• Non ci sono risultati.

Retroterra e temi del De motu animalium

All’interno del Corpus Aristotelicum la presenza del De motu animalium ha costituito un serio problema esegetico per molti studiosi ottocenteschi e della prima metà del novecento, attirando su di sé il sospetto di essere un testo tardo e assai lontano dall’autentico spirito aristotelico. Tutto sta, naturalmente, in ciò che veniva allora ritenuto essere lo spirito aristotelico, e, parallelamente a questo, in quelle prove documentarie ritenute capaci di inficiare l’attribuzione dell’opera ad Aristotele. La difficoltà interpretativa, la brevità e la densità concettuale dell’opera hanno sempre costituito una sfida per gli studiosi che di volta in volta si sono dedicati ad essa. Prima

del lavoro ormai classico della Nussbaum pubblicato nel 1978177, i commentari dedicati

esclusivamente al De motu animalium si contano sulle dita di una mano: nel Medioevo abbiamo quello di Michele d’Efeso, risalente al dodicesimo secolo, ed il De principiis

motus progressivi di Alberto Magno, risalente al secolo tredicesimo; tra i lavori degli

studiosi moderni, invece, annoveriamo principalmente quelli di Farquharson, Toracca e

Louis178. La peculiarità del De motu animalium è l’utilizzo pervasivo dell’analogia, a

scopo euristico e descrittivo, che lo rende, tra i piccoli trattati aristotelici, il più utile a controbilanciare una visione del pensiero aristotelico troppo orientata a metterne in luce la settorialità ontologica ed epistemologica. Al riguardo André Laks e Marwan Rashed hanno chiaramente messo a fuoco ciò che contraddistingue il trattato:“Si Aristote est le penseur de la différenciation des domaines du savoir, dont les objets spécifiques répondent à des principes propres et appellent des méthodes distinctes, il sait aussi, à

l’occasion, marquer leurs analogies, leur croisement et leurs interférences”179. Inoltre

Thomas Bénatuïl ha cercato di ricostruire in un suo contributo la trama analogica che percorre l’intero trattato, che al di là della valorizzazione delle singole analogie non può essere letto senza tener presente che in esso il metodo analogico è il principale

177 Aristotle, De motu animalium, cit. 178 Ivi, p. XX.

126

strumento epistemologico impiegato dalla ricerca aristotelica. Infatti nel De motu

animalium “l’analogie permet d’unifier cette branche de la physique qu’est la biologie,

en dépassant la diversité des espèces au profit de la similitude de fonction de leurs parties; elle permet aussi d’unifier la physique autour de certains principes du mouvement, par delà l’hétérogénéite des êtres mus e la difficulté d’accès des êtres célestes”180.

Le vicissitudini editoriali del De motu animalium, e l’attribuzione o la negazione ad esso dell’autenticità, si sono collegate anche, per un certo verso, con lo sviluppo del dibattito storiografico svoltosi all’ombra della prospettiva genetista di derivazione

jaegeriana181. La Nussbaum, nella sua edizione del De motu animalium ed in un

dettagliato articolo sulla sua tradizione manoscritta, ha reso conto del complesso panorama appena delineato, al cui riguardo dobbiamo tuttavia mettere a fuoco alcuni punti fermi, perché coinvolgono direttamente lo studio che ci proponiamo di compiere in questo capitolo e non possono essere tralasciati.

Le principali motivazioni a sostegno dell’accusa di inautenticità dell’opera sono le

seguenti182: la mancanza del De motu animalium dai cataloghi più antichi riguardanti le

opere di Aristotele; la già accennata peculiarità di essere un trattato interdisciplinare che raccorda ambiti del sapere teoricamente distinti all’interno della compartimentazione aristotelica delle scienze; un presunto riferimento allo pseudo-aristotelico De spiritu, che è un testo tardo assolutamente estraneo al Corpus Aristotelicum; l’altrettanto presunta incompatibilità della dottrina psicologica contenuta nel De motu animalium con quella ricostruibile utilizzando i trattati maggiori (specialmente il De anima).

