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Il caso documentario: dalle carte alla testimonianza

Alessandro Giacobbe

1. Il caso documentario: dalle carte alla testimonianza

Durante una campagna di ricerca presso l’Archivio di Stato di Savona, in relazione ad attività agro-silvo-pastorali all’interno del Dipartimento di Montenotte, creato nel contesto dell’Impero francese e magistralmente descritto dallo Chabrol de Volvic nel suo volume statistico1, può essere facile imbattersi in una documentazione molto

dettagliata relativa a dati agricoli o generalmente territoriali e produttivi. Redatta comune per comune, è datata al 1807 e frutto di una più che probabile copia-regesto unitaria di tipo statistico. Ovvero più di un contributo di mani diverse è stato poi riportato in scheda da una sola mano2.

Ne consegue che i dati riportati siano ripetitivi in alcuni casi, ad esempio nella notazione delle modalità di lavorazione manuale della terra con il “magaglio”. In altri casi, invece, si nota una concentrazione di elementi propri di un osservatore “diversamente attento”.

È il caso questo di alcuni territori comunali compresi tra la linea di costa fra Taggia e San Lorenzo al Mare, benché collocati anche nell’entroterra. Il dato sensibile in questione è relativo ai fichi ovvero ai fichi secchi. Il fatto che il dato sia riportato solo per questi centri e non per altri è singolare, dato che la produzione di fichi secchi era da secoli basilare nel contesto ligure occidentale, come si potrà vedere. L’elemento sensibile che potrebbe aver convinto alla notazione è casomai l’importanza commerciale dei fichi secchi. In questo caso, dunque, il prodotto viene notato quale estraneo alle consuetudini di autoconsumo. È dunque oggetto di sia pur limitata esportazione rispetto ai confini di determinati territori comunali.

Ecco una esposizione schematica delle osservazioni del 1807.

1 G. chabrol de volvIc, Statistica delle provincie di Savona, di Oneglia, di Acqui e di parte

della provincia di Mondovì, che formavano il dipartimento di Montenotte, a cura di G. Assereto, 2 voll., Savona 1994.

Località Fichi secchi prodotti in quintali Fichi secchi consumati sul posto Fichi secchi

esportati (fonte Chabrol)Popolazione

Pompeiana 86 86 1137 Santo Stefano 46 46 956 Boscomare Torre Paponi 40 40 522 Terzorio 30 30 305 Riva 36 30 6 713 Cipressa 80 50 30 1006 Civezza 65 65 748 Castellaro 150 60 90 968

Come si può notare, si tratta di centri collocati in posizione costiera (Riva o Riva di Taggia oggi Riva Ligure o Santo Stefano oggi Santo Stefano al Mare, oltre a Cipressa che ha tuttora un approccio alla ripa maris) così come dell’immediato entroterra. In generale si osserva una produzione commisurata alla popolazione residente. I centri costieri appaiono meno coinvolti, ma si deve argomentare che la loro economia avesse un più ampio ventaglio di possibilità oltre al fatto di essere terminali commerciali come nel caso di Riva o centri di pesca di cabotaggio come per Santo Stefano al Mare3. Va inoltre riferito che il prezzo corrente dei fichi di

Castellaro assomma a 12 franchi al quintale rispetto ai 9, che, in media, sono comuni per l’area osservata.

Diversi appaiono altri casi e spicca, evidentemente, quello di Castellaro, con una produzione ragguardevole ed un surplus produttivo che viene esportato. E si tratta di una quota superiore al consumo locale. Castellaro è un centro disposto in cresta, sulla sponda sinistra della sezione terminale della valle Argentina. Profitta dei traffici che si possono incentrare sul vicino approdo costiero di Riva e della dimensione commerciale di Taggia, primo ed importante centro della bassa valle. Si tratta di un abitato e di un territorio provvisto di valenza viabilistica, anche per la facilità con la quale di lì si approccia una via di crinale che conduce verso gli snodi della transumanza in direzione dell’area brigasca o dell’ambito pedemontano.

3 Per Santo Stefano al Mare è utile F. cervInI, Santo Stefano al mare. L’avventura di un borgo

ligure nei secoli, Arma di Taggia 1998, mentre per Riva Ligure una summa è in A. gandolfo,

La Provincia di Imperia. Storia. Arti. Tradizioni, II, Torino 2005, pp. 825-837. Per Castellaro si dispone del volume di N. calvInI, Castellaro. Storia di un antico borgo feudale, Imperia 1992,

Castellaro, dunque: appare chiaro a questo punto che lì debba continuare il percorso di ricerca. Lo stato dell’archivio comunale rende però difficoltosa qual- siasi ricerca, comprendendo ufficialmente solo tre registri antichi di atti civili e po- ca documentazione tardo-ottocentesca e novecentesca, oltre ad un catasto peral- tro di una certa utilità nel confermare.

