• Non ci sono risultati.

«d

ulcIssImasfIcuscomedere

».

n

otesParsedallefontImonastIche

Nella Storia Lausiaca di Palladio, narrando dell’ascesi dei padri del monachesi- mo egiziano, si dice che Posidonio di Tebe visse «mangiando piccoli datteri e quante erbe selvatiche» gli capitava di trovare, finché un giorno, venutogli a mancare del tutto il cibo, uscì dalla grotta per andare a cercarne nelle zone abitate. «Dopo aver camminato per tutto il giorno – prosegue il vescovo di Elenopoli di Bitinia, allievo di Evagrio del Ponto – mi ero allontanato dalla grotta appena due miglia; guardandomi intorno vidi un cavaliere dall’aspetto di soldato che aveva sulla testa un elmo in forma di tiara. Credendo che fosse un soldato mi affrettai a ritornare verso la grotta, e trovai un cesto di uva e di fichi colti da poco; lo presi e, tutto contento, entrai nella grotta: quei cibi mi confortarono per due mesi»1.

Nella Vita Hilarionis, il santo palestinese seguace di Antonio le cui gesta sono narrate da Girolamo, si assiste invece ad un’evoluzione del regime alimentare: in età giovanile «mangiava solamente quindici fichi secchi (caricas) dopo il tramon- to del sole», in seguito prese ad assumere «succo d’erbe e pochi fichi secchi (herbarum succo et paucis caricis) ogni tre o quattro giorni», ma dal ventunesimo anno fino alla morte rinunciò completamente anche ai fichi2. Divenuto vecchio

continuò a mantenere questa abitudine, benché nel «luogo veramente terribile e remoto» in cui prese ad abitare, quando fu costretto a riparare a Cipro, vi fossero delle acque che scorrevano dalla costa del colle e «un orticello straordinariamente

1 PalladIo, La Storia Lausiaca, cap. 32,2-3, Introduzione di C. Mohrmann, testo critico e

commento a cura di G.J.M. Bartelink, traduzione di M. Barchiesi, Milano 1974 (Scrittori greci e latini. Vite dei santi dal III al vI secolo, 2), p. 179. Sull’uso della frutta in ambito monastico si veda G. archettI, “Parvula poma sumebat”. Suggestioni dal mondo monastico, in Le parole

della frutta. Storia, saperi, immagini tra medioevo ed età contemporanea, a cura di I. Naso, Torino 2012 (Centro studi per la storia dell’alimentazione e della cultura materiale “Anna Maria Nada Patrone”), pp. 67-89.

2 gIrolamo, Vita Hilarionis, capp. 3,1.5; 5,1-7, in Vita di Martino, Vita di Ilarione, In memoria

di Paola, Introduzione di C. Mohrmann, testo critico e commento a cura di A.A.R. Bastiaensen e J.W. Smit, Traduzioni di L. Canali e C. Moreschini, Milano 1975 (Vite dei santi), pp. 79, 81.

ameno con un gran numero di alberi da frutto» che avrebbero potuto integrare la sua dieta3. Fichi e datteri erano pure tra gli alimenti assunti dal monaco Zosimo4 e

da quei sette padri egiziani ricordati nella Historia monachorum che una volta alla settimana lasciavano le loro dimore solitarie per riunirsi insieme a parlare di cose spirituali, portando con sé quello che nella semplicità avevano da mangiare, fichi compresi5, mentre Giovanni l’Eremita non assumeva alcun cibo, salvo «amarissimas

ficus silvarum» e erbe dei campi6, in ossequio ad un durissimo regime penitenziale

assai diffuso tra gli anacoreti.

Nella Storia dei monaci siri di Teodoreto di Cirro, a proposito di Policromio si afferma che egli reputava «la povertà più desiderabile di ogni regno, a tal punto che spesso gli manca[va] anche il cibo necessario» e tutte le volte che andò a fargli visita trovò nella sua piccola cella «due soli fichi secchi» quale cibo per il suo nutrimento7.

