La salita al trono imperiale di Enrico VII di Lussemburgo suscita fra i ghibellini italiani forti attese, che sembrano trovare compimento quan-do Enrico decide di scendere in Italia alla fine del 1310, per riaffermare l’autorità dell’Impero e per essere incoronato a Roma dal papa. Anche Dante, che in quegli anni si trova nel Casentino al servizio dei conti Gui-di, presso i castelli di Dovadola e Poppi, ripone nell’azione politica e mi-litare dell’imperatore le proprie speranze di vedere ripristinati l’ordine e la giustizia nella penisola. L’«exul inmeritus» – così Dante firmava le sue lettere – si schiera quindi apertamente in suo favore. È possibile che si re-chi a rendere omaggio a Enrico già nel dicembre 1310 a Vercelli, quando gli giura fedeltà anche Moroello Malaspina, oppure nel gennaio del 1311 a Milano, quando Enrico riceve la corona del Regno d’Italia. Tra i Co-muni guelfi più risoluti a resistere all’imperatore c’è Firenze. Dante nel marzo del 1311 scrive una durissima lettera contro gli «scelestissimis Flo-rentinis intrinsecis» (‘gli scellerati abitanti di Firenze’), minacciando un inesorabile castigo per la città (epistola VI). La lettera successiva, nell’a-prile dello stesso anno, scritta in nome di «universaliter omnes Tusci qui pacem desiderant», esorta lo stesso imperatore a rivolgere con decisione la sua azione militare contro Firenze, «vipera versa in viscera genitricis [di Roma]» (epistola VII). Non sorprende dunque che il nome di Dante rimanga fuori dall’amnistia decretata pochi mesi dopo dal Comune fio-rentino a favore dei guelfi banditi. Dopo aver ricevuto la corona imperia-le a Roma, finalmente, nel settembre 1312, Enrico pone l’assedio a Firen-ze, ma con forze inappropriate, non riuscendo così a entrare in città.
Nell’estate del 1313, quando il papa Clemente V gli ha ormai voltato le spalle, decide quindi di muovere verso il Meridione, ma il 24 agosto, a Buonconvento, presso Siena, l’imperatore muore di malaria, facendo così svanire agli occhi di Dante il sogno di una pax augusta e la speranza di un prossimo ritorno a Firenze. All’«alto Arrigo» tuttavia il poeta riserve-rà, per bocca di Beatrice, un seggio in Paradiso:
E in quel gran seggio a che tu li occhi tieni1 per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni2, 135 sederà l’alma, che fia giù augusta3,
dell’alto Arrigo ch’a drizzare Italia verrà in prima ch’ella sia disposta.
(Par. XXX, 133-138) L’«alto Arrigo»
1 a che… tieni: ‘a cui fissi lo sguardo’.
2 prima… ceni: ‘prima che tu sieda a questo banchetto di nozze’.
3 augusta: che è stata di un imperatore.
Come racconta Boccaccio nella sua biografia del poeta, Dante «nella venuta d’Arrigo VII imperadore fece uno libro in latina prosa il cui titolo è Monarcia» (Trat-tatello, 195). Nonostante un problematico riferimento al Paradiso contenuto nel trat-tato, è probabile che Dante decida di com-porre la Monarchia, in cui legittima sul piano teologico, filosofico e storico l’auto-rità imperiale, proprio durante la discesa di Enrico VII. Nei tre libri del trattato Dante si propone di dimostrare, rispettiva-mente: che l’Impero universale è necessa-rio per il buon ordinamento del mondo;
che i Romani costruirono l’Impero a buon diritto e in accordo con la vo-lontà divina; che l’autorità imperiale deriva direttamente da Dio e non dal pontefice. Con quest’ultimo argomento Dante interviene nel dibatti-to su chi fra l’imperadibatti-tore e il papa avesse il primadibatti-to del diritdibatti-to, che al tem-po era al centro di una cospicua produzione libellistica. Ma Dante va ben oltre la disputa giuridica o teologica, affrontando il problema su un piano filosofico e storico, mediante il ricorso all’autorità di Aristotele, di cui ri-chiama, fra l’altro, la discussa nozione di «intelletto possibile» per giusti-ficare l’idea di una conoscenza e di una felicità universali. Inoltre, Dante si richiama ai poeti epici latini, soprattutto Virgilio, con cui rivendica la natura provvidenziale dell’Impero romano. La Monarchia, al di là del suo valore intrinseco, si rivela perciò estremamente utile ai fini della comprensione di fondamentali temi e concetti espressi nella Commedia.
