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γλώκαηο γὰξ ἀλδξὸο εὖ κὲλ νἰθνῦληαη πόιεηο, / εὖ δ‟νἶθνο, εἴο η‟αὖ πόιεκνλ ἰζρύεη κέγα: / σοφὸν γὰρ ἓν βούλευμα ηὰο πνιιὰο ρέξαο / ληθ᾵η, ζὺλ ὄριση δ‟ἀκαζία πιεῖζηνλ θαθόλ861.

Nel primo libro delle Cronache, Niceta descrive lo stratagemma grazie al quale le truppe di Giovanni Comneno riuscirono a conquistare la città turca di Sozopoli: fingendo di ritirarsi i soldati Romei si fecero inseguire dall‟esercito nemico per un lungo tratto; poi, voltandosi improvvisamente, attaccarono i Turchi, costringendoli alla fuga e uccidendone la maggior parte. Il racconto della spedizione si conclude con queste parole: θαὶ νὓησο ἡισ πξὸο Ῥσκαίσλ Σσδόπνιηο ἑνὶ βουλεύματι ηνῦ βαζηιέσο σοφῷ.

L‟espressione ἑλὶ βνπιεύκαηη (ηνῦ βαζηιέσο) ζνθῶ sembra rifarsi a un passo dell‟Antiope di Euripide, opera pervenuta solo frammentariamente. Si trova, in effetti, in numerosi testi, a volte sotto il nome del tragico, a volte presentata come γλώκε; tra gli autori che riportano questi versi senza ricordarne la fonte abbiamo Plutarco, che ne ricorda solo la prima parte862, Filone Giudeo (Spec. 4.47,5) e Sesto Empirico (Math. 1.279,3). Giovanni Stobeo863 e Costantino VII864, invece, riportano questi versi sotto il nome di Euripide; anche Eustazio di Tessalonica cita questo passo, ricordando il nome dell‟autore: θαζὰ θαὶ Δ὎ξηπίδεο θεζί: ζνθὸλ ἓλ βνύιεπκα ηὰο πνιιὰο ρέηξαο /ληθᾶ865.

Per quanto riguarda l‟uso del passo euripideo all‟interno di altre opere, possiamo infine ricordare due orazioni di Temistio e un passo di Teodoreto. Il primo, infatti, in due testi rivolti all‟imperatore, utilizza questi versi per esaltarne le qualità: nell‟orazione Τίο ἟ βαζηιηθσηάηε η῵λ ἀξεη῵λ (191.a.-8), rivolta a Teodosio, scrive infatti νὕησ δόμα ἀγαζὴ βαζηιεῖ πνιι῵λ ἀζπίδσλ δπλαησηέξα θαὶ ὏πάγεηαη ἐζεινπζίνπο ηνὺο η῅ο ἀλάγθεο θαηαθξνλνῦληαο, θαὶ ν὎ρ νὕησ ζνθὸλ βνύιεπκα ηὰο πνιιὰο ρεῖξαο ληθᾶ ὡο ε὎ζέβεηα θαὶ θηιαλζξσπία ν὎ κόλνλ ληθᾶ ηὰο πνιιὰο ρεῖξαο, ἀιιὰ θαὶ ζῴδεη. Lo stesso riferimento si trova nel Φαξηζηήξηνο ηῶ α὎ηνθξάηνξη ὏πὲξ η῅ο εἰξήλεο (207.c.8-d.2): θαὶ ηαύηελ πάιαη θαι῵ο πνηνῦληαο ηνὺο πνηεηὰο ἐθ κεηξαθίσλ ἟κ᾵ο δηδάζθεηλ, ζνθὸλ γὰξ ἓλ βνύιεπκα ηὰο πνιιὰο ρέξαο /ληθᾶ.

