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Nelle fonti artistiche l’albero di fico e il suo frutto compaiono frequentemente, in particolare nei temi iconografici delle sacre scritture, come elementi di cornice o simboli di fecondità, almeno al pari di altri soggetti come la vite e il grano che, a differenza dei primi, hanno una forte connotazione eucaristica.

La frequenza dell’uso delle immagini del fico nasce dalla presenza di una diffusa coltivazione, dapprima in Asia occidentale e poi nel bacino del Mediterraneo e da una tradizione che vede le sue origini legate alla divinità. Particolare rilevanza aveva l’albero di fico nella religione della antica India, dove si pensava che il suo primo esemplare fosse stato l’albero cosmico, che metteva in connessione il cielo alla terra, e che fosse stato la culla di Vishnu, divinità Indù, la quale sarebbe stata protetta alla nascita dalle sue ombrose fronde. Tracce delle memorie orientali si innestano successivamente nell’area mediterranea e i loro effetti si individuano nella venerazione egizia del fico come albero sacro – emblema della vittoria della vita sulla morte – in correlazione ad Iside ed Osiride, come pure a quanto accadeva in Grecia per Atena e Dioniso1.

1 Per un brevissimo approfondimento si vedano alcuni cenni in Encyclopédie des symboles,

sous la direction de M. Cazenave, München 1989, pp. 257-258 (s.v., Figuier); M. lurker, s.v.,

Fico (albero e frutto), in Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, ed. it. a cura di G. Ravasi, Cinisello Balsamo (Mi) 1990, pp. 81-82; M. feuIllet, s.v., Fico (albero), Fico (frutto),

in Lessico dei simboli cristiani, trad. dal francese di L. Pietrantoni, Roma 2006, pp. 47-48; cfr. inoltre e. homann-WedWkIng, s.v., Dioniso, in Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale,

III, Roma 1960, pp. 112-115; a. venerI - c. gasParrI, s.v., Dionysios, in Lexicon iconographicum

mythologiae classicae, III.1, Zürich-München 1986; Lexicon iconographicum mythologiae classicae, III.2, Zürich-München 1986, pp. 296-456, sul tema della rinascita si veda inoltre F. stroPPa, Vite, uva e vino nella tradizione iconografica medioevale e moderna, in «In terra

vineata». La vite e il vino in Liguria e nelle Alpi Marittime dal medioevo ai nostri giorni. Studi in memoria di Giovanni Rebora, Atti del Convegno internazionale [Taggia (Im), Convento dei domenicani, 6-8 maggio 2011], a cura di A. Carassale - L. Lo Basso, Ventimiglia (Im) 2014, pp. 306-356, in part. p. 308 e nota 7; come pure lo studio di E. schleberger, Le divinità indiane.

Aspetto, manifestazioni e simboli. Manuale di iconografia induista, trad. it. L. Arcella, Roma 1999, in part. p. 197; A.L. dallaPIccola, s.v., Vata (Ficus bengalensis); s.v., Vatapattrashayi(n),

in Induismo. Dizionario, di storia cultura, religione, trad. it. M.C. Coldagelli, Milano 2005, p. 284; T. lorenzettI, Il tempio induista. Strutture e simboli, Roma 2007.

L’elemento chiaro che risulta da questi culti sta nella forza, nell’abbondanza e nell’energia vitale della pianta che viene tramandata nei secoli dalla tradizione orale e scritta, fino ad essere impiegata in Occidente come elemento cornice ma fortemente simbolico nel racconto della fondazione di Roma: si narra, infatti, che Romolo e Remo furono nutriti dalla lupa sotto un fico2 selvatico presso il colle

Palatino. L’accostamento dell’immagine dell’allattamento da parte dell’animale e del luogo distinto da una copertura protettiva realizzata grazie alla presenza della pianta del ficus ruminalis – il cui aggettivo si avvicina al sostantivo ruma, mammella – è frutto di una raffinata costruzione letteraria che potenzia la narrazione mitologia dell’origine di Roma. Il fico e i suoi frutti sono così da sempre nell’immaginario metafora di prosperità, di abbondanza, di vita e di connessione tra cielo e terra.

