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La figura e il ruolo dell’operatore socio-educativo

Bisogna qui, se pur celermente, sottolineare l’importanza della figura dell’educatore/trice, estremamente complessa per la varietà dei ruoli che implica e per la varietà di situazioni, talvolta contrastanti, soprattutto per il congiungersi di funzioni identiche svolte con livelli diversi, sia pur differenziandosi da cooperativa a cooperativa, o convivendo addirittura nella stessa cooperativa. Qui riaffiora il vecchio stereotipo dell’insegnante “missionario”, che si applica anche in questa nuova professione educativa che è appunto l’operatore educativo extrascolastico.

L’immaginario spinge la figura professionale dell’educatore verso una “perfezione incontaminata” fatta di “buone azioni” e di ‘buoni intenti” dove l’educatore non ha una vita privata ma è tutto dedito alla sua “missione”. La stessa cinematografia ci ha presentato educatori che non hanno bisogno di spazi privati, né di una vita passata ma che esistono nella misura e dal momento in cui aderiscono al modello: vita uguale professione (Gerosa, 1998, p. 23).

Chi, in proposito, non ricorda il professore de L’attimo fuggente o de La scuola della violenza, o l’insegnante nelle carceri siciliane di Mary per sempre? Per non parlare del neuropsichiatra de Il grande

cocomero, che poi è storia vera. Tutte figure che vivono il loro presente, dopo aver tagliato con un nebuloso

passato, fatto di rapporti così poco duraturi e così fugacemente accennati. Ma non solo essi sono personaggi che rinunciano a carriere brillanti per confondersi e stemperarsi nella loro missione educativa, sia essa in un

College dell’alta borghesia, o un sobborgo di Londra o un carcere minorile, essi non hanno, o non hanno

saputo mantenere, rapporti duraturi di tipo sentimentale. È questo che li accomuna, ed è questo che la figura dell’educatore maschio recepisce; infatti i tre protagonisti sono maschi. Non mancano però le figure femminili che spaziano molto di più nella letteratura, si pensi a Torey Hayden su tutte, così come nella filmografia dove la protagonista è al femminile (Anna dei miracoli, per esempio, che ci racconta di una educatrice essa stessa diversabile). Questa situazione nel nostro Paese è di grande rilevanza data l’altissima femminilizzazione dell’insegnamento prima, e del ruolo educativo in generale dopo. Prevale infatti lo stereotipo della donna madre, e quindi della donna che può anche essere “materna” con chi non è suo figlio. Questo comunque è un altro aspetto da considerare, cioè la prevalenza del sesso femminile e la difficoltà talvolta di assumere ruoli non “apparentemente” propri, che possono creare problemi di identità e di ruolo professionale. Ed è in questo senso che, comunque, le cose stanno cambiando e sempre più ci si incammina

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In questo senso l’appartenenza ad una Centrale Cooperativa fa la differenza in chiave politica e quindi ideologica e di scelta operativa.

verso l’idea non tanto di una “intercambiabilità” dei ruoli, femminile e maschile, quanto una loro “complementarità educativa”, che si pone sullo stesso piano e non su dimensioni diverse. È il caso di Victor, il ragazzo selvaggio educato da Itard, ma seguito emotivamente da Madame Guerin, mentre diversa è la posizione nel recente film Nell15, dove i due si trasformano in medici, maschio e femmina, che avvicinano la ragazza selvaggia del XX secolo, condividendo egualmente, sia pure con ruoli diversi, la responsabilità educativa (cfr. Mannucci, 1997b).

L’operatore/trice professionale opera infatti principalmente in contesti extrascolastici dove sono presenti situazioni di disagio, o dove è necessario fare un’opera di prevenzione sui processi che possono sottoporre le persone a rischio di emarginazione sociale e/o di devianza (cfr. Crisafulli, 2003), svolgendo la propria attività mediante la formulazione e la realizzazione di progetti caratterizzati da intenzionalità e continuità, volti allo sviluppo delle potenzialità, al recupero e all’integrazione dei soggetti in difficoltà. In proposito Donati (2001) individua quattro ambiti significativi: sociosanitario, sociale, penitenziario, formativo. Nell’area socio-sanitaria, l’educatore/trice è collocato nell’ambito delle professioni della riabilitazione ed è previsto in diversi settori d’intervento: psichiatria, neuropsichiatria infantile, dipendenze (tossicodipendenti e alcoolisti), diversabilità, anziani, operando in servizi diurni, residenziali, domiciliari, territoriali (ad esempio, nei servizi di inserimento lavorativo, nelle comunità alloggio, nelle case famiglie, nelle comunità terapeutiche, nei Centri di salute mentale, nei Centri socio-educativi) e nell’ambito di progetti di prevenzione attraverso interventi individualizzati e di gruppo. In merito si veda il D.M. della Sanità 8 ottobre 1998, n. 520, «Regolamento recante norme per l’individuazione della figura e relativo profilo professionale dell’educatore professionale», ai sensi dell’art. 6, comma 3, del D.L. 30 dicembre 1992, n. 502, che attualmente è il documento più significativo per gli educatori/trici professionali italiani, perché ne definisce il profilo professionale e il relativo percorso formativo. Il Decreto del M.I.U.R. del 2 aprile 2001: «Determinazione delle classi delle lauree universitarie delle professioni sanitarie», nell’ambito della classe 2 (professioni sanitarie della riabilitazione), ha poi definito il percorso degli studi dell’educatore/trice professionale che opera in campo sanitario (cfr. Crisafulli, 2003). In campo sociale opera nei settori di intervento del disagio minorile, educazione degli adulti, terza età, integrazione multiculturale, lavorando presso Centri di aggregazione, Centri sociali, sostegno educativo-domiciliare, Comunità alloggio, servizi di pronta accoglienza, case di riposo, servizi per l’integrazione lavorativa, attraverso interventi individuali e di gruppo. In questo settore la legislazione non ha prodotto uno specifico decreto relativo al profilo, ma la Legge 8 novembre 2000 n. 328 «Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato dei servizi sociali», all’art. 12, prevede alcuni profili di figure professionali sociali, tra cui anche l’educatore/educatrice professionale. Per quanto riguarda l’ambito sociale, l’unico riferimento legislativo è il Decreto M.I.U.R. del 4 agosto 2000 recante la «Determinazione delle classi delle lauree universitarie», che, nell’ambito della classe XVIII (Scienze dell’educazione e della formazione), ha definito il percorso di studi dell’educatore/educatrice che opera in quel settore. Questo titolo di laurea però non è riconosciuto dalla Sanità (lo è nel privato sociale), poiché non è collegato al D.M. 520/1998 sul profilo professionale, perciò non è ritenuto valido per accedere ai concorsi della sanità pubblica.