Piace piuttosto, a questo punto, operare una verifica sul terreno e/o una indagine sulle fonti orali. L’indagine sul terreno ha avuto quindi una rapida esecuzione con un incontro determinante, quello con Giovanni Battista Nuvoloni: residente a Castellaro, ha oggi 84 anni4. Il colloquio non ha seguito un percorso

legato a domande precompilate, ma si è configurato piuttosto come un flusso di informazioni di assoluto interesse anche perché, passati due secoli, vi è memoria recente di un vero e proprio mercato del fico. Secco, naturalmente.

Il luogo di scambio ovvero una specie di “piazza” di contrattazione è individuata, fino a dopo la seconda guerra mondiale, nella zona della Colla: un ambito dell’abitato di Castellaro che si deve immaginare utilizzato già ad inizio Ottocento in relazione alla documentazione evidenziata e probabilmente ancor prima. E va detto che se duecento e più anni addietro il mercato poteva essere mediamente regionale, magari con esportazioni verso Genova, città commerciale e finanziaria, ma non produttiva, i fichi secchi di Castellaro raggiungono il mercato lombardo nel XX secolo. Questo perché dal 1872 è presente la ferrovia, con fermata ad Arma di Taggia: da cui l’apertura di un percorso e di un mercato che segue quello floricolo. Gli ultimi commercianti noti sono ricordati: Giovanni Battista Rolando ed Emilio Nuvoloni. Anche il vicino mercato taggese era vivo fino ai primi anni Cinquanta del Novecento, con l’impegno di tale Emilio Del Pietro, di Maurilio Anfossi e di un calabrese, Francesco Sgrò. L’immigrazione calabrese in Liguria ed anche a Taggia è argomento storico locale non secondario5 e d’altro canto anche

la cultura del fico secco calabrese deve avere incontrato in modo felice quella del fico secco ligure.

Il mantenimento di una cultura commerciale del fico secco a Castellaro non può che confermare l’assunto particolare della documentazione di primo Ot- tocento. Ovviamente Castellaro ha sviluppato una particolare “cultura del fico”. È una cultura che si viveva fino dagli anni giovanili. Cultura di raccolta, in grande quantità, sfruttando agilità e leggerezza. E portando sulle spalle il raccolto con i gaosci, gerle utilizzate anche per la raccolta dell’uva. Un mondo in cui

4 Ringrazio Lucia Pellacini e Stefano Maritano per l’impegno nel reperire il miglior contatto

testimoniale possibile.

5 S. naPolItano, «’Nni iamu lassù». L’immigrazione calabrese nel Ponente ligure (1950-

1970). Le provenienze dall’Alto Tirreno cosentino e il caso di Taggia, in V. caPPellI - G. masI

- P. sergI, La Calabria dei migranti, in «Rivista Calabrese di Storia del ’900», 2, 2014.

nulla era meccanizzato e ovviamente ci si affidava al sole per la seccagione in appositi siti.

A livello familiare, quindi per quella quota di prodotto non commerciato, si era sviluppata una “religiosità” del fico secco, cibo giornaliero, antesignano dello snack spaccafame, sicuramente genuino. E talvolta premio serale per il bambino che ben si è comportato durante la giornata. Ed ancora prelibatezza natalizia quando si tagliava il pan de fighe, il pane di fichi secchi pressati e conservati entro foglie disidratate e cucite assieme. Magari con mandorle all’interno. A Natale il pan de fighe era il “dolce” per eccellenza in Liguria occidentale. Tagliato in modo accorto, quando il fico produceva la caratteristica efflorescenza chiara ovvero la raxa6, magari cosparso

di polvere di mandorle tritate fini, era (ed è, per chi lo sa ancora fare) un piacere del palato7.

La cultura del fico in quel di Castellaro vuol dire anche profonda conoscenza delle specie di fico utilizzabili per ogni occasione. E allora tra fichi fioroni, fichi freschi e fichi secchi, non vi è solo la possibilità di avere tre forniture alimentari in tempi diversi, ma si manifesta una biodiversità particolare, che diventa anche risvolto linguistico.