Teodoreto invece inserisce il passo in una lettera, affermando che ηνζαῦηα δύλαηαη ἟κεξόηεο θεθξακέλε ζπλέζεη: ἀιεζὲο γὰξ ἀηερλ῵ο ἐθεῖλν ηὸ ηξαγηθόλ, ὅηη: ζνθὸλ ἓλ βνύιεπκα πνιιὰο ρεῖξαο /ληθᾶ...866. Dobbiamo quindi considerare la possibilità che effettivamente Niceta conoscesse il passo – anche solo in forma di frammento – e che, in questo caso, lo abbia utilizzato piuttosto per il suo valore di sentenza, sottolineando l‟astuzia e la buona capacità di governo di Giovanni, che per un riferimento intenzionale alla tragedia euripidea; la derivazione dell‟espressione da questo passo è provata, anche a livello lessicale, dalla presenza del numerale, che sottolinea il contrasto tra la singola saggia decisione dell‟imperatore e la sconfitta di numerosi nemici, che permette la presa della città.

861 “Grazie alle sentenze di un uomo, infatti, vivono meglio le città, meglio la casa, e uno solo in guerra è molto forte: infatti una saggia

decisione sconfigge molte mani, la stoltezza nella folla è il peggiore dei mali.”

862 Plutarch. An seni respublica gerenda sit 790.a.5. 863 Stob. Anthol. 4.13.3.4.

864 Costant. VII Porphir. De sententiis 109,19. 865 Eustath. in Hom. Il. I, p.366, 23 Van der Valk. 866 Teodor. Epistulae: Collectio Patmensis 37.19-23.

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Non è possibile escludere che Niceta sapesse che la fonte era Euripide, data la presenza del frammento nelle antologie e in Eustazio, ma proprio perchè l‟opera era già frammentaria, è chiaro che veniva sfruttata più per il valore gnomico – coma vediamo in Plutarco – che per un legame contestuale con il testo originale.

Bacch. 268

ζὺ δ’εὔτρoχον κὲλ γλῶσσαν ὡο θξνλ῵λ ἔρεηο, / ἐλ ηνῖο ιόγνηζη δ‟ν὎θ ἔλεηζί ζνη θξέλεο867.

All‟interno della terza orazione, commemorando Teodoro Troco, Niceta celebra l‟abilità oratoria dell‟amico, affermando che nè Afrodite nè le Moire componevano il loro canto εὔζηξνθα ὡο α὎ηὸο εὔτροχα τὴν γλῶτταν θηλ῵λ θαηεγνήηεπεο ηὸ ἐλσηηδόκελνλ868.

L‟impiego dell‟aggettivo εὔηξνρνο – come rilevato anche da van Dieten – è dovuto all‟assonanza col nome del defunto; si trova, oltre che nelle Baccanti, solo in un passo di Plutarco (Per. 7.1.2-4), che utilizza come Niceta la forma γι῵ηηα: ἐδόθεη Ξεηζηζηξάηῳ ηῶ ηπξάλλῳ ηὸ εἶδνο ἐκθεξὴο εἶλαη, ηήλ ηε θσλὴλ ἟δεῖαλ νὖζαλ α὎ηνῦ θαὶ τὴν γλῶτταν εὔτροχον ἐλ ηῶ δηαιέγεζζαη (...).

È possibile che anche altre fonti riportassero questi versi: si trovano, per esempio, nell‟Antologia di Stobeo, nella sezione Ξεξὶ ἀδνιεζρίαο (Sulla loquacità) 869.

Probabilmente però Niceta, utilizzando questo nesso, non intendeva fare un riferimento alla tragedia: la ripresa dei due termini, in questo caso, sembra più legata al valore encomiastico del passo e alla possibilità di creare un gioco di parole grazie alla somiglianza tra l‟aggettivo e il nome dell‟amico, che al desiderio di far riferimento a un‟opera in particolare. Questo non significa necessariamente che l‟autore non conoscesse il testo euripideo ma, semplicemente, che non intendeva usarlo in rapporto a questo passo.

Bacch. 1004

βξνηείσ η‟ἔρεηλ ἄλυπος βίος870.

Nel quattordicesimo libro delle Cronache Niceta racconta la punizione imposta dall’imperatore Isacco Angelo ad Alessio sebastocratore, accusato di aver collaborato alla sospetta congiura di Andronico: egli venne tonsurato e monacato. Prima che ciò avvenisse, retrocesso da sebastocratore a cesare, cercò di ritirarsi a vita appartata, in modo da evitare la punizione. Niceta racconta che però πιὴλ ν὎δ‟νὕησο ηὸλ ἄλυπον ἐθίρεζε βίοτον871.