Circa la prima motivazione, dobbiamo sottolineare che l’assenza del De motu

animalium da certi cataloghi antichi non costituisce affatto una prova della sua

inautenticità. Infatti nel catalogo di Diogene Laerzio, così come in quello di Esichio, delle tante opere biologiche a cui attribuiamo un’indubbia paternità aristotelica compare solamente l’Historia animalium. Al contrario, in due cataloghi compilati a partire da liste di probabile derivazione andronichea, il De motu animalium è presente nel novero dei lavori sicuramente aristotelici, pur esistendo una sezione dedicata appositamente alle opere spurie o di dubbia provenienza. I cataloghi ed i riferimenti che troviamo, infine, nei testi del mondo arabo medievale testimoniano che il De motu, per quanto associato

180 T. Bénautuïl, “L’usage des analogies dans le De motu animalium”, in A. Laks e M. Rashed (a cura di),

op. cit., p. 90.

181 Ivi, pp. 1 - 20. 182 Ibidem.

127

alle cosiddette Anatomai, era ben presente. Tirando le somme possiamo concordare con la Nussbaum che, per quanto riguarda le testimonianze più antiche a noi note, il De

motu animalium non può essere considerato estraneo al Corpus Aristotelicum più di

quanto non lo siano le altre opere biologiche. Le dottrine in esso contenute, di conseguenza, non possono essere rubricate sotto la categoria delle speculazioni posteriori, frutto di una crasi tra la dottrina peripatetica e gli influssi stoici o medico- ellenistici. Ciò che è contenuto nell’opera sulla motilità animale va spiegato all’interno di una prospettiva di complementarietà con gli altri lavori aristotelici.

L’interdisciplinarietà del testo non è in grado di scardinare in alcun modo la compartimentazione aristotelica del sapere, giacché tutte le analogie euristiche che vedremo messe in opera all’interno del De motu animalium non sono affatto problematiche per l’intero impianto ontologico-concettuale, e salvaguardando la metodologia di Aristotele ne mettono anche in luce quelle potenzialità euristiche basate sull’analogicità dell’essere trasversale ai singoli generi. Infatti negli Analitici posteriori Aristotele sottolinea che una scienza può utilizzare le conoscenze di un’altra al fine

illustrativo (ἡ δ' ἀπόδειξις οὐκ ἐφαρμόττει ἐπ' ἄλλο γένος, ἀλλ' ἢ ὡς εἴρηται αἱ γεωμετρικαὶ ἐπὶ τὰς

μηχανικὰς ἢ ὀπτικὰς καὶ αἱ ἀριθμητικαὶ ἐπὶ τὰς ἁρμονικάς, ARIST., An. post., I, 9, 76 a 22) e gli stessi assiomi comuni a tutte le scienze sono tali soltanto analogicamente, perché in ognuna di esse si trovano concretizzati in una determinata forma, raccordabile alle altre

consimili attraverso l’analogia extra-generica (Ἔστι δ' ὧν χρῶνται ἐν ταῖς ἀποδεικτικαῖς

ἐπιστήμαις τὰ μὲν ἴδια ἑκάστης ἐπιστήμης τὰ δὲ κοινά, κοινὰ δὲ κατ' ἀναλογίαν, ἐπεὶ χρήσιμόν γε ὅσον ἐν τῷ ὑπὸ τὴν ἐπιστήμην γένει, ARIST., An. post., I, 10, 76 a 37 - 39). È necessario

altresì sottolineare che la conoscenza scientifica posta in forma deduttiva, così come ci è presentata dagli Analitici primi e secondi, non è il modo col quale si ottiene la scienza,

bensì quello con cui si mettono in ordine le conoscenze scientifiche183. Infatti nelle

pagine aristoteliche la viva ricerca scientifica è difficilmente ascrivibile all’interno dei moduli deduttivi che troviamo negli Analitici, e questo perché per Aristotele, come abbiamo visto riguardo alla ricerca della definizione di anima nel De anima, è spesso necessario partire da ciò che è più noto per noi al fine di raggiungere ciò che è più noto in assoluto184, e fare sempre i conti, dialetticamente, con le opinioni dei predecessori.