Girolamo aggiunge che nel medesimo deserto della Siria al padre Paolo bastava ciò che il palmeto gli offriva e, nascosto per trent’anni in una grotta, mangiava «quinque caricis per singulos dies»8, mentre Cassiano osserva che, nel rispetto di

una severa regola di parsimonia lontana da ogni eccesso, ai fratelli erano consentiti «caricas singulas» come normale sostentamento9. Dove il termine carica, cioè fi- cus, indica la varietà tipica della regione della Caria in Asia Minore, coltivata nel- l’intero bacino del Mediterraneo, i cui prodotti – ricchi di zucchero, minerali, vitami- ne e facilmente digeribili – una volta fatti seccare, erano venduti su tutti i mercati e compresi tra le provviste di viaggiatori e naviganti10; costituivano il cibo dei poveri

e per questo apprezzati dai monaci. Cassiano precisa tuttavia – riecheggiando i precetti di Pacomio11 – che fuori dall’orario dei pasti non era lecito a nessuno assu-

3 gIrolamo, Vita Hilarionis, cap. 31,4, p. 139.

4 Acta sanctorum. II Aprilis, cap. I,7 col. 77; cap. Iv,34 col. 82.

5 Historia monachorum, De vitis Patrum liber tertius sive verba seniorum, in Patrologia latina

[= PL], 73, nr. 200, col. 804 (ficus, caricas).

6 Acta sanctorum. IV Iunii, cap. II,4 col. 42.

7 teodoretodI cIrro, Storia di Monaci siri, H.R. 24,3, a cura di A. Gallico, Roma 1995, p. 245. 8 gIrolamo, Vita sancti Pauli primi eremitae, PL 23, cap. 6, col. 22.

9 gIovannI cassIano, Conlationum XXIV, Collectio in tres partes divisa, PL 49, conlatio VIII,1

col. 721 [Jean cassIen, Conférences VIII-XVII, Introduction, texte latin, traduction et notes par E.

Pichery, Paris 1958 (Sources chrétiennes, 54), conlat. VIII,1 p. 10].

10 Si vedano, in questo volume, i contributi di E. Basso e A. Giacobbe, oltre a quello di F. Toso

per gli aspetti linguistici.

11 Pacomio e i suoi discepoli: regole e scritti, Introduzione, traduzione e note a cura di L.

Cremaschi della comunità di Bose, Magnano (Bl) 1988, precetti nr. 73, p. 77: «Di tutto quello che si trova nei campi o nei frutteti, nessuno ne mangi per conto suo prima che i frutti siano distribuiti parimenti a tutti i fratelli», nr. 77, p. 78: «Se poi trovano dei frutti caduti sotto gli alberi, non oseranno mangiarne e quelli trovati per via li deporranno ai piedi degli alberi. E anche colui che distribuisce i frutti agli altri che fanno la raccolta non potrà mangiarne, ma li porterà all’economo che gli darà la sua parte quando li distribuirà agli altri fratelli»; 114 p. 81: «Senza il permesso del preposito nessuno mangerà nella sua cella, neppure un semplice frutto o altri cibi del genere».

mere qualcosa, anche quando nell’orto, nel giardino o nel frutteto i rami carichi di frutti maturi erano a portata di mano e qualche frutto era caduto per terra pronto per essere raccolto12. Il pericolo della concupiscenza infatti, anche nel caso di semplici

cibi naturali come i fichi, era sempre in agguato alla stregua di un leone ruggente13.

Secchi o appena colti, di colore variabile da giallo a nero, spontanei o coltivati, come la frutta in genere, i fichi non incontrano divieti o limitazioni particolari nella dieta monastica, salvo quella generale della moderazione, tanto nelle regioni orientali quanto in quelle occidentali; essi rientrano nell’ampia categoria dei poma – cioè della produzione degli alberi da frutto – consentiti dalla Regola benedettina e ammessi tra le portate supplementari della dieta giornaliera14. Albero conosciuto

nel mondo biblico, dove è citato trentaquattro volte ed è una delle sette piante della Terra Promessa, rinomato per la dolcezza dei suoi frutti, freschi o essiccati (1 Sam 25,18; 30,12; Gdt 10,5), «di natura più calda che fredda» come scrive Ildegarda15, il

fico è tra i primi prodotti a fruttificare in primavera (Mt 24,32), immagine di fertilità e di vita felice nel regno messianico (1 Re 4,25; Mic 4,4; Zc 3,10; Gl 2,21); spesso simboleggia il popolo di Israele e la sua eventuale sterilità richiama l’infedeltà degli israeliti nei confronti di Dio (Lc 13,6-9) per la quale vengono puniti (Gl 1,7; 2,13), ma indica altresì la forza della fede che supera le regole della natura come nella maledizione del fico sterile, il cui destino è inesorabilmente segnato (Mc 11,12- 14.20.25; Mt 21,18-22; Lc 13,6) anche contro il normale corso delle stagioni16.