L‟espressione ἄιππνλ βίνηνλ – in Bekker βίνλ – , che rimanda all‟euripideo ἄιππνο βίνο, è in realtà frequente nella letteratura greca e viene utilizzata in contesti molto diversi tra loro, dall‟oratoria alla commedia. In

867 “Se tu hai la dialettica di una persona assennata, i tuoi discorsi sono del tutto folli” (Musso).

868 “ Proprio come te, muovendo la lingua in maniera assennata, ammaliavi in ciò che si udiva/l‟ascoltante” 869 Joann. Stob. Anthol. 3.36.9,2.

870“ La vita senza dolore è comportarsi come si addice ai mortali.” (inserisco questa traduzione, e non quella di Musso, perché il testo

utilizzato si allontana da quello riportato, per cui se la utilizzassi verrebbe a mancare la corrispondenza con la traduzione).

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particolare occorre considerare due casi di notevole importanza, Giovanni Crisostomo e Menandro. Giovanni utilizza molto spesso questo nesso all‟interno dei suoi scritti: lo troviamo più volte nell‟ Ad populum Antiochenum, nell‟In ascensionem, nell‟In Genesim, nell‟In Mattheum, nell‟In Acta Apostolorum872. In alcuni

casi viene utilizzato in discorsi che indirizzano i cristiani al conseguimento di una vita priva di dolore: (...) ἵλα δπλεζ῵κελ ἄιππνλ ηὸλ βίνλ ηνῦηνλ δηαγαγεῖλ (In Acta apostolorum 60), θαὶ ηὸλ παξόληα βίνλ ἄιππνλ δηαλύζσκελ (In Ascensionem, 52); nell‟In Mattheum (58.531,28), invece, troviamo un‟affermazione che rimanda immediatamente a un altro autore: ν὎ γὰξ ἔζηηλ, ν὎θ ἔζηη βίνλ ἄιππνλ ν὎δελὸο ε὏ξεῖλ (...). Questo passo ripropone una sentenza tramandata sotto il nome di Menandro all‟interno dei codici bizantini: nella commedia ΞΙΝΘΗΝΛ – pervenuta frammentariamente – Menandro scrive infatti ν὎θ ἔζηηλ ε὏ξεῖλ βίνλ ἄιππνλ ν὎δελόο873.

Tra le sentenze si trova anche un‟altra affermazione simile a questa, in cui si legge un nesso vicino ad ἄιππνλ βίνλ: βηνῦλ ἀιύπσο ζλεηὸλ ὄλη‟ν὎ ῥᾴδηνλ (96). È possibile che Niceta, introducendo all‟interno della propria opera quest‟espressione, si sia rifatto alle sentenze piuttosto che alla tragedia. Vista anche la presenza della stessa espressione nel testo di Giovanni Crisostomo si deve infatti pensare che esse fossero note, quasi come espressioni proverbiali, e potessero essere utilizzate nel linguaggio comune, anche senza riferirsi intenzionalmente a Menandro o, tantomeno, a Euripide.

El. 90-2 e Or. 96

λπθηὸο δὲ η῅ζδε πξὸο ηάθνλ κνιὼλ παηξὸο / δάθξπά η‟ἔδσθα θαὶ κόμης ἀπεξμάκελ / ππξ᾵η η‟ἐπέζθαμ‟αἶκα κειείνπ θόλνπ, / ιαζὼλ ηπξάλλνπο νἳ θξαηνῦζη η῅ζδε γ῅ο874.

Δι.: κόμης ἀπαξρὰο θαὶ χοὰς θέξνπζ‟ἐκάο875.

All‟inizio della terza orazione, dedicata all‟amico Teodoro Troco, Niceta rimanda genericamente al fatto che nell‟antichità si portavano sulla tomba dei propri cari defunti ciocche di capelli e libagioni: ὡο νἱ πάιαη πλόκαμον θαηαγίδεηλ ζνη ῥεκαησλ ἐμνδίσλ ἐπηπινθὰο θαὶ τὰς ἐπὶ ηνῖο τελευτῶσι ζπέλδεηλ χοάς 876.

