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Un po’ di storia

Fu nell’estate del 1977 che il Parlamento approvò la legge che rimarrà famosa come Legge 517, caposaldo importantissimo per il futuro della scuola italiana, ma anche vero e proprio “cavallo di Troia” nel bel mezzo della nostra cultura, che, da sempre, etichettava il diverso come paria della società, come indesiderato ed intruso. Cos’è dunque che rende questa legge così speciale e così significativa per una ridefinizione del concetto di “diversità” e di “normalità”?

L’art. 2 recita così:

Ferma restando l’unità di ciascuna classe, al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la promozione della piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative organizzative per gruppi d’alunni della stessa classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni. Nell’ambito di tali attività la scuola attua forme d’integrazione a favore degli alunni portatori di handicap con la prestazione d’insegnanti specializzati assegnati ai sensi dell’art. 9 del decreto del Presidente della repubblica 31 ottobre 1957, n. 970, anche se appartenenti ai ruoli speciali ai sensi del quarto comma dell’articolo 1 della legge 24 settembre 1971, n. 820. Devono inoltre essere assicurati la necessaria integrazione specialistica, il servizio socio-psico-pedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive competenze dello Stato e degli Enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal Consiglio scolastico distrettuale.

A queste affermazioni si aggiunga, come importante corollario, quanto scritto all’art. 7, ultimo comma: «Le classi d’aggiornamento e le classi differenziali, previste dagli articoli 11 e 12 della legge 31 dicembre 1962, n. 1859, sono abolite».

Le farraginose parole del testo legislativo forse non danno la sufficiente dimensione della loro importanza, del loro aperto ed anche intrinseco significato. Forse allora questo concetto non era, non lo poteva essere, così chiaro ed evidente come lo è adesso, ad un’attenta e profonda riflessione di quella legge. Nascere disabile, o per meglio dire diversamente abile, non avrebbe più voluto dire essere discriminato fin dall’infanzia a causa di luoghi riservati e chiusi, creati per nascondere, appartare, emarginare chi era nato o divenuto un “diverso”. Certamente, in quei giorni, le famiglie di ragazzi diversabili non si resero conto che di lì a qualche anno i loro figli, non più figli di un Dio minore avrebbero potuto uscire da casa per andare a scuola, come tutti gli altri figli, come tutti gli altri alunni che salutavano il primo giorno di scuola come una gioia e non come un’infamia.

E così fu. Nel giro di alcuni anni le scuole cominciarono ad accogliere chi per secoli era stato rifiutato e ghettizzato. Naturalmente la storia ci dice che non furono, come si suol dire, tutte rose e fiori, perché ben presto si cominciarono a vedere e a sentire anche le spine. “Inserire” stava diventando facile, ma “integrare”, molto meno. E dopo? Arrivato a 18 anni, preso il diploma di terza media, cosa avrebbe potuto fare il diversabile, se non ritornare a chiudersi nelle mura di casa? Ma l’educazione non poteva fermarsi nelle aule scolastiche, perché, contemporaneamente al superamento del concetto di mera trasmissione di modelli culturali e sociali, si andava sempre più facendo strada il concetto di educazione come cambiamento (Van Den Berg, 1967; Demetrio, 1990), come dimensione totale della vita, legata all’individuo nella sua piena soggettività, nella ricerca costante di una crescita intellettiva, fisica, sociale.

In realtà, però, se ci limitassimo solamente a citare la Legge 517, faremmo un grave atto di omissione, non parlando di un’altra legge, anch’essa determinate nell’ottica di una demolizione, anche se lenta e difficile, della segregazione e dell’esclusione di alcuni individui, segnati dal pregiudizio della diversità.

Il processo di deistituzionalizzazione ha, specie in Italia, una storia intensa, legata al nome di Franco Basaglia. Basaglia, psichiatra e direttore dei manicomi di Gorizia e

Trieste dai primi anni Sessanta, riteneva che l’ospedale psichiatrico fosse patogeno nel suo complesso e che dovesse quindi andare distrutto dall’interno. Le esperienze comunitarie britanniche e gli studi di Goffman (oltre al favorevole clima politico italiano di quegli anni) lo convinsero ad attuare un’operazione a vasto raggio di smantellamento del manicomio e di trattamento “territoriale” degli ex degenti. Questa operazione capillare si concretizzò poi nella riforma del 1978 (Mariani,1992, p. 52).

Si arrivò così alla Legge 180/78 (successivamente inserita nella Legge n. 833/78 di Riforma sanitaria), altro numero significativo al di là dalle tre cifre apparentemente insignificanti, ad aprire nuove prospettive di integrazione e di abbattimento di vecchi pregiudizi.

Anche il malato di mente vide, dunque, crollare davanti a sé le mura di una millenaria istituzione chiusa e segregante, quale il manicomio e, improvvisamente, si trovò protagonista in una realtà che aveva dimenticato e che lo aveva dimenticato. Si arrivò così alla costruzione, in tutte le Unità Sanitarie Locali, di una rete di sevizi quali strutture residenziali, semiresidenziali, territoriali, in grado di fornire un intervento integrato con riguardo alla riabilitazione e alla gestione della crisi.