Ciononostante il divieto della metabasis, richiesto dal principio della

183 “The most plausible account seems to be that the treatise provides a model not for research, but for

justification of the scientist’s claim to have acquired genuine knowledge” (Ivi, pp. 111).

184 Vedi supra, p. 45 per il cosiddetto metodo induttivo, e l’intero cap. 1 del De anima per quanto riguarda

128

compartimentazione del sapere, costituisce una cornice metodologica dalla quale la ricerca aristotelica non fuoriesce. In sintesi: l’interdisciplinarietà del De motu

animalium è potentemente analogica, e anziché mettere in crisi la struttura gnoseologica

del Corpus Aristotelicum ne mette in luce le potenzialità185.

Naturalmente è il ruolo eminente assunto dal pneuma nel trattato ciò che ci interessa in primo luogo. A tal proposito una premessa necessaria alla nostra indagine è che, vista la totale estraneità dello pseudo-aristotelico De spiritu al panorama degli scritti

aristotelici autentici, riconosciuta da tutti gli studiosi, il De motu animalium non ha

alcun rapporto con esso, tantomeno di derivazione o di diretto riferimento. Infatti, quando Aristotele scrive di aver parlato altrove del mantenimento del pneuma connaturato (ARIST, De mot. an., 10, 703 a 10 - 11) non c’è ragione di ritenere che il riferimento sia diretto al De spiritu, giacché vi sono passi autentici nei quali Aristotele parla della pneumatizzazione del sangue, e non occorre andare a cercare nel panorama tardo un trattato di dubbia inautenticità.

Similmente, l’analogia del corpo umano con una città ben ordinata e la localizzazione dell’anima nel cuore sono oggi, alla luce delle posizioni storiografiche contemporanee che abbiamo affrontato nel secondo capitolo, assolutamente compatibili

con l’appartenenza del De motu animalium al Corpus Aristotelicum186. Inoltre i

riferimenti di altre opere del Corpus al De motu animalium, che vedremo più avanti, non lasciano adito a dubbi riguardo alla complementarietà delle posizioni teoretiche da esse veicolate con l’opera sul movimento animale. Del resto è proprio nel De anima che troviamo il riferimento più pervasivo del Corpus Aristotelicum alla struttura e agli argomenti del De motu animalium. Vale la pena citarlo per esteso, e compiere una breve ricognizione delle righe che lo precedono, perché, assieme a due passi della Fisica su cui ci soffermeremo, costituisce la migliore introduzione possibile alla struttura del trattato ed ai temi in esso affrontati.