I riferimenti posti in apparato critico sono numerosi. Rimando, per l‟analisi dei passi, a quanto detto nell‟esame di Eschilo, Choeph. 6-7. Il passo euripideo che più si avvicina lessicalmente a quello di Niceta è quello dell‟Oreste, ma, nell‟insieme, è più probabile che l‟autore abbia inteso soltanto rifarsi genericamente ai miti conosciuti.

872 Joann. Chrysost. Ad populum Antiochenum 49.182.49 e 183.36; In Ascensionem 52.796.68; In Genesim 54.422.13, 428.5 e 486.28;

In Mattheum 58.531.29; In Acta apostolorum 60.366.52.

873 Sententiae e codicibus Byzantinis 570.

874 “Questa notte sono andato sulla tomba di mio padre, ho pianto, ho offerto una ciocca di capelli e ho versato il sangue di una pecora

sgozzata su un altare all'insaputa dei tiranni che comandano su questa terra" (Musso).

875 “”A portare l‟offerta delle chiome e le mie libagioni!” (Musso).

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El. 509

ἤιζνλ γὰξ α὎ηνῦ πξὸο ηάθνλ πάρεργ’ὁδοῦ (...)877.

All‟interno delle proprie opere, in particolare nelle Cronache, Niceta utilizza più volte il nesso πάξεξγνλ ὁδνῦ. Nel libro primo racconta che l‟imperatore prese Nistrion, città della Mesopotomia: ὁδοῦ δὲ πάρεργον θαὶ ηνύηνπ δηαθζαξέληνο (...) ηῶ Σέδεξ πξόζεηζηλ878. Nel terzo libro invece, descrivendo la presa di Tebe da parte di Ruggero, re di Sicilia, afferma che ηῆ Θαδεκείᾳ γῆ παξελέβαιε θαὶ ηὰο ἐλ κέζῳ θσκνπόιεηο ὁδοῦ πάρεργον ιετζάκελνο ηαῖο ἑπηαπύινηο Θήβαηο πξνζέβαιελ(...)879. Nel quarto libro racconta che Manuele, volendo sottomettere il capo dei Serbi, congedò l‟esercito δηαζξνήζαο ηνῦηνλ ὁδοῦ πάρεργον θαὶ πείζαο α὎ηὸλ κόλνλ εἰδέλαη βαζηιέα θαὶ δεδηέλαη880. Nel sesto libro l‟autore parla del suggerimento che Almerico, re di Gerusalemme, diede ad Andronico Contostefano, invitandolo a impadronirsi, πάρεργον ὁδοῦ, dei villaggi di Tenesion e Tunion. Nel libro tredicesimo parlando della scontentezza del cesare Corrado di fronte agli ordini dell‟imperatore afferma invece che egli promise di partecipare alla spedizione militare con il sovrano, essendo un crociato e πάρεργον ὁδοῦ ηὴλ κεηὰ η῅ο ἀδειθ῅ο ηνῦ βαζηιέσο ἐπηηειέζαο ζπλάθεηαλ881. Infine, nel libro quindicesimo, in cui si parla del regno di Alessio Angelo, Niceta scrive che l‟imperatore si diresse contro il Prosaco, dove ηηλὰ κὲλ ἐξύκαηα πάρεργον ὁδοῦ θαηεζηξάθεζαλ ζεκσλίαη ηε θαξπ῵λ θαὶ ιήτα ππξνθόξα θαηεζαιώζεζαλ θαὶ παξὰ Ξεξζ῵λ ἑάισζαλ Βιάρνη δνξύθηεηνη (...)882.

Anche nell‟undicesima orazione, celebrando una vittoria dell‟imperatore, Niceta ricorda le grida e gli strepiti di “cani e uccelli cacciatori” ἅ ζνη πάρεργον ὁδοῦ πξὸο ζ῅ξαο ζπλήξαλην κηθξνῦ θαὶ ἀόξλνπ πόιεσο883. Da quanto scritto risulta evidente che questa espressione viene utilizzata da Niceta in occasioni diverse, spesso in contesto militare – quindi slegato da quello della tragedia – e, in un caso, col valore quasi avverbiale che indica qualcosa che si fa “strada facendo”, nel senso figurato che anche noi diamo a queste parole. L‟origine del nesso è certamente Euripide, ma credo di poter affermare con sicurezza che Niceta non intendesse rifarsi alla tragedia inserendo queste parole nelle sue opere. La “citazione” euripidea è abbastanza diffusa nei testi degli autori greci, pagani e cristiani, tanto da far pensare piuttosto a una formula di uso corrente, ampiamente utilizzata, del tutto avulsa dal contesto originario. Tra gli autori che ne fanno uso si possono ricordare Plutarco884, Luciano885, Elio Aristide886, Filostrato887 e, avvicinandoci al nostro autore, Procopio888 e Libanio889, per arrivare ad Anna Comnena890 ed Eustazio891. Anche nei testi dei padri