12 gIovannI cassIano, De coenobiorum institutis, PL 49, coll. 177-178, l. IV, cap. 18: Quam

illicitum sit extra mensam communem quidquam cibi potusve gustare [Jean cassIen, Institutions

cénobitiques, texte latin revu, introduction et notes par J.-C. Guy, Paris 1965 (Sources chrétiennes, 109), l. IV,18 p. 144].

13 Per uno spaccato sull’alimentazione monastica medievale e i necessari rimandi bibliografici

e documentari, cfr. G. archettI, «Mensura victus constituere». Il cibo dei monaci tra Oriente ed

Occidente, in L’alimentazione nell’alto medioevo: pratiche, simboli, ideologie, Sessantatreesima settimana di studio (Spoleto, 9-14 aprile 2015), Spoleto 2016, pp. 1-45; Id., I monaci a tavola:

norme e consuetudini alimentari, in “De re monastica V”. Gli spazi della vita comunitaria, Convegno internazionale (Roma-Subiaco, 8-10 giugno 2015), a cura di L. Pani Ermini - P. Grossi - E. Menestò - F.R. Stasolla, Spoleto 2016, in corso di stampa.

14 Si tratta di RB 39,3 e per un commento cfr. Anselmo Lentini, in s. benedetto, La regola, Testo,

versione e commento a cura di A. Lentini, Montecassino 19943, p. 355, in cui parla espressamente

di «frutti d’albero, mele, pere, fichi…»; mentre per la terza portata si vedano smaragdodI saInt-

mIhIel, Expositio in Regulam s. Benedicti, edd. A. Spannagel - P. Engelbert, Siegburg 1974

(Corpus consuetudinum monasticarum, 8), pp. 255-257, cap. 39: De mensura cibus; anche R. mIttermüller, Expositio Regulae ab Hildemaro tradita, in Vita et Regula ss. p. Benedicti una

cum expositione Regulae a Hildemaro tradita, Ratisbonae, Neo-Eboraci et Cincinnati 1880 [= Ildemaro], pp. 436, 441.

15 IldegardadI bIngen, Libro delle creature. Differenze sottili delle nature diverse, a cura di

A. Campanini, Roma 2011 (Biblioteca medievale, 134), l. III,14, p. 199: «Il fico è più caldo che freddo, conserverà sempre del caldo, mentre il suo freddo è leggero: è l’immagine del timore».

16 Per qualche osservazione, v. G. heInz-mohr, Lessico di iconografia cristiana, Milano 1984,

Alcuni limiti colturali erano ovviamente imposti dagli ambiti geografici, trat- tandosi di una pianta xerofila che predilige climi aridi e terreni siccitosi; attestazioni frequenti si incontrano perciò nelle zone mediterranee più calde e interessante è l’esistenza di una ecclesia Ficiensis nella Mauritania cristiana del IV secolo17,

mentre una volta disidratati al sole o nei forni i fichi potevano essere conservati, trasportati e commercializzati fornendo una valida carica energetica, calorica e vitaminica. Selvatici, ma soprattutto messi a coltura nei frutteti, negli orti e nelle loro tenute dai monaci e dal personale rustico, come pure oggetto di transazione, di donazione o di acquisto, i fichi e la loro coltivazione, per lo più in allevamento promiscuo nelle vigne e negli oliveti, per i quali si paga un canone di norma ad medietatem, cioè della metà del raccolto (come per il vino e per l’olio), risultano largamente attestati nella documentazione d’archivio, e i cenobi come i cartulari liguri ne sono un’esemplificazione di notevole interesse18.

In ambito medico i suoi frutti erano apprezzati come rimedio farmacologico nei disturbi intestinali: la ficina infatti, usata ancora oggi come principio attivo fitote-

pp. 157-158; M. grIllI caIola - P.m. guarrera - a. travaglInI, Le piante nella Bibbia, Roma

2013, p. 33; inoltre le note generali e la loro declinazione per il medioevo in F. stroPPa, Frutto

proibito o albero della vita? Note intorno alla fortuna medievale di un tema iconografico, in questo volume.

17 R. aubert, s.v., Ficiensis (ecclesia), in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésia-

tiques, sous la direction de R. Aubert, 16, Paris 1967, coll. 1395-1396.