ἐπεὶ δ' ἔστι τρία, ἓν μὲν τὸ κινοῦν, δεύτερον δ' ᾧ κινεῖ, ἔτι τρίτον τὸ κινούμενον, τὸ δὲ κινοῦν διττόν, τὸ μὲν ἀκίνητον, τὸ δὲ κινοῦν καὶ κινούμενον, ἔστι δὴ τὸ μὲν ἀκίνητον τὸ πρακτὸν ἀγαθόν, τὸ δὲ κινοῦν καὶ κινούμενον τὸ ὀρεκτικόν (κινεῖται γὰρ τὸ κινούμενον ᾗ ὀρέγεται, καὶ ἡ ὄρεξις κίνησίς τίς ἐστιν, ἡ ἐνεργείᾳ), τὸ δὲ κινούμενον τὸ ζῷον· ᾧ δὲ κινεῖ ὀργάνῳ ἡ ὄρεξις, ἤδη τοῦτο σωματικόν ἐστιν - διὸ ἐν τοῖς κοινοῖς σώματος καὶ ψυχῆς ἔργοις θεωρητέον περὶ αὐτοῦ. νῦν δὲ ὡς ἐν κεφαλαίῳ εἰπεῖν, τὸ κινοῦν ὀργανικῶς ὅπου ἀρχὴ καὶ τελευτὴ τὸ αὐτό - οἷον ὁ γιγγλυμός· ἐνταῦθα γὰρ τὸ κυρτὸν καὶ τὸ κοῖλον τὸ μὲν τελευτὴ τὸ δ' ἀρχή (διὸ τὸ μὲν ἠρεμεῖ τὸ δὲ κινεῖται), λόγῳ μὲν ἕτερα ὄντα, μεγέθει δ' ἀχώριστα. πάντα γὰρ ὤσει καὶ ἕλξει κινεῖται· διὸ δεῖ, ὥσπερ ἐν κύκλῳ, μένειν τι, καὶ ἐντεῦθεν ἄρχεσθαι τὴν κίνησιν. ὅλως μὲν οὖν, ὥσπερ εἴρηται, ᾗ ὀρεκτικὸν τὸ ζῷον, ταύτῃ αὑτοῦ 185 Vedi supra, pp. 6 - 7.

186 La Nussbaum in Aristotle, De motu animalium, cit., p. 8 sostiene che “It would be difficult to find any

129

κινητικόν· ὀρεκτικὸν δὲ οὐκ ἄνευ φαντασίας· φαντασία δὲ πᾶσα ἢ λογιστικὴ ἢ αἰσθητική. ταύτης μὲν οὖν καὶ τὰ ἄλλα ζῷα μετέχει.

Poiché ci sono tre cose: una il motore, la seconda ciò con cui muove, la terza ciò che è mosso, e il motore è duplice: uno immobile, l’altro motore mosso, il motore immobile è allora il bene che è oggetto dell’azione, il motore mosso è la facoltà appetitiva (giacché ciò che è mosso è mosso in quanto appetisce, e la tendenza è una specie di movimento o una attività), e ciò che è mosso è l’animale, mentre lo strumento con cui la tendenza muove è senz’altro corporeo, e perciò lo si deve esaminare tra le funzioni comuni al corpo e all’anima. Ora, per esprimerci sommariamente, ciò che muove in quanto strumento si trova lì dove principio e fine si identificano, com’è, ad esempio, la giuntura, qui infatti il convesso e il concavo costituiscono la fine e il principio (per questo il secondo è in quiete, mentre il primo si muove), essendo diversi logicamente, ma inseparabili per la grandezza. Infatti tutte le cose si muovono per spinta e per trazione, e perciò, come in un cerchio, deve esserci un punto che rimanga fermo e da cui abbia inizio il movimento. In generale dunque, come si è detto, è in quanto ha la facoltà di tendere che l’animale è capace di muovere se stesso, e non possiede questa facoltà senza l’immaginazione. Ogni immaginazione poi è razionale o sensitiva, e di quest’ultima sono forniti anche gli altri animali (ARIST., De an., III, 10, 14 – 30).

Il passo del De anima citato è la conclusione del capitolo decimo del terzo libro, che tratta della causa della locomozione animale: esattamente ciò che viene approfondito ed analizzato nel De motu animalium, a cui le ultime righe del testo fanno significativamente riferimento. In De an., III, 10 Aristotele identifica nella facoltà desiderativa o tendenza (orexis) la causa della locomozione animale. Ciò a cui l’animale tende è il punto di partenza del ragionamento dell’intelletto pratico, che sulla base di esso elabora una sequenza di azioni in grado di consentirgliene il raggiungimento, e assume come punto di partenza dell’azione l’ultimo termine delineato nella sequenza pratica, quello che rientra nelle sue possibilità immediate e può mettere in moto l’intera

catena causale costruita mentalmente (καὶ ἡ ὄρεξις ‹δ'› ἕνεκά του πᾶσα· οὗ γὰρ ἡ ὄρεξις, αὕτη