877 “Sono andato sulla sua tomba facendo una deviazione.” (Musso) – “cammin facendo” (Fabbri). 878 “Strada facendo, devastata questa, arriva al Sezer”.

879 “Invase la terra di Cadmo e, saccheggiate le cittadine che trovava in mezzo, si gettò su Tebe dalle Sette Porte”. 880 “Avendolo intimorito strada facendo e avendolo persuaso a ritenere che lui solo fosse imperatore e a temerlo”. 881 “... Strada facendo ritenendo l‟unione con la sorella del re una cosa da poco (…)”.

882 “Alcune fortificazioni furono abbattute strada facendo, e mucchi di frutti e campi portatori di grano furono distrutti e tra i Persiani

furono presi i Valacchi portatori di lancia.”

883 Che si unirono a te per il saccheggio di una città piccola ed elevata (priva di uccelli ?). 884 Plutarch. Thes. 9.2.1.; Arat. 47.2.2.

885 Luc. Nigr. 1,8; Icar 11.26; Pseudol. 12.6; Jupp. Tr. 21.9. 886 Ael. Arist. ὘πὲξ η῵λ ηεηηάξσλ 191.4.

887 Philostr. Soph. Im. 868.23. 888 Procop. Bell. 8.9.7,2; Aed. 3.2.5,1. 889 Liban. Or. 59.74,3.

890 Anna. Comn. Alex. 6.5.1,1 e 14.8.9,4. 891 Eustath. in Hom. Il. 2, p. 333,1 Van der Valk.

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incontriamo la stessa espressione: la utilizzano Gregorio di Nissa892, Gregorio di Nazianzo893, Giovanni Crisostomo894 e, sempre tra gli autori cristiani, Eusebio895.

El. 771 e 1177

Ζι.: Ὦ ζενί, Δίκη τε πανθ’ὁρῶσ’, ἤιζέο πνηε.896 Νξ.: ἰὼ Γ᾵ θαὶ Ζεῦ πανδερκέτα / βξνη῵λ (…)897.

Nel quinto libro delle Cronache Niceta si chiede se la Giustizia lasci impuniti i diffamatori, (νὖζα) ὀξυδερκής ηε θαὶ πανδερκής.

In apparato critico incontriamo due rimandi: il primo, al verso 771 dell‟Elettra, in cui Euripide parla della Giustizia πάλζ‟ὡξ῵ζα; il secondo, a un passo dell‟Antologia Palatina: ν὎δὲ Γίθελ ἔιαζελ παλδεξθέα θνίληνο ἀλὴξ / ἗ιιάδνο ἀκώσλ ἄγακνλ ζηάρπλ (...)898.

I due attributi che Niceta attribuisce alla giustizia sono piuttosto insoliti: il primo non si trova mai riferito a Γίθε, mentre il secondo – oltre che all‟interno dell‟epigramma – si trova in Gregorio di Nazianzo, ma inserito in modo da non essere direttamente legato a questo termine: δίθεο ὄκκα παλδεξθέζηαηνλ.

Nonostante quanto detto a proposito del passo di Sofocle El. 479., probabile fonte di altri due attributi della giustizia usati dall‟autore – che farebbe supporre che Niceta volesse mantenere lo stile tragico introdotto nel passo rifacendosi, questa volta, al passo euripideo – è difficile pensare che, in questo caso, l‟autore intendesse davvero rifarsi all‟Elettra: il contesto non permette di instaurare un legame fra i due passi – in un caso si tratta di assassinio, nell‟altro della reclusione di Alessio in monastero – e se, nel caso di Sofocle, la vicinanza era evidente, non si può dire lo stesso per Euripide, che nel primo caso non ha affinità lessicale con Niceta, mentre nel secondo da me evidenziato utilizza quest‟aggettivo in riferimento a Zeus.