Non è chiaro dove si trovi Dante nel periodo immediatamente suc-cessivo al fallimento dell’impresa di Enrico; probabilmente ha continua-to a muoversi fra il Casentino e la Lunigiana. Nella tarda primavera del 1314 scrive l’epistola XI ai cardinali italiani per esortarli a eleggere, co-me successore di Cleco-mente V, un papa italiano e a riportare la sede pa-pale da Avignone a Roma. Nel maggio del 1315 Dante si preclude defi-nitivamente la possibilità di rientrare a Firenze. I nuovi governanti del Comune emanano un provvedimento di amnistia, al prezzo di una mul-ta e di un rito umiliante, che Dante respinge però con fermo sdegno, co-me scrive a un amico fiorentino:
Estne ista revocatio gratiosa qua Dantes Alagherii revocatur ad patriam, per trilustrium fere perpessus exilium? Hocne meruit innocentia manifesta quibuslibet? hoc sudor et labor continuatus in studio? Absit a viro phylo-sophie domestico temeraria tantum cordis humilitas […]. (Epistola XII, 3) [È questa la grazia del richiamo con cui Dante Alighieri è richiamato in patria dopo aver patito quasi per tre lustri l’esilio? Questo ha meritato una innocenza evidente a chiunque? Questo i sudori e le fatiche conti-nuate nello studio? Lungi da un uomo familiare della filosofia una bas-sezza d’animo tanto sconsiderata.]
La Monarchia
Gli anni 1313-1315 Figura 6 Incoronazione di Enrico VII di Lussemburgo.
Dopo che il rifiuto dell’amnistia ha determinato una nuova condan-na a morte, per sé e per i figli, Dante lascia la Toscacondan-na, facendo ritorno a Verona, presso il vicario imperiale Cangrande della Scala, la cui gene-rosa ospitalità è celebrata nel Paradiso per bocca di Cacciaguida (Par.
XVII, 88). Dei rapporti privilegiati con Cangrande è prova l’epistola XIII, con cui Dante gli dedica il Paradiso.
La lettera tuttavia è stata da sempre fonte di innumerevoli discussioni:
circa la sua datazione (tra il 1316 e il 1320); circa il luogo di composizione (Verona o Ravenna); circa la possibilità che accompagnasse l’intera terza cantica o solo alcuni canti; nonché, infine, circa la sua stessa autenticità.
Alla dedica, che occupa la prima parte della lettera, segue infatti un’intro-duzione generale alla Commedia e un’esposizione dei primi versi del Pa-radiso, interrotta perché – spiega l’autore – «urget enim me rei familiaris angustia, ut hec et alia utilia reipublice derelinquere oporteat» (‘mi oppri-mono infatti le angustie della povertà sì che sono obbligato a tralasciare questa ed altre attività utili allo stato’). Tale parte esegetica per forma e contenuti continua ad apparire sospetta a buona parte degli studiosi, che invece per lo più concordano sull’autenticità della dedica.
Nel 1319 Dante si trasferisce a Ravenna, presso Guido Novello da Po-lenta, nipote di Francesca da Rimini e cultore di poesia. Qui, circondato da amici e discepoli, lavora al completamento del Paradiso. Nel gennaio 1320 il poeta, dopo un viaggio a Mantova, torna brevemente a Verona – segnale questo della persistenza dei rapporti con Cangrande – per presentare nella chiesa di Sant’Elena la Questio de aqua et terra, in cui affronta, mediante la prassi sillogistica propria della scolastica medievale, una questione filosofi-ca «de situ et figura sive forma duorum elementorum, aque videlicet et ter-re», ovvero sul rapporto tra la sfera delle acque e quella della terra.
Nell’estate del 1320, Giovanni del Virgilio, maestro di retorica dell’Università di Bologna legato all’ambiente dei preumanisti padova-ni, invia a Dante un’epistola metrica in cui gli rimprovera la scelta del volgare per un poema di argomenti tanto elevati come la Commedia, e lo invita a cantare in latino i recenti avvenimenti bellici italiani, così da poter essere incoronato poeta nello Studio di Bologna. Dante risponde con un’egloga in esametri, sul modello delle Bucoliche virgiliane, in cui rivendica la sua fiducia nel poema, che gli farà tributare l’alloro poetico dalla sua Firenze; inoltre annuncia l’invio di dieci tazze di latte ovino, dieci bucoliche (o forse dieci canti del Paradiso, non ancora divulgato).
Giovanni risponde con un’altra egloga, invitandolo comunque a Bolo-gna, dove molti letterati lo attendono. Dante declina l’invito, a causa della presenza nella città felsinea di un personaggio crudele, designato nella finzione con il nome di Poliphemus, probabilmente Fulcieri da Calboli, spietato Capitano del Popolo guelfo.
Ma, stando al racconto di Boccaccio, il poeta non fa in tempo a invia-re la seconda egloga a Giovanni del Virgilio. Tra il 13 e il 14 settembinvia-re del 1321, tornato – secondo la testimonianza del Villani – da un’amba-sceria a Venezia per conto dei Da Polenta, Dante si ammala e muore a Ravenna, dove ancora oggi è sepolto, avendo Firenze invano nei secoli successivi tentato di riavere le spoglie del suo Poeta.
Verona
L’epistola XIII
Ravenna
Le Egloghe
La morte
11. La Commedia