Sono numerose le attestazioni della sua presenza nelle fonti botaniche che illustra- no in modo scientifico le sue caratteristiche biologiche o che narrano aneddoti con- nessi alle sue prerogative di fecondità in positivo o in negativo: in ambito medio orientale si ritracciano descrizioni dettagliate nelle trascrizioni dell’erbario De ma- teria medica di Dioscoride (fig. 1), come nell’esemplare di metà X secolo prove- niente da Costantinopoli conservato a New York3 o nell’Arabe 49474, databile al

2 tIto lIvIo, Ab urbe condita, 1, 4: «Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique

secundum deorum opes imperii principium. Vi compressa Vestalis cum geminum partum edidisset, seu ita rata seu quia deus auctor culpae honestior erat, Martem incertae stirpis patrem nuncupat. Sed nec di nec homines aut ipsam aut stirpem a crudelitate regia vindicant: sacerdos vincta in custodiam datur, pueros in profluentem aquam mitti iubet. Forte quadam divinitus super ripas Tiberis effusus lenibusstagnis nec adiri usquam ad iusti cursum poterat amnis et posse quamvis languida mergi aqua infantes spem ferentibus dabat. Ita velut defuncti regis imperio in proxima alluvie ubi nunc ficus ruminalis est – Romularem vocatam ferunt – pueros exponunt. Vastae tum in his locis solitudines erant. Tenet fama cum fluitantem alveum, quo expositi erant pueri, tenuis in sicco aqua destituisset, lupam sitientem ex montibus qui circa sunt ad puerilem vagitum cursum flexisse; eam submissas infantibus adeo mitem praebuisse mammas ut lingua lambentem pueros magister regii pecoris invenerit – Faustulo fuisse nomen ferunt – ab eo ad stabula Larentiae uxori educandos datos. Sunt qui Larentiam volgato corpore lupam inter pastores vocatam putent; inde locum fabulae ac miraculo datum. Ita geniti itaque educati, cum primum adolevit aetas, nec in stabulis nec ad pecora segnes venando peragrare saltus. Hinc robore corporibus animisque sumpto iam non feras tantum subsistere sed in latrones praeda onustos impetus facere pastoribusque rapta dividere et cum his crescente in dies grege iuvenum seria ac iocos celebrare». Numerosi sono i riferimenti come in Tacito (tacIto, Annales, XIII, 58); cfr. inoltre G.D. hadzsIts, The Vera Histo- ria of the Palatine Ficus Ruminalis, in «Classical philology», XXXI, 4, 1936, pp. 305-319; J. mar- tínez-PInna, La ficus ruminalis y la doble fundación de Roma, in Images d’origines, origines d’une image. Hommages à J. Poucet, eds. P.A. Deproost - A. Meurant, Louvain-la-Neuve 2004, pp. 25-34.

3 New York, Pierpont Morgan library, ms M 652, f. 266r (alla base della figura si legge

sykomorea).

4 Paris, Bibliothèque nationale de France, Arabe 4947, f. 19v: cfr. E. blochet, Les peintures des

mss. orientaux de la Bibl. Nat., Paris 1914-20, p. 5, n. 1; Id., Gatal. des mss. arabes des nouvelles

acquis., Paris 1925, p. 44; M. collIns, Medieval herbals. The illustrative traditions, London 2000,

pp. 124-126; A. contadInI, Arab painting: text and image in illustrated arabic manuscripts, Leiden-

Boston 2010, p. 36; si veda anche C. bertellI, s.v., Dioscuride, in Enciclopedia dell’arte antica,

XII secolo, che illustrano il Ficus sycomorus (fig. 2); allo stesso modo suscitano curiosità i racconti tratti dall’opera antica indiana, Pañcatantra, in cui si rievocano apologhi come nella storia della tartaruga e della scimmia ambientata in una ficaia, dove gli animali insieme al contesto naturale agiscono da protagonisti a fini pedagogici: se ne presenta un esempio di origine mediorientale5 tardo-medievale

(metà XIV secolo) (fig. 3), in cui le fronde degli alberi sono ben sviluppate, nella porzione superiore della sequenza narrativa, per creare in modo immediato la percezione nell’osservatore di una cupola protettiva che si connota come nesso tra l’ambito divino e quello terreno.

La tradizione sembra essere così robusta che anche in Occidente compaiono er- bari in cui si cataloga il fico, come nel Tractatus de herbis6 – realizzato a Salerno

(fig. 4) alla fine del XIII (1280-1310), tra le cui pagine si illustra la pianta ac- compagnata da una figura umana ritratta mentre si arrampica sull’albero –, o nel Compendium Salernitanum7 del terzo quarto del XIV secolo (1350-1375), in cui vengono riprodotte le foglie del Ficus carica, secondo la dicitura posta alla base dell’albero (fig. 5).