Fu dunque la Legge n. 833/78, una pietra miliare nella riorganizzazione del servizio sociosanitario, che istituì le Unità Sanitarie Locali, sancendo appunto l’obbligatorietà della gestione integrata dei servizi Sociali con quelli Sanitari9. Nel 1977 il D.P.R. 616/77 aveva trasferito alle Amministrazioni Locali le funzioni amministrative statali, e in particolare l’art. 25 del D.P.R. che attribuiva ai Comuni «Tutte le funzioni amministrative relative all’organizzazione ed all’erogazione dei Servizi di assistenza e beneficenza, di cui agli articoli 22-233 […] ai sensi dell’articolo 118 primo comma della Costituzione».

Negli anni Settanta comunque furono emanate anche altre leggi di rilievo e di ampio respiro sociale, che portarono all’istituzione dei consultori familiari (L. n. 405 del 29/7/75), cui fecero seguito le norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza (L. n. 194 del 22/5/78). Da ricordare la Legge n. 685 del 22/12/75 (Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza); la precedente legge risaliva al 1954 (n. 1041/54 “Disciplina della produzione del commercio e dell’impiego degli stupefacenti”); comunque la 685/75 verrà completata dalla legge n. 162/90 sviluppata e organizzata nel T.U. emanato nel successivo D.P.R. n. 309/90. Questa legge ha rappresentato un passo importante potenziando il servizio pubblico per le tossicodipendenze prevedendo un SER.T. presso ogni U.S.L. secondo i moduli organizzativi e funzionali raccolti nel D.M. n. 444/90 contenuto nel T.U.. Per la sua attuazione la Regione Toscana emanò la L.R. n. 51/91 “Istituzione e funzionamento dei SER.T.”, completata dal “Progetto Obiettivo” (delibera n. 161 del 18 marzo 1992).

Altra legge significativa è stata quella che prevedeva la presenza di assistenti volontari a sostegno di detenuti al fine di un loro recupero sociale (L. n. 354/75), ma soprattutto quella, di portata storica, che ha dato l’avvio alla possibilità dell’obiezione di coscienza al servizio militare (L. n. 772/72), che nel corso degli anni successivi ha modificato profondamente la struttura sociale del nostro Paese, con un costante aumento di adesioni, soprattutto dopo la semplificazione delle procedure di richiesta e l’equiparazione al servizio militare in termini di periodo di ferma, fino ad arrivare all’attuale legge sul Servizio Civile10.

La società stava cambiando e le nuove leggi, le nuove normative affondavano le radici in un movimento di pensiero e di lotta sociale che alla fine degli anni Sessanta aveva iniziato a scardinare un sistema rigido e spesso repressivo, soprattutto nei confronti della diversità.

Il ’68 ha fatto capire che i deboli di tutto il mondo possono e debbono unirsi e che nell’unione possono fare a meno delle stampelle, darsi una mano, collaborare e soprattutto abbattere la muraglia, lanciando messaggi al di là di essa. Qualcuno nella società capirà i loro problemi, le mani si uniranno ad altre mani e così finalmente potranno penetrare al di qua della muraglia che li ha sempre divisi (Iesu, 1991).

Ma quali mani avrebbero potuto penetrare questa muraglia fisica, e soprattutto psicologica? Il problema assunse dunque una connotazione sociale per un aspetto così difficile da accettare e da affrontare come il malato di mente, da secoli interdetto da ogni occupazione, isolato, per paura culturale della diversità esistenziale tipica del malato (cfr. Ulivieri, 1997). Il passaggio dall’ospedale psichiatrico al territorio scardinava dunque la visione monolitica della malattia incurabile e la rendeva potenzialmente recuperabile (cfr. Mariani, 1992).

9

Con i successivi D.L. n. 502/92 e D.L n. 517/93 le U.S.L. sono state trasformate in Aziende S. L. configurandosi come organizzazione regionale e non più comunale con un proprio regolamento.

10

Cfr. Legge del 24 ottobre 2000 (abolizione del Servizio militare obbligatorio) e Legge del 15 febbraio 2001 (legge sul servizio civile).

Nel caso del diversabile la famiglia aveva trovato una via di uscita, almeno per un po’ di anni, nella scuola, ma per la famiglia del malato di mente era una via di entrata, un rientro spesso non gradito, non accettato, non condiviso. Non era facile riaprire una ferita, ridare fiato ad una speranza, quando solo poco tempo prima quella stessa società scientifica che cominciava a parlare di speranza l’aveva sempre negata ed aveva indirizzato le famiglie a tagliare ogni cordone, ogni filo che riconducesse il malato di mente non in luoghi segreganti, ma nella vita stessa del consenso umano.

Così si chiudevano gli anni Settanta, pieni di grandi promesse, di grandi speranze, ma anche privi di qualunque riferimento pedagogico e sociale, che non fosse talvolta solo buona volontà o improvvisazione.