• Non ci sono risultati.

I

fIchInellaletteraturaagronomIca

:

dacatoneadagostInogallo

Il fico, insieme con la vite e l’olivo, da secoli è una presenza familiare per le po- polazioni mediterranee: non è un caso che la Genesi collochi proprio nel Paradiso terrestre un fico con le cui foglie fu confezionato il primo indumento per Eva e Adamo1. Nell’antichità, presso egizi, greci e romani, era considerato un albero sacro;

i suoi dolci frutti erano il nutrimento preferito degli atleti greci e anche Platone li raccomandava ai suoi studenti, perché – a suo dire – rinvigorivano l’intelligenza2.

Nel medioevo i trattati di medicina li consideravano, insieme con l’uva, gli uni- ci frutti che non nuocevano al corpo umano e rientravano nel novero dei cibi co- siddetti “semplici”, ossia capaci di fornire sostanze nutritive3; non sorprende, dun-

que, constatare come, dopo vite e olivo, al fico spetti un ruolo non secondario nell’ambito dello sviluppo dell’arboricoltura che si verificò nell’Italia dei secoli XIII-XIV: basti pensare agli appezzamenti destinati alla coltivazione specializzata che la documentazione segnala per Puglia, Sardegna e Liguria o ai 164 esempla- ri piantati a Firenze nel giardino di un ricco proprietario (Bonaccorso Pitti)4.

La storia del fico si è svolta, nel corso dei secoli, lungo le coordinate trac- ciate da un sapere rurale – costituito da nozioni teoriche ed esperienze pratiche –

1 Gn, 3, 7: «I loro occhi si aprirono e si resero conto di essere nudi. Perciò intrecciarono

foglie di fico intorno ai fianchi»; cfr. J. brosse, Storie e leggende degli alberi, Pordenone

1989 (ed orig. Paris 1987), pp. 87-92. Secondo alcune interpretazioni il frutto proibito sarebbe stato proprio un fico e non una mela; del resto un fico è raffigurato al posto del melo in molte opere d’arte, tra le quali mi limito a citare l’affresco di Michelangelo nella volta della Cappella Sistina. Su questo argomento, si vedano i contributi di Francesca Stroppa e Tiziana Zennaro in questo volume.

2 brosse, Storie e leggende cit.

3 M. nIcoud, I medici medievali e la frutta: un prodotto ambiguo, in Le parole della frutta.

Storia, saperi, immagini tra medioevo ed età contemporanea, a cura di I. Naso, Torino 2012, pp. 91-108; cfr. I. naso, «Ficus ceteris fructibus laudabilior est…». Un frutto speciale nella

letteratura medico-dietetica del tardo medioevo, in questo volume.

4 G. cherubInI, L’Italia rurale del basso Medioevo, Roma-Bari 1996, pp. 88-90; per l’inventario

degli alberi da frutto di un podere di Bonaccorso Pitti, ivi, p. 89; A. cortonesI, Produzioni

grazie al quale sono state messe a punto le tecniche di riproduzione e coltivazione della pianta ed è stato possibile selezionarne gli esemplari, incrementarne la pro- duttività e migliorare la qualità dei frutti. Di questo sapere si può ritenere che la parte essenziale sia confluita nei trattati agronomici, ai quali possiamo attingere per avere informazioni sul livello delle conoscenze via via acquisite riguardo al ciclo vegetativo della pianta e sul ruolo ad essa attribuito nell’ambito dei diversi sistemi agricoli. Non si possono tuttavia trascurare i numerosi interrogativi, di non facile e immediata soluzione, che accompagnano l’utilizzazione di questo tipo di testimonianza come fonte per la storia agraria: se e in quale modo la letteratura abbia avuto influenza sulle pratiche agricole del tempo; fino a che punto nella stesura del testo agronomico intervenga la componente di natura letteraria e in che misura, invece, l’autore faccia ricorso alla concreta esperienza personale; quali siano dimensioni, tipo e collocazione geografica della struttura di produzione agraria alla quale l’autore fa riferimento; quali i dati biografici dell’autore e il contesto entro cui si iscrive il suo interesse per l’agricoltura. Per non dire, poi, dei rapporti di dipendenza dei trattati da altre fonti agronomiche, sia più antiche che contemporanee, questione difficile da risolvere nel caso della trattatistica di età romana, della quale sono pervenuti solo i testi di quattro autori, Catone, Varrone, Columella, Palladio, ai quali si possono aggiungere il poema georgico di Virgilio – che, tuttavia, non riveste interesse ai fini del nostro lavoro – e alcuni capitoli dell’enciclopedia di Plinio il Vecchio all’interno dei libri di argomento botanico5. Molte sono le opere andate perdute di autori più volte citati,