In ogni caso emergono due varietà. L’alimentazione di fichi freschi è legata all’ambita varietà detta Bellone o Bellone di Diana, anche per la possibilità di avere i fioroni. Si tratta di una varietà piuttosto nota e presente con tale denominazione in tutto il Ponente ligure e in ambito italiano. Per quanto riguarda la produzione del fico secco, la varietà più comune era quella delle Musce, un fico bianco, mieloso, che però nel vicino centro di Pompeiana prende nome di Gentì. E già con questa affermazione si nota come la nomenclatura possa avere una variabilità sensibilissima in Liguria occidentale anche nel raggio di comunità viciniori.

Per terminare la testimonianza di Giovanni Battista Nuvoloni ecco un breve schema delle rimanenti varietà di fico ricordate a Castellaro. Appare chiaro che cercarle tutte, oggi, sia quanto meno difficoltoso. Le aree già vocate sono altrimenti utilizzate, anche in relazione ad espansione edilizia o di altre colture. Non mancano però alberi che a ragione possono dirsi monumentali.

6 Pronuncia rascia; per il termine si veda S. aProsIo, Vocabolario ligure storico-bibliografico,

parte seconda. Volgare e dialetto, II, Savona 2003, p. 128.

7 Nicola Ferrarese ha realizzato un breve filmato, presentato in occasione del convegno Il

fico. L’albero e i suoi frutti, tra storia, letteratura, arte e botanica (Sanremo-Bordighera, 22- 23 maggio 2015), che mostra le fasi salienti della preparazione del pan de fighe in Candeasco, comune di Borgomaro (IM), dunque in un’area che è soprattutto olivicola dal XVII secolo in avanti. Il filmato è visibile qui: https://youtu.be/TY7bLwgZ1L4 e https://youtu.be/osEKfRcajRw. I protagonisti sono alcuni abitanti della valle, tra cui la compianta Angiulina e Berto.

Duverciu Varietà nera

Arbicune A lampadina, buoni i fioroni ed i fichi

Brigliazzotte Sia bianche che nere, ottime, non grosse, piatte, polpa rossa, tardive Pittaluzze o Pissalusse Non grosse, ma più lunghe e picciolo lungo come i Colli d’Adamo Colli d’Adamo I più tardivi

Collu Longu Tardivo bianco

Mergane Violate, molto dolci, interno rosso marcato, non fanno i fioroni Gentì Di Castellaro, fiche tardive, più grosse, bianche e verdi, molto dolci, interno rosso vivo Turàne Come le Brigliazzotte, ma nere e precoci, non grosse

Turche Ultime a maturare, un po’ insipide e non dolci, buccia e colore screziato di rosso chiaro, quasi arancione

Da Stizza Piccole, lunghe, nere, molto dolci, presenti nei terreni asciutti e scagliosi

Gianchétte Piccole bianche, ma tondeggianti. Se ne trovano esemplari dietro al santuario di Lampedusa Da Morti Di poco gusto, maturazione tardiva, si trovano ai tempi

della raccolta delle olive, e se ne trovavano lungo la strada vecchia da Castellaro a Pompeiana. Va detto che, a causa delle variazioni climatiche in atto, chi scrive ne ha assaggiato in agosto 2015 una produzione nell’area di Lucinasco (IM), località Prao di Conti. Sorprendentemente buone. Nonostante la nomea non felice.

2. Un osservatore d’eccezione: l’attenzione di Clarence Bicknell (1842-1918) in The common fig tree

Clarence Bicknell è stato un religioso britannico, capace di sviluppare va- stissimi interessi: botanico, archeologo, esperantista, agitatore culturale. Il suo soggiorno in Liguria occidentale, tra Bordighera e la val Roia, ha prodotto un’eredità culturale tuttora viva8.

Fra le poco note produzioni scientifico-letterarie di Bicknell vi è un opuscolo intitolato The common fig tree: pubblicato a Bordighera nel 1912, ampliamento

8 Si veda Clarence Bicknell: la vita e le opere. Vita artistica e culturale nella Riviera di Po-

nente e nella Costa Azzurra tra Ottocento e Novecento. Atti del Convegno di Studio. Bordi- ghera, 30 ottobre - 1 novembre 1998, a cura di D. Gandolfi - M. Marcenaro, in «Rivista Ingau- na e Intemelia», n.s., LIV-LV, 1999-2000. È in rete anche il sito www.clarencebicknell.com.

di una comunicazione del 1910, contiene alcuni aspetti collegabili alla presente ricerca. Si sottolinea la capacità di osservazione territoriale dello studioso, davvero interessato ai più diversi aspetti botanici ed antropologici.