ἀρχὴ τοῦ πρακτικοῦ νοῦ, τὸ δ' ἔσχατον ἀρχὴ τῆς πράξεως, ARIST., De an., III, 10, 433 a 15 - 16). Ciò a cui tende il desiderio può essere presente sia nella sensazione in atto, come quando un lupo vede in lontananza un agnello e si dirige verso di esso mosso dal sovvenuto desiderio di cibarsene, sia sotto forma di phantasmata, come quando immagino di essere in un posto e mi adopero, mosso dal desiderio di realizzare la mia immaginazione, per esserci il prima possibile. Infatti anche la fantasia può mettere in moto la orexis, ma senza di questa non è mai in grado di muovere, similmente a quanto accade per l’intelletto pratico, giacché il desiderio può muovere senza quest’ultimo, mentre esso non può muovere senza il desiderio. La differenza tra un’azione condotta sotto la guida dell’intelletto pratico e una condotta senza di esso è che l’azione secondo

130

l’intelletto pratico è retta, perché il suo orektòn coincide col vero bene187, mentre quella

svincolata da esso può essere anche scorretta, perché può perseguire un bene apparente. Il fatto che sia possibile, negli esseri dotati di intelletto pratico, che la tendenza possa di volta in volta orientarsi seguendo la guida di quest’ultimo oppure rifuggendola, può far sorgere un conflitto tra orexis razionale e irrazionale.

Aristotele sottolinea che il conflitto tra le due orexeis ha come cornice epistemologica la coscienza della dimensione temporale. Infatti il desiderio irrazionale mira all’immediato e non possiede una programmazione a medio termine, mentre quello sottoposto all’intelletto pratico guarda al futuro e porta avanti un genere di programmazione foriera di risultati positivi maggiori della prima, ma non immediati. Ad esempio un uomo dotato di una determinata somma di denaro può scegliere tra spenderla nell’immediato acquistando certi capi di abbigliamento che suscitano il suo desiderio mentre cammina per la strada, oppure aspettare il periodo dei saldi e acquistare un maggior numero di capi spendendo la stessa cifra. La possibilità che si dia un simile conflitto conduce Aristotele a concludere che la facoltà appetitiva, ed in particolare l’orekton che muove senza essere mosso perché è avvertito in atto o presente nella phantasia o ancora come correlato dell’intelletto pratico, è una quanto all’essenza ma molteplice quanto al numero (εἴδει μὲν ἓν ἂν εἴη τὸ κινοῦν, τὸ ὀρεκτικόν, ᾗ ὀρεκτικόν - πρῶτον δὲ πάντων τὸ ὀρεκτόν· τοῦτο γὰρ κινεῖ οὐ κινούμενον, τῷ νοηθῆναι ἢ φαντασθῆναι - ἀριθμῷ δὲ πλείω τὰ κινοῦντα, ARIST., De an., III, 10, 433 b 11 - 13): una formula che abbiamo visto essere stata utilizzata già in riferimento alla facoltà sensitiva.

Al termine di questa disamina Aristotele scrive il passo che abbiamo citato, e che rimanda direttamente alla più approfondita trattazione del De motu animalium, proponendo in maniera concisa uno schema di interazione di quattro elementi per spiegare il funzionamento della facoltà desiderativa, il tutto in un’ottica ilomorfica che guarda al funzionamento dell’intero composto umano.

Motore immobile Motore mosso Ciò con cui (il motore)

muove

Ciò che è mosso

Il bene pratico (razionale o

La facoltà appetitiva

Lo strumento corporeo con cui il motore

L’animale nella sua unitarietà

187 In questo contesto si tratta sempre di un bene praktòn, non di qualunque bene. Il bene praktòn è quel

bene conseguibile mediante un’azione, e pertanto caratterizzato dal poter essere anche altrimenti (πρακτὸν δ' ἐστὶ τὸ ἐνδεχόμενον καὶ ἄλλως ἔχειν, ARIST., De an., III, 10, 433 a 30).