sia romani che greci o punici. Di numerosi trattatisti romani – fra i quali si possono ricordare i due Saserna, padre e figlio, e Tremellio Scrofa, considerato da Varrone il maggior esperto in fatto di agricoltura6 – sono pervenuti solo frammenti, dei greci è

rimasto ancor meno e quasi nulla dei punici, sebbene anche questi ultimi abbia-no costituito per gli agronomi romani un importante punto di riferimento, tanto che

5 Sui trattati agronomici romani, v. A. marcone, Storia dell’agricoltura romana. Dal mondo

arcaico all’età imperiale, Roma 1997, pp. 15-38; A. saltInI, Storia delle scienze agrarie, 7

voll., Firenze 2010-2013 (I ed., 4 voll., Bologna 1984-1989), I. Dalle civiltà mediterranee al Rinascimento europeo, pp. 75-82; Id., Il sapere agronomico. Empirismo e sapere scientifico:

nasce a Roma la scienza agronomica, in Storia dell’agricoltura italiana, I. L’età antica, 2. L’età romana, a cura di G. Forni e A. Marcone, Firenze 2002, pp. 353-382.

6 Si è parlato in proposito di «letteratura agronomica romana sconosciuta»: J. kolendo,

L’agricoltura nell’Italia romana. Tecniche agrarie e progresso economico dalla tarda repubblica al principato, prefazione di A. Carandini, Roma 1980, p. 8. Sui Saserna e Tremellio Scrofa Id.,

Le traité d’agronomie des Saserna, Wroclaw 1973; marcone, Storia dell’agricoltura cit., p.

21; fra gli agronomi di cui si ha notizia indirettamente, si possono ricordare anche Gaio Giulio Igino (I d.C., Columella ne riprende alcune istruzioni sull’allevamento delle api, v. infra, p. 157), Giulio Attico (ricordato dallo stesso Columella), Giulio Grecino (I a.C.-I d.C., scrisse due libri di viticoltura), Gargilio Marziale (III d.C., autore di un trattato di orticoltura), nonché Cornelio Celso, al quale si devono alcune opinioni sulla redditività delle imprese agricole: cfr. kolendo,

lo stesso senato prese l’iniziativa di far tradurre in latino il trattato (in 28 libri) del famoso Magone cartaginese, più volte citato dagli scrittori latini e definito da Columella “padre dell’agricoltura” (rusticationis parens)7.

Tenendo, quindi, presenti queste considerazioni – nonché la marginalità della nostra pianta rispetto ai sistemi agrari ai quali i diversi trattati fanno riferimento, fatto che è a sua volta fonte di ulteriori difficoltà nell’inquadrare le informazioni da questi fornite – si esporrà quanto emerge dalla letteratura di argomento agrario riferita alla Penisola italiana. Come termine ultimo si assumerà l’opera del bresciano Agostino Gallo autore, dopo la metà del Cinquecento (1564-1572), di un testo (Le venti giornate della vera agricoltura e de’ piaceri della villa)8 considerato la prima

espressione moderna della scienza della coltivazione9, e come termine iniziale

prenderemo gli scrittori agrari latini giunti sino a noi, poiché la loro fortuna e la loro influenza vanno ben al di là della storia del mondo romano, costituendo essi un costante punto di riferimento per la trattatistica medievale e, in parte, anche per quella moderna.