L’iconografia del fico è legata strettamente ai temi biblici neo e veterotestamen- tari e assume due caratteristiche opposte: quella positiva di fertilità e di ab- bondanza e quella negativa di sterilità e di carestia. Nella Bibbia si parla di fichi nel Pentateuco: gli esploratori di Mosè8 che perlustrarono il paese dal deserto

del Sin fino a Recob, in direzione di Amat, quando giunsero alla valle di Escol «tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga e presero anche melagrane e fichi» (Nm 13,23). I frutti raccolti caratterizzano la Terra promessa evidenziando il contrasto con il deserto che «non è un luogo dove si possa seminare, non vi sono fichi, non vigne, non melograni e non c’è acqua da bere» (Nm 20,5): la fertilità della terra promessa è connotata dalla presenza di fichi, melograni, vite, ulivi, miele, acqua, orzo e frumento.

Nel momento in cui il Signore si adira con il suo popolo, questi colpisce gli ele- menti della prosperità dell’uomo – le vigne e i fichi – facendo schiantare gli albe- ri come ricorda il Salmo 105 (Sal 105,33) o la descrizione di Gioele della campagna distrutta (Gl 1,7) quando sopraggiunge il castigo del Signore tramite l’invasione

5 Il testo più antico attualmente noto risale al IV-VI secolo d.C., ma per la sua diffusione in

Occidente bisogna rifarsi alla versione in lingua araba di Ibn Al-Muqaffa’, Kalila e Dimna, composta nell’VIII secolo e ricavata da una precedente traduzione in medio persiano (pehlevico), del VI secolo. Cfr. Paris, Bibliothèque nationale de France, Arabe 3467, f. 85 (metà XIV secolo); Paris, Bibliothèque nationale de France, Persan 377, f. 99v (fine XIV secolo).

6 London, British Library, Egerton 747, f. 41v, Finocchio e fico. Si veda PS. Bartholomaeus

Mini De Senis Tractatus de herbis (ms London, British Library, Egerton 747), a cura di I. Ventura, Firenze 2009.

7 New York, Pierpont Morgan library, ms M 873, f. 46v.

8 Per l’iconografia dell’uva in questo episodio biblico, cfr. stroPPa, Vite, uva e vino nella

tradizione iconografica medioevale e moderna cit., pp. 306-356, in part. pp. 326-327.

Fig. 1 Fig. 2 Fig 3

Fig. 1 - New York, Pierpont Morgan library, ms M 652, f. 266r, part., Sykomorea.

Fig. 2 - Paris, Bibliothèque nationale de France, Arabe 4947, f. 19v, part., Ficus sycomorus. Fig. 3 - Paris, Bibliothèque nationale de France, Arabe 3467, f. 85, part., Storia della tartaruga e

della scimmia in una ficaia.

Fig. 4 Fig. 5 Fig.6

Fig. 4 - London, British Library, Egerton 747, f. 41v, part., Finocchio e fico. Fig. 5 - New York, Pierpont Morgan library, ms M 873, f. 46v, part., Ficus carica.

Fig. 6 - Paris, Bibliothèque nationale de France, Latin 6 (3), f. 19v, Visioni del profeta Geremia, Due cesti di fichi (in basso a sinistra).

delle cavallette che «hanno fatto delle mie vite una desolazione e tronconi delle piante di fico; li ha tutti scortecciati e abbandonati» a tal punto che «i loro rami appaiono bianchi». Gioele invita con queste parole Israele alla conversione, usando l’immagine del fico spoglio, abbandonato e secco, come emblema della perduta ricchezza e nella devastazione questi riconosce la punizione di Dio che nel giorno della collera umilia il suo popolo, esigendo una debita espiazione e la sua conseguente conversione.

Lo stesso criterio emerge nelle invettive di Geremia inviate ai giudei deportati che esitano ad insediarsi in terra straniera: il profeta testimonia la diaspora, denunciando l’infedeltà e la rottura dell’alleanza con Dio, sigillata da tremende previsioni, e annunciando maledizioni9 che, nelle feroci sentenze, si manifestano

attraverso la peste e la fame causata dalla rovina delle coltivazioni presenti sul territorio. Il binomio tra carestia e fico è indicativo perché introduce nel racconto una figura ossimorica che attiva l’attenzione del lettore. Nel messaggio Geremia, pur intravedendo il ritorno a Sion, incoraggia l’insediamento del popolo in terra d’esilio (Ger 29,4-7) almeno per due generazioni consigliando l’ascolto delle parole di Dio e la scelta di vita in un luogo straniero.

