euristica ricavata proprio dalla sfera del vivente (l’analogia con un uomo che tiene sollevato e rotea un qualcosa sopra il suo capo, poggiando i piedi sul terreno). Questa teoria conduce, tuttavia, a due conseguenze sulle quali Aristotele si sofferma criticamente: la prima è che in questo modo la terra stessa non è affatto parte del sistema in movimento; la seconda è che per funzionare

196 Cfr. Lanza e Vegetti in ARIST., op. cit., p. 1257, n. 11 e 12. 197 ARIST., De motu an., 3, 699 a 22 - 23.

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questo sistema deve rimanere stabile, e per rimanere stabile deve possedere, tra le sue varie componenti, un rapporto equilibrato quanto alle rispettive capacità e forze di

resistenza198. La prima conseguenza sembra apparentemente coerente con il resto del

sistema aristotelico, e difatti Aristotele si limita a sottolinearla senza spendersi in una confutazione, giacché egli stesso ritiene che la terra sia immobile. Tuttavia ciò che lo spinge a rimarcare questa connessione logica è che, anche all’interno di un quadro in cui il motore mosso è parte del sistema in movimento (Atlante), l’estraneità del motore immobile al sistema rappresenta una conseguenza obbligata e apre la strada sia all’affermazione che quest’ultimo è esterno al sistema stesso, sia all’affermazione della contraddittorietà della seconda conseguenza. Infatti il motore mosso che esercita una forza poggiandosi su un motore immobile deve esercitare una forza che non sia superiore alla capacità di resistenza di ciò contro cui poggia. Se fosse altrimenti, scalzerebbe anche il motore immobile dalla posizione che ricopre, cioè la terra dal centro nel quale è posta, allontanandola da esso. La forza esercitata da Atlante deve, inoltre, essere anche in grado di superare la forza di resistenza della volta celeste: da ciò consegue che la forza di resistenza della terra, in quanto motore immobile su cui poggia Atlante che a sua volta muove i cieli, deve essere pari alla somma di quella di Atlante e

di quella dei cieli199. Ma ciò è impossibile, per Aristotele, giacché nella Fisica ha

dimostrato che la forza necessaria a muovere i cieli nel loro moto circolare infinito

dev’essere essa stessa infinita200. Pertanto la terra, piccola com’è, non può in alcun

modo avere una forza di resistenza pari addirittura all’infinito. A questo modo, usando i presupposti del sistema scientifico che intende confutare, sia pur tradotti nei termini della sua scienza fisica, Aristotele dimostra la contraddittorietà interna a qualsiasi teoria che preveda l’esistenza di un motore mosso all’interno del sistema in movimento nella rotazione dei cieli201.

In terzo luogo Aristotele esclude definitivamente la possibilità che la rotazione celeste sia causata da qualsiasi parte interna al sistema in movimento, indipendentemente dal fatto che siano garantite le condizioni (contraddittorie) di equilibrio dello stesso. Infatti Aristotele lascia da parte il problema della contraddittorietà dell’equilibrio delle forze così delineate, e ammettendo che la forza di resistenza della terra possa essere tale da garantire l’equilibrio del sistema, cioè che ci

198 Cfr. ARIST., De motu an., 699 a 30 - 33. 199 Cfr. ARIST., De motu an., 3, 699 b 7 - 9. 200 Cfr. ARIST., Phys., VIII, 10.