Considerando che l‟unico testo in cui si trova l‟aggettivo direttamente riferito a Γίθε è proprio l‟epigramma, è possibile che Niceta lo conoscesse e ricordasse quindi quest‟uso del termine. Non è possibile però chiarire se abbia operato o meno una citazione intenzionale.

Hec. 29

θεῖκαη δ‟ἐπ‟ἀθηαῖο, ἄιινη‟ἐλ πόληνπ ζάιση, / πνιινῖο διαύλοις κυμάτων θνξνύκελνο, / ἄθιαπηνο ἄηαθνο899. Nel sesto libro delle Cronache, Niceta racconta che, spaventati dall‟inattesa vittoria dei Turchi, i Romei, ingannando Contostefano, partirono sulle navi per ritornare in patria. Durante la traversata, però, molte

892 Greg. Nyss. Encomium in S. Steph. 16,11; De vita Greg. Thaumat. 46.940,34. 893 Greg. Naz. Epist. 70.2,4.

894 Joann. Chrysost. In Joannem 59.177,40; In epist. Ad Rom. 60.657,52. 895 Euseb. De martyr. Palaest. 7,8.

896 “Oh Dei, oh Dike, che tutto vedi, sei giunta, finalmente!” (Musso) 897 “O Terra, o Zeus osservatore dei mortali(…)” (Musso)

898 Anth. Pal. IX, 362,24: “Non si sottrasse all‟occhio di Dike quel bieco omicida / che della Grecia falciava le vergini spighe (...).” (F. M.

Pontani)

899 “Mi trovo sulla spiaggia; a volte tra le onde del mare, sballottato avanti e indietro dalla massa dei flutti, senza onore di pianti e

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affondarono, altre ritardarono l‟arrivo a Bisanzio e, una volta giunte, sceso l‟equipaggio ὡο Φαξώλεηα πνξζκεῖα τοῖς τῶν κυμάτων διαύλοις ἀλεξκάηηζηνη ἀθείζεζαλ θέξεζζαη (...)900. Il nesso θπκάησλ δηαύινηο è evidentemente tratto dall‟Ecuba di Euripide, perchè non viene utilizzato in nessun altro passo della letteratura greca; solo Eustazio lo inserisce all‟interno dei Commentari , in cui si legge, tra l‟altro, ὡο ηὸ “δηαύινηο θπκάησλ θνξνύκελνο”901, espressione che, data la presenza del participio, dimostra che quest‟espressione era nota al commentatore attraverso il testo euripideo.

Non è facile, nemmeno in questo caso, stabilire per quale motivo Niceta abbia inserito qui questo riferimento alla tragedia; nell‟Ecuba il passo fa parte del monologo iniziale di Polidoro, che parla di se stesso, ucciso e abbandonato alle onde del mare: non sembra quindi avere analogie con il racconto storico. Probabilmente Niceta intendeva accrescere il pathos della narrazione, sottolineando la drammaticità dell‟abbandono delle navi anche attraverso l‟uso dello sile tragico.

Hec. 200

νἵαλ νἵαλ αὖ ζνη ιώβαλ / ἐχθίσταν ἀρρήταν η‟ / ὦξζέλ ηηο δαίκσλ902.

Nel primo libro delle Cronache Niceta afferma che i soldati dell‟imperatore, costretti a radunarsi presso la città di Ochyrai dopo alcuni anni di permanenza in Siria, erano violentemente adirati nei confronti del sovrano: ηὸ δὲ πρὸς ἄρρητον ἔχθος ἔηη κ᾵ιινλ ἐθκ῅λαλ, ὅηη πνιινὶ η῵λ εἰο Σπξίαλ ζπλαλαβάλησλ ἐθείλῳ κήπσ ηὰ νἴθνη βιέςαληεο, ἀιιὰ λόζῳ ζώκαηνο θαὶ ζπάλεη η῵λ ἀλαγθαίσλ θαὶ θζνξᾶ η῵λ ὀρεκάησλ ἐλ ηῆ ὁδνηπνξίᾳ ρξνλίζαληεο, ἞λαγθάδνλην κὴ η῵λ παηξίδσλ βαίλεηλ ε὎ζύ (...)903.