L’esortazione torna nuovamente quando narra la sua visione in cui compaiono due canestri di fichi – l’uno buono, l’altro cattivo – che simboleggiano rispetti- vamente il popolo d’Israele in esilio nel paese dei caldei e quello rimasto a Ge- rusalemme. Nella esplicitazione della narrazione il profeta indica che, alla fine, i deportati non sono più colpevoli di coloro che sono rimasti e la maledizione – che ha colpito coloro che sono partiti per vivere in terra straniera – è cancellata dal percorso di espiazione e pertanto trasformata in benedizione – appunto il cesto di fichi buoni – perché il futuro popolo si forma in esilio.

Un interessante esempio calligrafico relativo a questo soggetto si trova nella bibbia di Roda10, di metà XI secolo, nelle cui pagine miniate si individuano diverse

scene raffiguranti le visioni del profeta Geremia, come quella dei due cesti di fichi, posta alla base della prima colonna (fig. 6). Come Gioele e Geremia anche il profeta Abacuc11 utilizza l’immagine del fico e descrive la terrificante apparizione di Dio,

atta a salvare il suo popolo, che provoca una serie di cataclismi, insieme alla rottura dell’equilibrio naturale della fioritura che procura la sterilità del fico, come di altri alberi, emblema dello strappo tra Dio e uomo.

9 Ger 29,17: «ecco io manderò contro di essi la spada, la fame e la peste e li renderò come i fichi

guasti che non si possono mangiare tanto sono cattivi».

10 Paris, Bibliothèque nationale de France, Latin 6 (3), f. 19v.

11 Ab 3,3: «Fai erompere la terra in torrenti; i monti ti vedono e tremano, un uragano di acque si

riversa, l’abisso fa sentire la sua voce. In alto il sole tralascia di mostrarsi e la luna resta nella sua dimora, fuggono al bagliore delle tue saette, allo splendore folgorante della tua lancia. Sdegnato attraversi la terra, adirato calpesti le genti. Sei uscito per salvare il tuo popolo, per salvare il tuo consacrato. Hai demolito la cima della casa dell’empio, l’hai scalzata fino alle fondamenta. Con i tuoi dardi hai trafitto il capo dei tuoi guerrieri che irrompevano per disperdermi con la gioia di chi

In parallelo a simili descrizioni di castigo e flagello per il popolo di Israele si vedono situazioni di stabilità illustrate nel primo libro dei Maccabei, in cui la figura del fico rimane centrale, simbolo di fermezza e punto di riferimento al pari della legge, e lo star seduti «sotto la propria vite e il proprio fico» significa godere della pace voluta da Dio per gli uomini: sotto il regno di Simone della famiglia dei Maccabei, si narra infatti che vi fosse «la pace e Israele gioiva di grande letizia. Ognuno sedeva sotto la sua vite e sotto il suo fico e nessuno incuteva loro timore!»12. Lo stare sotto il fico – consuetudine che deriva dal mondo rurale – diventa per i profeti una metafora incisiva e proprio la stessa immagine viene impiegata da Michea13 (fig. 7) a proposito

del futuro regno messianico quando contempla Gerusalemme come la capitale di un mondo trasformato dalla parola divina, nella quale tutte le nazioni vivranno in prosperità.

Se ne riscontra un esempio miniato tardo-medievale (1265 circa) nel capolettera dell’incipit del libro di Michea14, in cui il profeta nimbato è assiso, all’interno del

campo della lettera maiuscola U di Verbum Domini, su un trono realizzato con rami di fico che si dispongono come una seduta e che questi tiene nelle mani in segno trionfante, come se fossero scettri. Alla luce di quanto estrapolato dai passi delle sacre scritture si comprende che il fico sembra equiparato all’albero della vita, come se fosse un cardine su cui si sviluppa l’equilibrio tra divino ed umano e per questo motivo la sua floridezza simboleggia la fecondità e la benedizione del cielo verso la terra.

Nel Nuovo Testamento i riferimenti al fico diventano più pertinenti, rispetto alle allusioni veterotestamentarie sulla simbologia della prosperità, e si concentrano sul- la figura di Natanaele e sulla parabola del fico sterile, che illustra l’urgenza della conversione. Si narra che «un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quegli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai”»15.

divora il povero di nascosto. Hai affogato nel mare i suoi cavalli nella melma di grandi acque. Ho udito e fremette il mio cuore, a tal voce tremò il mio labbro, la carie entra nelle mie ossa e sotto di me tremano i miei passi. Sospiro al giorno dell’angoscia che verrà contro il popolo che ci opprime. Il fico infatti non germoglierà e nessun prodotto daranno le viti, cesserà il raccolto dell’olivo, i campi non daranno più cibo, le greggi spariranno dagli ovili e le stalle rimarranno senza buoi. Ma io gioirò nel Signore, esulterò in Dio mio salvatore. Il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve e sulle alture mi fa camminare».