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sia un motore immobile dotato di una forza di resistenza tale da non poter essere soverchiata dal sistema in movimento complessivo del motore mosso, sottolinea un’ulteriore contraddizione derivante da esso. Infatti “noi riteniamo che il cielo sia necessariamente incorruttibile e indissolubile, mentre, secondo questo discorso, non lo sarebbe di necessità, perché sarebbe naturale e possibile un moto superiore alla forza che tiene in quiete la terra e che fa girare il fuoco e il corpo che sta in alto” (τὸν δ' οὐρανὸν ἄφθαρτον εἶναι καὶ ἀδιάλυτον οἰόμεθα μὲν ἐξ ἀνάγκης [εἶναι], συμβαίνει δὲ κατὰ τοῦτον τὸν λόγον οὐκ ἐξ ἀνάγκης· (πέφυκε γὰρ καὶ ἐνδέχεται εἶναι κίνησιν μείζω καὶ ἀφ' ἧς ἠρεμεῖ ἡ γῆ καὶ ἀφ' ἧς κινοῦνται τὸ πῦρ καὶ τὸ ἄνω σῶμα), ARIST., De motu an., 4, 699 b 21 - 25). Il corpo che sta in alto è naturalmente l’etere: ciò che compone i cieli in rotazione perenne. Dunque, un sistema che prevede al suo interno un motore mosso che muove per contatto e poggia su un motore immobile esterno ad esso è sempre passibile di dissoluzione, perché rimane aperta la possibilità che una forza esterna giunga a soverchiare l’equilibrio dei rapporti di forza esistenti. Tuttavia ciò è contraddittorio con le caratteristiche di incorruttibilità e indissolubilità del cielo. Pertanto un simile sistema di movimento non è adatto a spiegare la rotazione delle sfere celesti.

Ricapitolando, Aristotele, a partire dall’analogia tra moto locale del vivente e moto dei cieli, analizzata criticamente, ha conseguito tre importanti risultati concettuali che possiamo sintetizzare nel seguente modo: i cieli sono uniformi e non sono divisi in parti; i cieli non possono essere mossi da un motore mosso che poggia su un motore immobile per la contraddizione conseguente all’equilibrio delle forze; i cieli non possono essere mossi da un motore mosso che poggia su un motore immobile, in stato di equilibrio delle forze, perché altrimenti verrebbe meno la loro incorruttibilità e indissolubilità. Così facendo Aristotele ha circoscritto la sola soluzione praticabile al problema del moto dei cieli: quella che prevede un motore esterno al sistema in movimento, capace di muovere pur restando immobile. Ma di questo non tratta direttamente nel resto del De motu animalium, e lascia la questione aperta ricominciando, in una sequenza argomentativa che consiste fondamentalmente in un ritorno dal macrocosmo dei cieli al microcosmo della natura sublunare, a trattare il moto degli animali e degli enti ad essi circostanti. A questo riguardo bisogna sottolineare che il ritorno alla tematica principale del trattato fa tesoro dei ragionamenti condotti nelle pagine precedenti.

ἐπὶ δὲ τῶν ζῴων οὐ μόνον τὸ οὕτως ἀκίνητον δεῖ ὑπάρχειν, ἀλλὰ καὶ ἐν αὐτοῖς τοῖς κινουμένοις κατὰ τόπον ὅσα κινεῖ αὐτὰ αὑτά. δεῖ γὰρ αὐτοῦ τὸ μὲν ἠρεμεῖν τὸ δὲ κινεῖσθαι, πρὸς ὃ ἀπερειδόμενον τὸ κινούμενον κινήσεται, οἷον ἄν τι κινῇ τῶν μορίων· ἀπερείδεται γὰρ θάτερον ὡς πρὸς μένον

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θάτερον. περὶ δὲ τῶν ἀψύχων ὅσα κινεῖται ἀπορήσειεν ἄν τις, πότερον ἅπαντ' ἔχει ἐν ἑαυτοῖς καὶ τὸ ἠρεμοῦν καὶ τὸ κινοῦν, καὶ πρὸς τῶν ἔξω τι ἠρεμούντων ἀπερείδεσθαι ἀνάγκη καὶ ταῦτα, ἢ ἀδύνατον, οἷον πῦρ ἢ γῆν ἢ τῶν ἀψύχων τι, ἀλλ' ὑφ' ὧν ταῦτα κινεῖται πρώτων.

Per gli animali invece non solo ci deve essere ciò che è così immobile, ma si deve anche trovare dentro quelli stessi che sono soggetti a spostamento e che si muovono da sé. L’animale deve avere una parte che si muove ed una in quiete, appoggiandosi alla quale si muove ciò che si muove, come se per esempio muove una sua parte. Una parte si poggia all’altra come ad un elemento stabile. A proposito invece di tutte le cose inanimate che si muovono ci si può chiedere se tutte abbiano in sé sia la parte in quiete sia la parte che si muove, e se è necessario che anch’esse si appoggino a qualche cosa esterno in quiete, oppure se ciò è impossibile, nel caso per esempio del fuoco, della terra o di qualcuna della cose inanimate, ma queste sono mosse da quelle che sono le loro cause prime (ARIST., De motu an., 4, 700 a 6 - 16).