L’educatore/educatrice professionale dal Decreto del Ministero della Sanità 8 ottobre 1998, n. 520 viene definito come:

Operatore sociale e sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante (oggi laurea di primo livello, N.d.A.), attua specifici progetti educativi e riabilitativi, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato dall’equipe multidisciplinare, volti ad uno sviluppo equilibrato della personalità con obiettivi educativi-relazionali in un contesto di partecipazione e recupero della vita quotidiana; cura il positivo inserimento o reinserimento psicosociale dei soggetti in difficoltà.

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Il film «propone la storia di una giovane donna trovata in una foresta, da due medici, marito e moglie, che la seguono e l’aiutano a trovare la sua identità – e lei aiuta loro a capire qual è la sua identità – che non coincide con quella che loro vorrebbero attribuirle. Nell fa un percorso di vita, di formazione, di evoluzione con i due medici-amici e poi sceglie di tornare nel bosco e le viene riconosciuta la capacità di scelta; le viene pertanto permesso di tornare alla natura, che era la dimensione in cui lei stava bene, lontana dai pregiudizi e dalle risposte negative e giudicanti delle persone che incontrava per strada. Nell mantiene rapporti di amicizia con alcune persone che puntualmente vanno a trovarla e, alla fine del film, il medico la guarda mentre lei sta bene, lì vicino al lago, e si chiede cosa abbiano fatto lui e la moglie infondo per Nell. La risposta semplice, non scientifica, che gli viene data, da una persona semplice e non da un medico né da un giudice, è: “Voi per primi avete avuto bisogno di lei”. È particolarmente significativo questo aspetto che cambia la prospettiva dell’intervento: medicalizzare e omologare o rispettare e curare, nel senso pedagogico di “prendersi cura”?» (Mannucci - Collacchioni, 2009, p. 66).

Educare, nel suo significato etimologico di ex-ducere “trarre fuori”, non può perciò voler dire trasmettere modelli all’altro o trasmettere nozioni ma, piuttosto, aiutare l’altro a crescere recuperando e sviluppando la sua identità a partire dalle potenzialità che sono alla radice del suo essere personale, come cambiamento. Non si educa per quello che si dice o per le informazioni che si forniscono, ma per quello che si è (cfr. Piana, 2001). Ci sono, infatti, qualità, caratteristiche, modi di essere, che fanno parte della personalità di un individuo e che non si possono apprendere da Corsi universitari, da esperienze lavorative o da letture particolari, ma soltanto attraverso esperienze di vita (cfr. Gargiulo, 1987). La chiarezza, la disponibilità, il giusto coinvolgimento e l’interesse per gli altri, la sensibilità, la fiducia, l’apertura, il rispetto e la pazienza sono solo alcune delle peculiarità di un educatore/trice realmente formato/a, che sappia far fronte, con precisa cognizione, alle difficoltà e ai rischi a cui va incontro nel lavoro quotidiano. Naturalmente non tutti possiedono e conoscono sufficientemente tali attitudini, e la linea di condotta più concreta e realistica è quella di conoscere se stessi al meglio, per usare a livello ottimale le proprie caratteristiche personali. Nel rapporto con l’altro ognuno porta se stesso, il suo desiderio di aiutare, ma anche i suoi pregiudizi, i suoi limiti e una buona parte della propria vita. Una persona impara a piacere, ad essere desiderata e accettata essendo stata trattata in questo modo e trattando con le stesse modalità gli altri. Per attuare interventi significativi, è fondamentale il modo, l’atteggiamento, con cui ci si “approccia”, ci si accosta agli altri e in particolare alla famiglia, e se si assumono atteggiamenti “paternalistici”, “sostitutivi” e/o “colpevolizzanti”, non si creerà un clima collaborativo e di fiducia reciproca, ma si getteranno le basi per la nascita di un rapporto conflittuale che invaliderà l’intervento. Contro la messa in atto di un rapporto di dominanza sulla famiglia, che si manifesta, anche, con l’utilizzo eccessivo di un “gergo tecnico” con la tendenza a “inquisirla” e con la scarsa disponibilità all’ascolto, diventa particolarmente utile un atteggiamento aperto, disponibile e coinvolgente, anche se critico. E qui diventa fondamentale acquisire con chiarezza il “ruolo” professionale.