12 1 Mac 14,12. 13 Mic 4,4.

14 Mic 1,1. Per la miniatura si veda New York, Pierpont Morgan library, ms G 42, f. 276v

(Inghilterra, Oxford, 1265 circa).

Come già nell’Antico Testamento, anche nei sinottici il Ficus carica è simbolo dell’amore divino, spesso non corrisposto, nonostante le innumerevoli premure da parte di Dio; inoltre, la parabola di Luca non è priva di allusioni al detto sapienziale che i contemporanei dell’evangelista ben conoscevano: «il guardiano di un fico ne mangia i frutti, chi ha cura del suo padrone ne riceverà onori»16. Nel proverbio

si indicano i ruoli dei protagonisti che si rintracciano nella parabola: al guardiano spetterà di mangiare i fichi, tuttavia per ottenere questo risultato dovrà vigilare attentamente per il padrone e prestare le dovute cure all’albero; così facendo, entrambi conseguiranno i risultati cogliendone frutti e onore, e, allo stesso tempo, il fico ne troverà giovamento e vita. Dall’episodio si trae un forte messaggio evangelico di salvezza e si comprendono i ruoli assunti dalle tre figure e i parallelismi allegorici. Il padrone è identificabile con Dio; il fico è simbolo di Israele, che per ben «tre anni»17 assistette all’attività pubblica di Gesù senza peraltro capirne il valore; e

il bravo agricoltore rappresenta una parte del «resto d’Israele»18, colui che si è

accorto della qualità della pianta che altri avrebbero voluto sradicare.

Dagli elementi del racconto si evidenziano attinenze con la realtà ebraica: infatti le norme dottrinali riguardanti l’agricoltura, già in uso durante l’epoca della parabola, e mutuate dalla Torah, imponevano che solamente dopo tre anni i frutti delle piante fossero ritualmente puri, in grado cioè di essere consumati. Prima di questo periodo erano di «spettanza divina»: difatti, secondo il codice di santità19 i frutti di un albero

maturati prima dell’offerta delle primizie erano dichiarati «non circoncisi»20. Al

quarto anno, quando essi erano ormai ben sviluppati, potevano essere offerti al Signore in segno di ringraziamento e di conseguenza gli ebrei potevano usufruirne solo dal quinto anno dalla piantagione.

Nella versione di Luca21, contrariamente ai passi di Matteo22 e Marco23, i frutti at-

tesi, ma non corrisposti, non suscitano la maledizione contro la pianta del fico24. Ri-

spetto alle regole ebraiche sembra che l’atteggiamento di Dio si ponga su un piano

16 Pr 27,18. 17 Lc 13,7. 18 Is 10,20-22. 19 Lc 17-26. 20 Lc 19,23.

21 Cfr. note 17, 19, 20. L’uomo mangerà i frutti dell’albero se rispetta il Signore ed egli si

aspetta frutti dal suo popolo, ma non li trova: «Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo». Nonostante il comando del padrone e la sterilità del fico il vignaiolo, avendone invece colto le potenzialità, supplica per un ulteriore tempo di grazia: «Padrone, lascialo ancora quest’anno!».

22 Mt 21,18-22. 23 Mc 11,12-14.20-25.

24 Cfr. M. grosso, L’enigma del fico senza frutti. Questioni critiche e interpretative su MC

11,12-14.20-25, in «Quaderni del Dipartimento di filologia e tradizione classica “Augusto Rostagni”», 3, 2004, pp. 121-147.

Fig. 7 Fig. 8

Fig. 7 - New York, Pierpont Morgan library, ms G 42, f. 276v, part., Michea.

Fig. 8 - Paris, Bibliothèque nationale de France, Grec 115, c. 95r, part., parabola del fico.

Fig. 9 Fig. 10

Fig. 9 - Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 4453, c. 175v, part., parabola del fico. Fig. 10 - London, British Library, Royal 6 E VII, f. 129v, part., Cristo mentre indica il fico.

Fig. 11 Fig. 12

Fig. 11 - London, British Library, Royal 20 B IV, f. 98v, part., maledizione del fico.

differente e, nonostante sia l’ultima occasione di redenzione, assume una posizio- ne più comprensiva affinché sia di incentivo all’accoglienza del messaggio salvifi- co diffuso da Gesù ed espresso nei Vangeli. In linea con quanto indicato nel raccon- to descritto da Luca, il Signore (il «vignaiolo») è un Dio misericordioso e pietoso, colmo di grazia e lento all’ira25 che temporeggia: concede un anno giubilare ed

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