131

irrazionale) (orexis) (immobile e mosso)

muove l’animale

ilomorfica

Aristotele, trattando dello strumento corporeo, offre sommariamente una serie di rilievi: i moti dell’animale hanno la loro origine nelle giunture, costituite da una parte concava e da una parte convessa, che sono spazialmente inseparabili ma distinte dal punto di vista operativo, giacché la prima è immobile mentre la seconda è mobile; il movimento articolare, grazie a cui avviene la locomozione dell’individuo che muovendo le articolazioni delle gambe e delle braccia può spostarsi localmente, è a sua volta causato da qualcos’altro, cioè da quello strumento che si trova in esse, “dove principio e fine s’identificano”. Questo strumento è il pneuma connaturato, che nel De

anima non viene mai citato espressamente, ma ottiene in esso l’impalcatura concettuale

all’interno della quale esercitare il suo ruolo eminente. Le righe 19 - 30 di De an., III, 10, 433 b sono infatti un compendio dei temi strutturanti buona parte del trattato

stesso188, e sono inserite in un contesto ilomorfico talmente marcato, dove linguaggio

strumentale e inestricabilità del sinolo convivono pacificamente189, che l’appartenenza e

la compatibilità del De motu animalium col resto del Corpus Aristotelicum non possono essere messe in dubbio.

Il De anima offre, in sostanza, una spiegazione concettuale generica della motilità animale, tutta centrata sull’operatività della facoltà locomotoria e sul suo dinamismo, dal quale emerge una informazione che merita di essere approfondita per poter comprendere appieno la teoria aristotelica: si tratta della presenza necessaria di un bene pratico come motore immobile del processo locomotorio. Infatti gli animali non si muovono autonomamente tout court, svicolati da qualsiasi causalità fisica, bensì, essendo inseriti in una natura ilomorfica con la quale interagiscono, innestano la loro locomozione spontanea su un insieme di processi fisiologici che si realizzano nel rapporto tra l’uomo e l’ambiente, senza tuttavia dipendere da essi in maniera immediatamente consecutiva.

Nell’ottavo libro della Fisica Aristotele scrive che la causa dell’autocinesi degli animali non deriva dagli animali stessi, ma tale affermazione, che è opportuno vedere dettagliatamente nel suo contesto, non può essere intesa come il semplice riconoscimento che il principio del movimento animale proviene dall’esterno, oppure

188 Cfr. Nussbaum in Aristotle, De motu animalium, cit., p. 9. 189 Vedi supra, pp. 42 - 46.

132

che consiste in una reazione a stimoli esterni. Ben Morrison ha sottolineato al riguardo che “Aristotle is simply not interested in Phys. VIII 2 and 6 in the further role that the objects of desire and thought play in the account of animal motion: all that matters for

the argument there is that the soul is responsible for those motions”190. Qualsiasi

possibile risoluzione della difficoltà, capace di salvare la spontaneità del moto animale senza rinunciare alla valorizzazione dell’interazione con l’ambiente circostante, deve in primo luogo partire dal riconoscimento che la dicotomia esterno-interno non appartiene al pensiero aristotelico. Per armonizzare l’autocinesi animale con la griglia concettuale del De anima e con il De motu animalium, dobbiamo rivolgerci ai due passi della Fisica in cui si parla della spontaneità del moto degli animali: Phys. VIII 2, 253 a 7 – 21; e 6, 259 b 1 - 22. Iniziamo dal primo.