Il più antico trattato pervenuto risale al II secolo a.C. ed è il De agri cultura di Catone10, una raccolta di massime empiriche per il governo della proprietà

rustica del patrizio romano organizzata in 162 capitoli. Nominato come una delle piante che non possono mancare in un possesso fondiario, il fico non è ogget- to di trattazione in uno specifico paragrafo, ma viene frequentemente menzio- nato laddove si parla dei diversi aspetti della coltivazione degli alberi. L’atten- zione per la pianta, quindi, si può ricondurre al più generale interesse per l’arbori- coltura che si fa strada a Roma nel II secolo a.C. con l’affermazione di un nuovo as- setto della produzione agraria: è il momento in cui questa passa da un’ottica sus- sistenziale ad una più speculativa, mentre la piccola proprietà contadina a coltura pro- miscua entra in crisi e si diffonde una nuova struttura produttiva di dimensioni

7 marcone, Storia dell’agricoltura cit., p. 19.

8 A. gallo, Le venti giornate della vera agricoltura e de’ piaceri della villa, Brescia 2003 (rist.

anastatica dell’edizione del 1775).

9 A. saltInI, Il sapere agronomico dall’aristotelismo alla poesia didascalica: la parabola

secolare della letteratura georgica, in Storia dell’agricoltura italiana, II. Il medioevo e l’età moderna, a cura di G. Pinto - C. Poni - U. Tucci, Firenze 2002, pp. 449-472, in particolare pp. 454-461.

10 caton, De l’agriculture, texte établi traduit et commenté par R. Goujard, Paris 1975

(d’ora innanzi catone). L’opera – che rappresenta anche il primo testo in prosa completo della

letteratura latina – analizza l’intero ciclo dell’attività di un proprietario terriero, dalla scelta del luogo in cui acquistare un podere alla costruzione degli edifici e delle strutture; la principale fonte d’ispirazione è costituita dall’esperienza personale e il riferimento geografico è a regioni che Catone, il quale possedeva una vasta proprietà terriera in Sabina, doveva conoscere bene: Lazio, Sabina, Campania. Sul patrimonio terriero di Marco Porcio Catone, si veda V. I. kuzIščIn,

La grande proprietà agraria nell’Italia romana, trad. it. Roma 1984 (ed. orig. Mosca 1976), pp. 21-37.

medio-grandi, la villa, lavorata intensivamente per produrre colture specializzate destinate alla commercializzazione11.

Nel trattato di Catone le indicazioni relative all’albero del fico delineano un percorso tematico che costituirà un modello per gli scrittori di agricoltura successivi: caratteristiche del terreno, tecniche di impianto e di allevamento, tipi di innesto, metodi per incrementare la produttività, rimedi per le malattie della pianta, sistemi di conservazione dei frutti, utilizzo delle foglie12. Si tratta di indicazioni pratiche,

che non lasciano posto a nozioni teoriche ma si concentrano sulle attività necessarie per mandare avanti una proprietà fondiaria. Nell’ambito di questa attenzione per la produttività, acquista un rilievo particolare l’innesto, pratica indispensabile per migliorare qualità e quantità dei frutti; Catone ne descrive due tipi, entrambi da farsi in primavera, fornendo istruzioni dettagliate per la loro esecuzione. Uno è adatto, oltre che per il fico, anche per olivo, vite, pero e melo, e si può assimilare a quello oggi definito “a marza-sottocorteccia”:

Oleas, ficos, pira, mala hoc modo inserito: quem ramum insiturus eris, prae- cidito, inclinato aliquantum, ut aqua defluat; cum praecides, caveto ne librum convellas. Sumito tibi surculum durum, eum praeacuito, salicem Graecum di- scindito; argillam vel cretam coaddito, harenae paululum et fimum bubulum, haec una bene condepsito, quam maxime uti lentum fiat. Capito tibi scissam salicem, ea stirpem praecisum circumligato, ne liber frangatur; ubi id feceris, surculum praeacutum inter librum et stirpem artito primoris digitos II; postea capito tibi surculum, quod genus inserere voles, eum primorem praeacuito oblicum primoris digitos II, surculum aridum, quem artiveris, eximito; eo artito surculum, quem inserere voles, librum ac librum vorsum facito, artito usque adeo, quo praeacueris. Idem alterum surculum, tertium, quartum facito; quot genera voles, tot indito. Salicem Graecam amplius circumligato, luto depsto stirpem oblinito digitos crassum tres; insuper lingua bubula obtegito, si pluat, ne aqua in librum permanet; eam linguam insuper libro alligato, ne cadat. Po- stea stramentis circumdato alligatoque, ne gelus noceat13.

L’altro, consigliato solo per fico e olivo, si presenta come un innesto “a gemma”:

11 Sulle trasformazioni nel sistema di produzione agraria romana a partire dal II secolo a.C.: A.

carandInI, La villa romana e la piantagione schiavistica, in Storia di Roma, a cura di A. Schiavone,

IV, Torino 1989, pp. 101-200; E. lo cascIo, La proprietà della terra, i percettori dei prodotti e della

rendita, in Storia dell’agricoltura italiana, I, L’età antica. 2. Italia romana, a cura di G. Forni e A. Marcone, Firenze 2002, pp. 259-313, il quale argomenta, sulla base delle ricerche degli ultimi anni, la non generalizzabilità del modello della villa e la persistenza della piccola unità contadina.

12 Le foglie del fico sono raccomandate in modo particolare per l’alimentazione dei bovini du-

rante i mesi invernali: «Bubus frondem ulmeam, populneam, querneam, ficulneam, usque dum habebis, dato» (catone, XXXIII [30], p. 36 e LXIII [54], p. 52).

Ficos et oleas altero modo: quod genus aut ficum aut oleam esse voles, inde librum scalptro eximito; alterum librum cum gemma de eo fico, quod genus esse voles, eximito, adponito in eum locum unde exicaveris in alterum genus facitoque uti conveniat; librum longum facito digitos III, latum digitos III. Ad eundem modum oblinito, integito, uti cetera14.

L’autore accenna anche al metodo di propagazione per polloni15 e alla con-

servazione dei frutti essiccati o freschi, consigliando, nel primo caso, di collocarli dopo l’essiccazione in vasi di terracotta spalmati di amurca cotta, la morchia, ossia il residuo dell’olio di oliva costituito da sostanze grasse e legnose: «fici aridae si voles uti integrae sint, in vas fictile condito; id amurca decocta unguito»16; nel

secondo, di avvolgerli nelle foglie e poi immergerli nella amurca17.

Il successivo trattato, posteriore di quasi un secolo (I a.C.), dedica complessiva- mente solo delle modeste osservazioni alla pianta del fico. Si tratta del De re rustica di Varrone, un’opera in tre libri dall’impostazione letteraria ed erudita – è sviluppata in forma di dialogo e vi compare come interlocutore Tremellio Scrofa – che dal punto di vista agronomico non contiene sostanziali progressi rispetto a Catone18. Anche Varrone non dedica un capitolo specifico al fico e ne parla

soprattutto a proposito dell’innesto e della propagazione. Riguardo a quest’ultima, sono degne di interesse le considerazioni in merito ai semi del fico, correttamente individuati in quei granelli minuti («minuta grana») che si trovano, dice, «in ea fico quam edimus»; essendo questi lenti a svilupparsi, per la riproduzione sostiene che sia più conveniente la talea («surcolos de ficeto […] expedit obruere»), a meno che non si desideri piantare fichi provenienti da luoghi lontani. In tal modo l’autore apre una finestra sul commercio di varietà pregiate, importate da Africa, Grecia (isola di Chio e Calcidica) e Lidia per la messa a dimora nel semenzaio:

Fici enim semen naturale intus in ea fico, quam edimus, quae sunt minuta grana,

14 Ivi, XLIX, [42], p. 46.

15 «Ab arbore abs terra pulli qui nascentur, eos in terram deprimito extollitoque primorem

partem, uti radicem capiat. Inde biennio post effodito seritoque»: ivi, LX, [52], p. 51.