Ecco dunque alcuni punti salienti dell’osservazione di Bicknell, che partono dalle considerazioni complessive in merito al genere Ficus. In particolare poi l’autore si sofferma sull’impressionante numero di varietà conosciute nel Sud Europa: Bicknell studia Antoine Risso (1777-1845) e la sua Histoire naturelle des principales productions de l’Europe méridionale et particulièrement de celles des environs de Nice et des Alpes Maritimes (Parigi 1826), in cui si riferisce della presenza di settantadue varietà in provincia di Nizza e di cento conosciute in Francia. Il dato nizzardo è interessante in relazione alla citazione varietale indicata ed all’attività della produzione di specie di origine franco-spagnola. Risso ne parla nell’articolo IV9. Su settandue varietà, la Bellone, la Caffra o Moure, la Barnisotta

e la Mourenao presentano identificazioni ed assonanze con i nomi indicati in Liguria occidentale. Al momento della morte il 25 agosto 1845 Risso lavorava ad una Histoire Naturelle des Figuiers.

Ovviamente Bicknell nota la pratica ligure occidentale della seccagione dei fichi ed in generale quella in area mediterranea e nota altresì la produzione di fior di fico o fiorone, di fichi forniti e tardivi in relazione alla seccagione. Quindi si osserva una pratica che erroneamente viene detta caprificazione in area intemelia, per favorire l’azione delle vespe Blastophaga: operazione assai complessa di incisioni e di sistemi di attiro naturale della Blastophaga onde favorire impollinazioni per una migliore qualità e quantità di fichi forniti eduli.

Ne consegue che la storia dei fichi nel contesto ligure occidentale non fa che sorprenderci: ciò rende necessario un surplus di ricerche, anche allo scopo di un recupero colturale che non sia meramente teorico. La produzione di reddito indicata a suo tempo dal Bickell per la Liguria occidentale avvicinava il fico all’olivo ed alla vite. Il Montemurici, a fine Ottocento, rileva che il prodotto del fico era non minore di cinquecento quintali10.

3. Territorio e nomenclatura: confronti, osservazioni, approfondimenti

Non è questa la sede per approfondire il valore della triade tipicamente mediterra- nea nella Liguria occidentale che comporta la coltivazione in “aggregato” di olivi, fi- co e vite, attestata fin dal pieno medioevo. Va da sé che il fico abbia un ruolo storico

9 A. rIsso, Histoire Naturelle des principales productions de l’Europe Méridionale et par-

ticulièrment de celles des environs de Nice et des Alpes Maritimes, Paris 1826, pp. 130-171.

10 D. montemurIcI, Notizie statistiche, geografiche ed agricole sul Circondario di Sanremo,

Treviso 1881, p. 27. Il Montemurici (Treviso 25 maggio 1834 - Carbonera, TV, 9 giugno 1894) è stato anche uno dei contributori all’inchiesta Jacini (pubblicati tra il 1881 e il 1890).

alimentare e commerciale non secondario, che emerge nelle relazioni di Carassale, Cassioli, Toso e Littardi, pubblicate in questo volume.

Incrociando il dato legato alla nomenclatura di un micro-territorio come quello di Castellaro con l’osservazione di Bicknell mutuata dal Risso emerge la memoria della biodiversità: una memoria complessa che ha inflessioni diverse in Liguria occidentale. Si può dunque procedere ad un’operazione di recupero, sia pure par- ziale. Parziale perché in alcune aree la preponderanza dell’oliveto, coltura “ric- ca”, così come in altre quella recente della floricoltura, a suo tempo “ricchissima”, ha sacrificato il fico non solo come essenza, ma anche quale memoria.

Si sono posti a confronto quattro ambiti: Castellaro, come si è già detto, centro di esportazione, di cultura agricola rilevante e cerniera tra costa ed entroterra; Villa Viani, abitato immerso nel bosco di olivi di sviluppo sei-ottocentesco, non immemo- re del fico; Moano, centro del profondo entroterra ligure, votato ad una produzione ormai di tipo montano e silvo-pastorale; Ventimiglia, fin dal medioevo emporio del fico, ai margini del territorio dei Figùi, i liguri occidentali “mangiatori di fichi” nella dizione provenzale.

La sola griglia nominale di osservazione offre risultati molto diversi. Le coin- cidenze di definizione sono infatti minime. Le fonti utilizzate sono per tre quarti non pubblicate, ma orali. Per le modalità operative si rimanda a quanto osservato a proposito della testimonianza di Castellaro.

