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Capitolo Terzo

COLLEZIONI MUSEALI E ANALISI ARTISTICA

3.1. Analisi dei principali artist

3.1.5. Anita Dube

Nata nel 1958 a Lucknow, si trasferisce per studiare storia e critica dell'arte a Delhi dove attualmente vive e lavora. Il suo studio si trova all'interno della sua abitazione nel quartiere popolare di Khiekee, lo stesso che ospita gli studi dell'Associazione KHOJ,156 con la quale l'artista collabora fino dalla fondazione.157 La sua

carriera lavorativa inizia come storica dell'arte, e solo dopo essere entrata in contatto con numerosi artisti decide di ricreare un proprio universo artistico. Influenzata in un primo tempo dal DADA e dal Fluxus, ha sempre cercato nei suoi lavori di mantenere ben salde le radici all'interno del contesto post-coloniale indiano,158 traendo ispirazione

da una serie di esperienze personali che toccano svariati temi, principalmente quello della mortalità, della gioia e della condizione sociale con particolare attenzione alla condizione femminile. I suoi primi esperimenti artistici si possono far risalire ai primi anni '80, quando si inserisce all'interno di un'associazione di pittori e scultori di Baroda che, oltre ad occuparsi di arte, offriva un'analisi critica e riflessiva dell'India del tempo caratterizzata da una serie di rivolte anti-musulmane.La sua attenzione alla situazione politica e sociale dell'India appare chiara in un suo lavoro del 2008, Ah, titolo che intende riprodurre il suono di un respiro (Figura 30). L'opera consiste in una fotografia in bianco e nero ripresa da un giornale nella quale sono visibili degli indiani durante una protesta. Incollate nella parte superiore vi sono una serie di radici ricoperte in velluto nero che vogliono riferirsi sia alle sue radici hindu sia a quelle dell'albero della vita che nell'induismo si trova però capovolto con i rami nel terreno e le radici al cielo. La Dube con Ah indirizza l'attenzione dello spettatore alle lotte per la giustizia unendo la repressione alla riconciliazione in chiave poetica e metaforica mettendo in primo piano la protesta del popolo contro le decisioni prese dai leader politici.159 E' così che

l'artista vuole mostrare al suo popolo che senza una democrazia dinamica l'India è destinata ad appassire come un albero nel momento in cui viene estirpato dal terreno. 156 Si rimanda al capitolo quarto.

157 NEUTRES, J., JHA, R., New Delhi, New Wave, Damiani Editore, Bologna, 2007, p.116

158 A.A.V.V., Icon: India contemporary, catalogo della mostra tenuta nell'ambito della 51.ma Esposizione

Internazionale d'Arte di Venezia , 2005, p.6

Una produzione artistica, quella della Dube, che non guarda solo al contesto sociale del suo paese ma anche all'intimità della sua famiglia che le permette di portare nelle sue opere memorie e oggetti del passato. Il trascorrere, durante gli anni della sua infanzia, molto tempo all'interno della clinica chirurgica dove lavoravano i suoi genitori le ha consentito di rimanere affascinata dalle ossa umane che vi vedeva, così tanto da decidere, anni dopo, di utilizzarle all'interno dei suoi lavori. L'artista stessa, compiendo una specie di rituale, lava e deterge queste ossa, per poi ricoprirle, quasi a voler nascondere la loro identità, con tessuti in velluto di color zafferano o di colore rosso.160

La scelta del rosso non è casuale in quanto riprende il colore indossato dalle donne indiane durante il giorno del loro matrimonio oltre ad essere il colore delle offerte lasciate nei templi alle divinità.161 Un legame forte con le tradizioni ma anche con la vita

quotidiana, basti pensare che successivamente questi oggetti vengono ricoperti con perline, pailettes o pizzi utilizzati dalle donne per adornare i propri abiti.162 Una volta

completati questi oggetti vengono inseriti all'interno di teche di plexiglass trasparente ed esposte in modo tale da ricreare l'immagine che lei si ritrovava ad osservare da bambina nello studio dei genitori sancendo, a detta dell'artista, “un profondo rifiuto nei confronti della morte”.163 Un'altra caratteristica del lavoro delle Dube è l'utilizzo di

oggetti usati che eleva ad opera d'arte dopo che gli ha conferito una veste e un contesto nuovo. Una logica di riciclaggio proprio della tradizione, “Da dove vengo io, in

India, salviamo tutto, tutto viene riutilizzato. La logica del capitalismo è quella di avere di più, per avere in eccesso, e creando rifiuti”.164

Un'altra tipologia di lavori proposti dalla Dube si avvale dell'utilizzo di occhi in ceramica che tradizionalmente vengono applicati alle rappresentazioni delle divinità hindu. Questa pratica la inizia nel 1996, in quanto, proprio nel corso degli anni Novanta, questi occhi, oltre ad essere prodotti industrialmente, si potevano acquistare non più solo 160 JHAVERI, A., A guide to 101 Modern & Contemporary Indian Artists, India Book House, Mumbai, 2005,

p.109

161 AA.VV., Paris – Delhi – Bombay, op.cit., p.184 162 JHAVERI, A., op. cit., p.109

163 NEUTRES ,J., JHA,R.,. op. cit., 2007, p.116 164 Ibidem

all'interno dei templi ma anche per le strade delle città. Per l'artista simboleggiano gli individui e la loro diffusione su ampia scala, in una chiara messa in scena della crescita della popolazione indiana all'interno delle megalopoli. Inoltre è un chiaro esempio della moltitudine di occhi umani che hanno accompagnato le grandi migrazioni nella storia,165 oltre che migliaia di orologi appartenenti alle popolazioni sfollate che dalle

campagne si muovevano verso le città a causa dello sviluppo tecnologico ed economico che aveva interessato il Paese.166 Tra queste opere si può citare Intimation of Mortality

(Figura 31), realizzata nel 2007, dove gli occhi si trovano ad occupare un angolo della

stanza nel punto dove questo si incontra con il soffitto. Ben presto però questa macchia di occhi si espande lungo la parete per indicare il disperdersi della popolazione indiana durante le migrazioni, quelle antiche ma anche le contemporanee.167 La Dube

attraverso le sue installazioni cerca sempre di portare in primo piano i rituali della sua nazione, andando ad interrogarsi su di essi e su come appaiono, molte volte agli occhi degli occidentali, come una serie di pratiche devozionali kitsh svolte dalle donne. A suo parere il sacro è stato contaminato da un virus, lo stesso virus che porta la moltitudine di occhi sacri a disperdersi sulla parete, e che è incarnazione della religiosità. Quest'ultima per l'artista è diventata sempre più politicizzata andando ad infettare la sfera pubblica indiana.168

165 NEUTRES, J., JHA, R., op. cit., p. 116

166 ADAJANIA, N., Sculptures at the edge in “Art India”, vol. 5, n.3, 2000 167 JHAVERI, A., op. cit., p.109

Figura 30. Anita Dube, Ah!, 2008, fotografia e radici di albero