18 Per qualche esempio cfr. Liber jurium Reipubblicae Genuensis, t. I, a cura di E. Ricotti,

Augustae Taurinorum 1854 (Historiae Patriae monumenta, 7), coll. 6-7, 20, 27 ecc., docc. II, XIII, XVI (a. 962, 1110, 1124, ecc.): seminativi, aree da piantare a vite con alberi da frut- to, fichi e olivi («de vinea vero vel ficas seu olivas, vino ficas et oleum, vineam et arbores fructiferos, de pomis et ficubus et aulivis, de ficis et cetrinis pomis, ecc.»); T.L. belgrano,

Il registro della curia arcivescovile di Genova, Genova 1862 (Atti della Società ligu- re di Storia patria, II/ 2), pp. 135, 143, 145, 146, 150, 163-165, 167, 169, 172, 174, ecc. («fi- cetis, vinea cum ficas, olivas et ficas, oliveto et ficario, ecc.»); a. basIlI - l. Pozza, Le carte

del monastero di San Siro di Genova dal 952 al 1224, Genova 1974 (Collana storica di fonti e studi, 18), pp. 5, 9, 10-11, 13, 28, 31, 33, 52, 58, 71, 78, 148-151, 230, 231, 239, 241, 274, docc. 3, 5, 6-8, 16, 18, 28, 32, 35, 43, 49, 117-120, 201,-202, 211-212, 246 (a. 993, 1000, 1003, 1004, 1015, 1017 1026, 1044, 1053, 1084, 1088, 1174, 1210, 1212, 1219 («pometis, ficetis, vineam et arbores fructifferos seu steriles, vineas et ficas et alios arbores fructiferos, pastinare arbores fi- cuum, pastinare vinea et arbores domesticos, medietatem vini et ficuum et olei et aliorum fruc- tum arborum»); Il cartulario di Arnaldo Cumano e Giovanni di Donato (Savona, 1178-1188), a cura di L. Balletto - G. Cencetti - G. Orlandelli - B.M. Pisoni Agnoli, Roma 1978 (Pubblicazione degli Archivi di Stato, 96), pp. 26, 42, 59, 62, 86-87, 91-92, 100-101, 111, ecc., docc. 48, 83, 112, 120-121, 168, 176, 179, 198, 222, ecc. («medietatem vini et ficuum et olivarum, terra cum vitibus et olivis et ficubus, terra cum arboribus fici supra, ecc.»). Si vedano pure, in questo volume, i contributi di P. Pirillo, A. Riera Melis, A. Carassale, F. Aimerito, E. Costantini, M. Cassioli, A. Lanconelli; inoltre, G. archettI, «Vineam noviter pastinare». Note storiche sulla vite e sul vino

nella Liguria medievale, in «In terra vineata». La vite e il vino in Liguria e nelle Alpi Maritti- me dal Medioevo ai nostri giorni, Atti del convegno di studi in memoria di Giovanni Rebora (Tag- gia, 6-8 maggio 2012), a cura di A. Carassale e L. Lo Basso, Ventimiglia 2014, pp. 13-35 passim.

rapico, è una sostanza estratta dal lattice delle sue foglie e dei frutti acerbi, mentre l’impiastro di fichi era un rimedio lenitivo contro le infiammazioni, come si narra nella Bibbia (2 Re 20,7) a proposito del re Ezechia curato su indicazione del profeta Isaia (Is 38,21). Ildegarda ne illustra l’uso: «Prendi le sue foglie e la sua corteccia, pestale delicatamente, falle cuocere a fuoco vivo nell’acqua, poi prepara un unguento aggiungendo grasso d’orso e un po’ di burro. Se hai male alla testa, ungila con quell’unguento; se i tuoi occhi lacrimano, ungine le tempie e il contorno degli occhi, in modo però da non toccarne l’interno. Se hai male al petto, ungilo con quello; se hai male ai lombi, ungine anch’essi: starai meglio»19. I suoi frutti

invece non erano adatti a quanti godevano di buona salute perché le loro proprietà scompensavano l’equilibrio degli umori; al contrario, erano prescritti a chi era malato, «indebolito nella mente e nel cuore», al quale si consigliava di mangiarne «sino a quando stava meglio» per smettere subito dopo; tuttavia, anche chi era sano poteva assumerne a condizione di attenuarne gli effetti dissocianti con grasso e burro20.