16 Ivi, CVIII [99], p. 70.

17 «Virgas murteas si voles cum bacis servare et item aliud genus quod vis, et si ramos ficulneos

voles cum foliis, inter se alligato, fasciculos facito; eos in amurcam demittito, supra stet amurca facito; sed ea quae demissurus eris sumito paulo acerbiora; vas, quo condideris, oblinito plane» (ivi, CX [101], p. 71).

18 M. Terenti Varronis rerum rusticarum libri tres, post Henricum Keil iterum edidit Georgius

Goetz, Lipsiae 1912 (d’ora innanzi varrone). L’opera segue il modello dei trattati ellenistici e

contiene ampie digressioni sulla storia delle pratiche agricole e su cognizioni naturalistiche e geografiche: cfr. marcone, Storia dell’agricoltura cit., pp. 22-24; saltInI, Il sapere agronomico

cit., p. 355. I tre libri trattano, rispettivamente, di economia rurale e tecniche agricole, allevamento del bestiame grosso (res pecuaria), animali da fattoria (villatica pastio).

e quibus parvis quod enasci coliculi vix queunt […] quare ex terra potius in seminariis surculos de ficeto quam grana de fico expedit obruere, praeter si aliter nequeas, ut siquando quis trans mare semina mittere aut inde petere vult. Tum enim resticulam per ficos, quas edimus, maturas perserunt et eas, cum inaruerunt, complicant ac quo volunt mittunt, ubi obrutae in seminario pariant. Sic genera ficorum, Chiae ac Chalcidicae et Lydiae et Africanae, item cetera transmarina in Italiam perlata19.

Dobbiamo arrivare al I secolo d.C. per trovare una trattazione più ampia dell’argomento che ci interessa con il De re rustica di Columella, il più importante trattato di agricoltura trasmesso dal mondo romano20. Columella, facoltoso

proprietario terriero originario della Spagna, possedeva in diverse regioni dell’Italia centrale vaste proprietà nelle quali introdusse importanti innovazioni tecniche21. Il

contributo fornito dalla sua esperienza personale si unisce in lui allo spirito di razionalità, che lo guida nella stesura della sua opera e lo porta a non limitarsi a descrivere i fenomeni, bensì a spiegare i presupposti naturalistici delle pratiche agrarie. Ne consegue che la trattazione dei temi agronomici nel De re rustica raggiunge un livello di approfondimento maggiore rispetto agli autori precedenti22.

Fautore di un’agricoltura intensiva e redditizia, riserva all’arboricoltura un posto di rilievo, dedicandole ben tre libri (III-V) nei quali parla in prevalenza della vite. Le indicazioni sul fico si concentrano soprattutto in due capitoli del libro quinto (X e XI)23 e sono costituite da istruzioni sulle tecniche di coltivazione, sull’utilità della

potatura e sulle varietà da prediligere a motivo della qualità dei frutti. Di queste varietà Columella ne elenca almeno una decina, alcune delle quali provenienti dall’area africana o dal Mediterraneo orientale anche se evidentemente si era- no ben acclimatate nella penisola italica, dato che se ne consiglia la piantagione:

19 varrone, I, 41, pp 52-53.

20 Lucius Junius Moderatus Columella on Agricolture, by E.S. Forster - E.H. Heffner, 3 voll.,

Cambridge, Massachusetts - London 1968-1979 (d’ora innanzi columella). La materia del trattato

è organizzata secondo il modello di Varrone, ma viene sviluppata in 12 libri (in origine ne erano previsti 10, v. marcone, Storia dell’agricoltura cit., p. 26): I Consigli generali, II Cerealicoltura,

III-V Arboricoltura, VI-VII Animali grossi, VIII-IX Animali da cortile, X Componimento poetico sulla coltivazione degli orti; il libro XI descrive i compiti del vilicus organizzati lungo l’arco dell’anno; il libro XII fa lo stesso per la vilica e aggiunge alcune ricette di cucina.