La tabella di pagina 142 ha un valore che è solo relativo. Indubbiamente la documentazione è debole a livello di nomenclatura. In fondo le varietà di fico ap- paiono ancora oggi alla memoria come un valore da non ricordare più di tanto. Ognuno ricorda il “suo” fico, ma difficilmente ricorda quello degli altri se non per un sapore occasionale, non dedicandosi ormai alla coltivazione e alla raccol- ta sistematica. Sono piuttosto interessanti incidenze, confronti e ricorrenze.

Di fatto, stando a questa griglia di confronto, emergono alcune realtà evidenti: Ventimiglia e Castellaro, che hanno legato le loro sorti ad una continuativa coltu- ra del fico, esprimono una più ampia memoria della biodiversità. Non così Villa Viani, in valle Impero, coinvolta nella debordante dimensione monoculturale dell’oliveto. Non così Armo, sito silvo-pastorale collegato alla valle Arroscia. Eppure tanto a Villa Viani quanto ad Armo il fico, fresco e soprattutto secco, rappresentava una voce non secondaria della cultura alimentare quotidiana. Per Villa Viani è anche nota, a memoria d’uomo, una località a monte dell’abitato, solatia, ove una famiglia soleva far seccare sulle vìnse ovvero su piani reticolati prima di canne e poi metallici, i fichi raccolti, utilizzando muricci in pietra di appoggio. Va detto però che le due località di cui si parla non hanno sviluppato nel tempo una dimensione commerciale del fico, legato all’autoconsumo.

Non è così per Castellaro, come si è visto, e non lo è stato per Ventimiglia. La città di confine anzi presenta tempi lunghi nel contesto della memoria com- merciale del fico. Si può partire dai “fichi secchi di Ventimiglia” citati costan-

temente dalla documentazione territoriale e giungere ai fichi Pissalutti che lo storico Girolamo Rossi, citando nel pieno XIX secolo una varietà tuttora così detta senza alcuna corruzione, rivela che

per la loro squisita amabilità vanno innanzi a tutti quelli delle regioni delle Ville e di Latte, dove si disseccano i fichi detti pissalutti che, acconciati con molto garbo in iscattole, portano il nome di Ventimiglia in lontane città, e vengono posti innanzi agli amatori di ghiotte lecornie12.

Insomma, due citazioni e due conferme di una denominazione di origine ante- litteram.

Curiosa è poi l’indagine in merito alle variazioni locali di termini legati alla dimensione botanica. Più d’uno può essere convinto che la varietà Brigliazzotta o Brigazzotta derivi da un impianto nel vicino (ma di inverni rigidi) centro di Briga in val Roia. In realtà è la deformazione locale della nota Bourjassotte, francesi- smo per la località valenciana di Burjassot. E molto pare giunto dalla vicina Fran- cia o dalla Spagna, in un contesto di scambio mediterraneo occidentale: lo stesso Colì di Dama è il Col de Dame francese o il Coll de Dam catalano. Si è dunque in un contesto dove la forma, l’osservazione confermano la tradizione identificati- va. E dove lo scambio commerciale e ancora più la migrazione temporanea o de- finitiva, in particolar modo da Liguria occidentale a Provenza, erano diuturni.

I temi della “denominazione di origine” sono ricorrenti, soprattutto, ma non solo, a Ventimiglia: Calabrese, Turche, ma anche Barceluna e ovviamente e addirittura Ventemigliuse. Le osservazioni dialettali sono però dominanti: basta una forma, un colore particolare ed ecco che le variazioni lessicali appaiono evidenti, tanto che non vi è necessità di spiegazione specifica. Meritano in ogni caso parole le Carunchin di Armo, varietà ricordata dal Penzig e registrata come tale dall’Apro- sio. Ma il savonese carunchina è un “cappello duro”, come ricorda ancora l’A- prosio: ancora, ci si trova di fronte ad una profonda memoria identificativa, visi- va e di consistenza13?

Del tutto inconsuete sono le Belurfe ricordate a Ventimiglia: termine che l’Aprosio non ricorda, ma che è presente nel dialetto anche per indicare persone «anziane e malcurate di sesso femminile», frequente nel Ponente savonese. Il termine indica anche luogo selvaggio nei boschi, località alpestre (a Sanremo), spelonca, covile, catapecchia. Si direbbe che berurfa può in effetti avere un significato simile a brutta,

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