Prodotto diffuso nell’Europa meridionale e nel Mediterraneo, povero e comune, per queste sue caratteristiche il fico non compare mai nelle regole monastiche e vana indagine è cercare informazioni circa la presenza, la coltivazione, l’uso o le varietà produttive in queste fonti normative. Analoga osservazione si può fare per le consuetudini in genere, dove la possibilità di cogliere qualche frutto si limita a pochi quanto effimeri fioroni. Dai typika dei monasteri bizantini21 si apprende

che nel secolo IX per il cenobio costantinopolitano di Studion sono attestati fichi secchi, castagne, pere cotte e prugne secche22; negli usi di Atanasio Athonita per

la Grande Lavra del monte Athos (secoli X-XI), figurano «frutti cotti», castagne, noce moscata e uva23, ma nella menzione di frutteti vanno inclusi – anche se non

espressamente nominati – gli alberi di fico, come pure era normale la loro presen- za nei vigneti al punto che la registrazione di vigne può essere un indizio sicuro

19 IldegardadI bIngen, Libro delle creature cit., l. III,14 pp. 199-200, si precisa in particolare

che la corteccia e le foglie devono essere bollite per eliminare, grazie al calore del fuoco, le impurità che possiedono, consentendo al loro succo – temperato dal calore del grasso e dalla dolcezza del burro – di espellere gli umori freddi. Si consiglia poi per chi soffre di lacrimazione agli occhi, una volta ogni tre giorni, di raccogliere una foglia di fico umida di rugiada riscaldata dal sole e di porla sugli occhi per placarne l’umore fino a quando non saranno riscaldati, giacché la natura del fico è tale da attrarre l’umidità in eccesso degli occhi irritati (ivi, p. 200 n. 73).

20 Ivi, p. 200; in questo volume anche i contributi di I. Naso e E. García Sánchez.

21 Resi disponibili on-line dalla Byzantine Monastic Foundation Documents della Harward

University of Washington, a cura di J. Thomas e A. Constantinides Hero con la collaborazione di G. Constable, si rinvia al sito: http://www.doaks.org/publications/doaks_online_publications/ typikaPDF/tip00.pdf [= BMFD].

22 BMFD, Monastery of St. John Stoudios in Constantinople, trans. T. Miller, nr. 4, pp. 109, 111. 23 BMFD, Athanasios the Athonite for the Lavra Monastery, trans. G. Dennis, nr. 11 e 13, pp.

225-226, 253, 258, 264.

anche dell’allevamento di fichi al loro interno24. Frutta, uva, fichi e noci sono

attestati nel secolo XI nelle norme del monaco Nikon della Montagna Nera in Siria25; di «piccoli frutti», di cui si deve essere grati al Signore, parla il typikon

della Madre di Dio Evergetis di Costantinopoli26, mentre vigne e gelsi compaiono

nel XIII secolo nel testamento del monaco Timoteo per il cenobio di Skoteine, presso Filadelfia in Anatolia27.

A Montecassino la cena del Giovedì santo era accompagnata da noci, nocciole e fichi secchi in sufficiente quantità, ma tra i frutti dispensati a tavola durante l’anno vi erano pure ciliegie, fichi verdi e secchi, uva, pere e mandorle a seconda delle stagioni; i fichi costituivano un supplemento alimentare tra XIII e XIV secolo per i fratelli impegnati nei lavori dell’orto e il cellerario ne dava loro durante la quaresima di San Martino, ossia in Avvento, «pro cinerio facendo» forse a soste- gno della fatica nella sistemazione del terreno28, ma con un valore squisitamente

penitenziale e temperare il digiuno previsto tre volte la settimana fino al Natale,