21 Ibid.

22 Ivi, pp. 26-30; saltInI, Il sapere agronomico cit., pp. 356-377: l’A. sottolinea e argomenta

come in Columella, unico tra gli autori latini, l’agronomia raggiunga la dignità di scienza per il rigore del metodo e la chiarezza con cui affronta alcuni problemi di fondo della pratica agraria romana.

23 columella, II, Res rustica V-IX, V, X-XI, pp. 2-115. Le istruzioni sulla coltivazione dei fichi

si ritrovano, con leggere varianti, anche nel breve trattato di Columella De arboribus: columella,

«Serendae sunt autem praecipue Livianae, Africanae, Chalcidicae, Fulcae, Lydiae, Callistruthiae, Astropiae, Rhodiae, Libycae, Tiburnae, omnes etiam biferae et tri- ferae flosculi»24.

Il discorso sul fico viene ripreso nel paragrafo dedicato all’innesto. Dopo aver descritto le tecniche tramandate dagli antichi, Columella si sofferma su un terzo tipo di pratica, definita emplastratio o inoculatio (“a occhio”), che giudica particolarmente adatta al fico, più che ad altri generi di alberi; si tratta di un tipo di innesto che prende il nome per l’applicazione sull’occhio (la gemma trasferita sul portainnesto) di un emplastrum, ossia un pezzo di corteccia che deve essere ricoperto di fango finché l’innesto non abbia attecchito (oggi si copre con il mastice)25. Il suo interesse per l’innesto non si limita, però, alla pura descrizione

tecnica, ma lascia spazio a considerazioni dettate dall’esperienza personale e a proposte di sperimentazioni che afferma di aver realizzato di persona o di aver potuto esaminare direttamente; in particolare egli contesta la tesi degli agronomi tradizionali, secondo i quali l’innesto sarebbe possibile solo tra piante affini26,

presentando un esperimento di segno radicalmente innovatore: un innesto di un fico su un olivo – assimilabile al tipo oggi chiamato “per approssimazione” – per il quale fornisce dettagliate istruzioni:

Scrobem quoquo versus pedum quattuor ab arbore olivae tam longe fodito, ut extremi rami oleae possint eam contingere. In scrobem deinde fici arbusculam deponito, diligentiamque adhibeto, ut robusta et nitida fiat. [14] Post triennium,

24 columella, II, Res rustica V-IX, V, X, 11, p. 94.

25 «Nos tertium genus insitionis invenimus, quod cum sit subtilissimum, non omni generi

arborum idoneum est, sed fere recipiunt talem insitionem, quae humidum succosumque et validum librum habent, sicut ficus. Nam et lactis plurimum mittit, et corticem robustum habet. Optime itaque inseritur tali ratione (caprifici ramos). Ex arbore, de qua inserere voles, novellos et nitidos ramos eligito, in iisdemque quaerito gemmam, quae bene apparebit, certamque spem germinis habebit; eam duobus digitis quadratis circumsignato, ut gemma media sit; et ita acuto scalpello circumcisam diligenter, ne eam laedes, delibrato. Item alterius arboris, quam emplastraturus es, nitidissimum ramum eligito, et eiusdem spatii corticem circumcidito, et materiam delibrato. Deinde in eam partem, quam nudaveris, praepara tum emplastrum aptato, ita ut alterius delibratae parti conveniat. Ubi ita haec feceris, circa gemmam bene alligato, cavetoque ne laedas ipsum germen. Deinde commissuras et vincula luto oblinito, spatio relicto, ut gemma libera vinculo non urgeatur. Arboris autem insitae sobolem et ramos superiores praecidito, ne quid sit, quo possit

Documenti correlati