Gli animali, a differenza dell’universo nel suo insieme, hanno sia un motore immobile esterno sul quale poggiano o fanno forza per compiere la loro locomozione, sia un motore immobile interno su cui si esercitano le forze di trazione e spinta di volta in volta necessarie. Pensiamo ancora una volta all’avambraccio che si piega, e all’articolazione nella quale il concavo ed il convesso coincidono spazialmente ma sono differenti per essenza: ebbene, nel movimento dell’avambraccio l’articolazione del gomito sarà in quiete nella sua parte superiore, e contro di essa “farà forza” ciò che invece si muove, frattanto che l’intero corpo vivente sarà poggiato su un motore immobile esterno, la terra. Considerato tutto ciò, Aristotele si interroga circa il movimento degli enti non dotati di anima, e si domanda se anche per essi possa essere utilizzato il paradigma del movimento animale. La risposta è che a muoverli sono sempre i viventi ad essi esterni. Infatti “principio di tutte le cose che si muovono così [in quanto inanimate n. d. A.] sono gli esseri che si muovono da sé” (πάντα γὰρ ὑπ' ἄλλου κινεῖται τὰ ἄψυχα, ἀρχὴ δὲ πάντων τῶν οὕτως κινουμένων τὰ αὐτὰ αὑτὰ κινοῦντα, ARIST., De

motu an., 4, 700 a 17 - 18). Gli esseri che si muovono da sé non sono solamente gli

animali presenti nel mondo sublunare, tra cui l’uomo, ma anche le sfere celesti a cui è

riconosciuto da Aristotele lo statuto di viventi202. Del resto l’influsso delle sfere celesti

nel mondo sublunare è ciò che mette in moto in primo luogo la chimica dei composti elementari, spingendo i quattro elementi e le loro qualità ad interagire e sottoponendo

così la dinamica dei sostrati alla priorità ontologica delle forme 203. In questo modo

Aristotele ottiene, in conclusione al quarto capitolo del De motu animalium, la demarcazione dell’ambito del movimento animale autoprodotto sia da quello delle sfere celesti, sia da quello degli enti inanimati. Solamente dopo aver compiuto una tale

202 Cfr. ARIST., Phys., 259 b 1 - 3. 203 Vedi supra, p. 47.

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demarcazione può proseguire nell’approfondimento delle caratteristiche essenziali del movimento animale.

Il capitolo quinto, alquanto breve e assai oscuro a causa della sua sinteticità204,

propone un chiarimento concettuale del termine “movimento” o “mutamento” (kinesis) usato da Aristotele fino ad ora per parlare di “movimento animale”. In Phys., VIII, 7, Aristotele ha distinto infatti quattro tipologie di mutamento (kinesis): secondo la sostanza, secondo il luogo, secondo la qualità e secondo la quantità, cioè la generazione

e corruzione, lo spostamento, l’alterazione e la crescita (μεταβάλλει γὰρ ἀεὶ τὸ μεταβάλλον

ἢ κατ' οὐσίαν ἢ κατὰ ποσὸν ἢ κατὰ ποιὸν ἢ κατὰ τόπον, ARIST., Phys., III, 200 b 32-35). Il

moto locale è definito “il primo dei movimenti”, sia nel capitolo del De motu animalium

che stiamo analizzando, sia nella Fisica, dai cui principi il testo dipende visibilmente205.

Aristotele intende infatti chiarire se il paradigma del moto e della quiete individuato per la locomozione animale si applichi anche agli altri tipi di mutamento a cui l’animale è soggetto. La risposta al quesito è affermativa, e viene sviluppata da Aristotele anche in una prospettiva ontogenetica. Infatti il moto locale è prioritario non solo rispetto agli