24 BMFD, Monastery of St. John Stoudios, p. 109; Athanasios the Athonite, pp. 253, 258,

264; Emperor Constantine IX Monachos, trans. T. Miller, nr. 15, p. 286; Testament of Nikon the Metanoeite for the Church and Monastery of the Savior, the Mother of God and St. Kyriake in Lakedimon, trans. A. Bandy, nr. 17, p. 319; Regulations of Nikon of the Black Mountain, trans. R. Allison, nr. 20, pp. 395, 398-399, 402, 404; Timothy for the Mother of God Evergetis, trans. R. Jordan, nr. 22, pp. 459, 480-481, 490; Gregory Pakourianos for the Monastery of the Mother of God Petrizonitissa in Backovo, trans. R. Jordan, nr. 23, pp. 519, 526, 544; Gregory for the Monastery of the St. Philip of Fragala in Sicily, trans. P. Karlin-Hayter - T. Miller, nr. 25, pp. 628, 631; Maximos for the Monastery of the Mother of God at Skoteine near Philadelphia, trans. G. Dennis, nr. 35, pp. 1180, 1188-1189; Nikephoros Blemmydes for the Monastery of the Lord Christ-Who-Is at Ematha near Ephesos, trans. J. Munitiz, nr. 36, pp. 1201, 1204; Michael VIII Palaiologos for the Monastery of the Archangel Michael on Mount Auxentios near Chalcedon, trans. G. Dennis, nr. 37, pp. 1212, 1230; Theodora Palaiologina for the Convent of Sts. Kosmas and Damian in Constantinople, trans. A.M. Talbot, nr. 40, p. 1292; Neophytos for the Monastery of St. Michael the Arcangel of Docheiariou on Mont Athos, trans. R. Allison, nr. 41, pp. 1307- 1309; Nicholas for the Monastery of St. Nicholas of Kasoulon near Otranto, trans. T. Miller, nr. 43, pp. 1324-1326; ecc.

25 BMFD, Regulation of Nikon of the Black Mountain cit., pp. 395, 398-399, 402, 404. 26 BMFD, Timothy for the Mother of God Evergetis cit., pp. 459, 480-481, 490.

27 Cfr. rispettivamente nr. 35 e 36, BMFD, Monastery of the Mother of God at Skoteine near

Philadelphia cit., e Nikephoros Blemmydes for the Monastery of the Lord Christ-Who-Is at Ematha near Ephesos cit., pp. 1180, 1188-1189, 1201, 1204.

28 Statuta Casinensia (saec. XIII-XIV), 2. Constitutiones saeculi XIV incipientis, recensuerunt T.

Leccisotti - F. Avagliano, cooperante C.W. Bynum, in Consuetudines benedictinae variae (saec. XI - saec. XIV), Siegburg 1975 (Corpus consuetudinum monasticarum, 6), pp. 233, 236, 245. La consuetudine era in uso ancora in età moderna, come si evince dalle usanze tardo seicentesche del monaco napoletano don Cornelio Ceraso: «Quando si dà l’amandolata nella Quaresima et Avvento [cioè la mattina della domenica e degli altri giorni], si dà l’uva passa […], e quando si dà il pesce [il mercoledì, venerdì e sabato] si danno le noci et i fichi secchi» (Abbazia di Montecassino, Archivio storico, codice 664 bis, C. ceraso, Usanze del monastero di Monte Casino, p. 37, ringrazio padre

il mercoledì, venerdì e sabato. Una nota interessante viene dalla silva delle con- suetudini cluniacensi, specie nel capitolo relativo al linguaggio muto dei segni, do- ve figurano molte cose e nella tradizione di Hirsau anche uno specifico segno per indicare il fico disponibile per essere consumato in refettorio durante i pa- sti: «premesso il segno generale e piegate le dita di ciascuna mano, riunisci vi- cendevolmente le mani nella parte superiore e poi separale, come colui che divide qualcosa»29.

I brevi testi che provengono dagli apoftegmata, d’altra parte, sono indicativi di comportamenti e scelte divenuti esemplari. Si racconta che una volta furono regalati ai monaci di Scete alcuni fichi, ma trattandosi di poca cosa non ne mandarono al padre Arsenio, il quale, saputolo, non si recò alla liturgia. «Mi avete escluso – disse – dalla benedizione mandata da Dio ai fratelli, che io non sono stato degno di ricevere». Tutti udirono e restarono edificati, mentre «il presbitero si recò a portargli dei fichi e lo condusse con gioia alla celebrazione comune»30. L’ammonimento era chiaro:

ciò che conta è il gesto di condivisione e il riconoscimento dell’uguaglianza, anche nelle piccole cose, senza derogare mai dal principio della sobrietà. Il suo discepolo Daniele raccontava che «quando il padre Arsenio udiva che ogni genere di frutti era maturo, diceva: Portatemene. Quindi assaggiava una volta sola un po’ di ciascuno, rendendo grazie a Dio»31, in modo da evitare il piacere derivante dal mangiarne e

Documenti correlati