μάλιστα δ' ἂν δόξειεν τὸ τρίτον ἔχειν ἀπορίαν, ὡς ἐγγιγνομένης οὐκ ἐνούσης πρότερον κινήσεως, τὸ συμβαῖνον ἐπὶ τῶν ἐμψύχων· ἠρεμοῦν γὰρ πρότερον μετὰ ταῦτα βαδίζει, κινήσαντος τῶν ἔξωθεν οὐδενός, ὡς δοκεῖ. τοῦτο δ' ἐστὶ ψεῦδος. ὁρῶμεν γὰρ ἀεί τι κινούμενον ἐν τῷ ζῴῳ τῶν συμφύτων· τούτου δὲ τῆς κινήσεως οὐκ αὐτὸ τὸ ζῷον αἴτιον, ἀλλὰ τὸ περιέχον ἴσως. αὐτὸ δέ φαμεν αὑτὸ κινεῖν οὐ πᾶσαν κίνησιν, ἀλλὰ τὴν κατὰ τόπον. οὐδὲν οὖν κωλύει, μᾶλλον δ' ἴσως ἀναγκαῖον, ἐν μὲν τῷ σώματι πολλὰς ἐγγίγνεσθαι κινήσεις ὑπὸ τοῦ περιέχοντος, τούτων δ' ἐνίας τὴν διάνοιαν ἢ τὴν ὄρεξιν κινεῖν, ἐκείνην δὲ τὸ ὅλον ἤδη ζῷον κινεῖν, οἷον συμβαίνει περὶ τοὺς ὕπνους· αἰσθητικῆς μὲν γὰρ οὐδεμιᾶς ἐνούσης κινήσεως, ἐνούσης μέντοι τινός, ἐγείρεται τὰ ζῷα πάλιν.

Ma soprattutto la terza obiezione sembrerebbe presentare difficoltà, giacché essa si fonda sul fatto che si genera un movimento che prima non esisteva, come si riscontra negli esseri animati: difatti, ciò che prima era in quiete, di poi cammina, senza che nessuna delle cose esterne, a quanto sembra, lo abbia mosso. Ma questo è falso. Infatti, noi vediamo che sempre si muovo nell’animale qualche innata parte: e del movimento di questa non è causa lo stesso animale, ma forse l’ambiente che lo contiene. E noi diciamo che l’animale muove se medesimo non secondo ogni movimento, ma solo secondo quello locale. Pertanto nulla vieta, anzi è, forse, necessario che nel corpo si generino molti movimenti dell’ambiente che lo contiene, e alcuni di questi muovono il pensiero e l’appetito, e quest’ultimo muove ormai l’intero animale, come accade durante il sonno: infatti, pur non essendoci alcun movimento sensibile, ma tuttavia essendoci un qualche movimento, gli animali di nuovo si destano (ARIST., Phys., VIII, 2, 253 a 7 - 21).

Il contesto in cui il passo si trova inserito è dominato dal principio secondo cui ogni cambiamento si dà solo a partire da un cambiamento precedente: un principio che sembra essere messo in discussione dalla spontaneità del moto animale, il quale si genera anche quando, apparentemente, non proviene alcuno stimolo dall’ambiente circostante. In realtà, sottolinea Aristotele, gli animali possiedono una spontaneità solamente riguardo al moto locale, mentre gli altri tipi di mutamento gli sono

comunicati dall’ambiente circostante in un costante interscambio191. Sono questi

mutamenti del composto ilomorfico che permettono la messa in moto del processo

190 B. Morrison, “Self-motion in Phys. VIII”, in A. Laks e M. Rashed (a cura di), op. cit., p. 77.

191 “The animal was not actually genuinely at rest; for there is always something changing or moving in

an animal. These changes are caused – perhaps – by the environment, and so do not qualify as self- movements” (B. Morrison, op. cit., in A. Laks e M. Rashed (a cura di), op. cit., p. 69).

133

locomotorio, il quale in molte occasioni, e soprattutto negli esseri umani dotati di intelletto pratico, opera una mediazione che innesta sui mutamenti qualitativi e quantitativi il moto locale secondo una spontaneità che non appartiene alle forme di mutamento ad esso sottoposte. Su questi tipi di mutamento, e sul ruolo che riveste l’anima nel processo locomotorio, Aristotele ritorna nel sesto capitolo dello stesso libro della Fisica, laddove spiega che per esserci un moto continuo nell’universo deve, anche, esserci un primo motore immobile ed incorruttibile.