Il nesso ἄξξεηνλ ἔρζνο (odio indicibile), che troviamo nella narrazione storica, sembra avvicinarsi all‟espressione ἐρζίζηαλ ἀξξήηαλ della tragedia. Effettivamente questo nesso non si trova in altre opere della letteratura greca. La struttura lessicale, però, come anche il contesto, non permette di evidenziare alcun legame tra i due passi: nei versi di Euripide, infatti, i due termini sono aggettivi riferiti al sostantivo ιώβε (sventura), mentre nel secondo si ha l‟impiego del termine ἔρζνο (odio). Sul piano del contenuto, poi, nel primo caso si tratta del lamento di Polissena, che piange la disgrazia subita dalla madre con la perdita della figlia, mentre nel testo di Niceta si parla dell‟odio dei soldati nei confronti dell‟imperatore, dovuto alla lontananza da casa.

Ci sono autori più vicini a Niceta che utilizzano il termine κίζνο al posto di ἔρζνο: Appiano scrive, ad esempio, θαὶ ὁ κὲλ ηάξαρνο ἐπέπαπην, κῖζνο δὲ ἄξξεηνλ ἐμ ἀξξήηνπ ε὎λνίαο ηνῦ δήκνπ πξὸο ηὁλ Ἀληώληνλ ἐγήγεξην (Bellum Civile 3,1) e, tra i Cristiani, Giovanni Crisostomo904, che lo utilizza però in un contesto molto diverso dalla narrazione storica. Non è possibile stabilire la dipendenza di Niceta da qualche altro autore: probabilmente lo storico inserisce il termine ἔρζνο, più raro, per elevare lo stile del discorso;

900 “Come barche di Caronte fuorno abbandonate senza zavorra al flusso e riflusso delle onde (...)." 901 Eustath. in Hom. Il. 4, p. 57,8 Van der Valk.

902 “Quale, quale altro oltraggio odioso e indicibile un dio ti fa?” (Musso)

903 “Ma ciò che rendeva i soldati ancora più furiosi, fino a un odio indicibile, era che molti di coloro che erano stati in Siria con lui, senza

aver rivisto le famiglie per essersi attardati durante il viaggio a causa di una malattia, per scarsità di generi necessari o per la perdita dei mezzi di trasporto venivano costretti (...) a non andare subito a casa (...).”

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l‟espressione qui impiegata è però certamente più vicina a quella di Appiano che a quanto si legge nell‟Ecuba, sia a livello lessicale (la corrispondenza tra κῖζνο ed ἔρζνο era nota ai tempi di Niceta) sia per quanto riguarda il contesto, dal momento che in entrambi i casi si tratta di opere storiche.

Hec. 518

Τα: διπλᾶ κε ρξήηδεηο δάκρυα κερδᾶναι, γύλαη / ζ῅ο παηδὸο νἴθηση (...)905

Nell‟orazione funebre per il genero Belissariota Niceta scrive: εἰ δ‟ἐπὶ ηῶ ζῶ ζαλάηῳ θαὶ ηὴλ ηνῦ θαζηγλήηνπ ζνη δεκίαλ ἀλαπεκπάζαηκη ηαῖο θξεζί, θηιαδέιθσλ θξάηηζηε θαὶ θηινθίισλ ηὸ ἀθξνζίληνλ, διπλᾶ δήπνπζελ δάκρυα κερδανῶ906.

Il verso della tragedia doveva essere noto all‟autore per tradizione diretta: non si trova, infatti, nelle antologie. L‟unico impiego di questo verso che si trova nella letteratura greca, oltre a quello di Niceta, è un passo del proemio dell‟Alexiade di Anna Comnena, in cui l‟autrice, dopo aver dichiarato le proprie intenzioni, afferma: ἀπνςήζαζα νὖλ ηὸ δάθξπνλ η῵λ ὀκκάησλ θαὶ ἐκαπηὴλ ἀλαιεμακέλε ηνῦ πάζνπο η῵λ ἑμ῅ο ἕμνκαη δηπι᾵ θαηὰ ηὴλ ηξαγῳδίαλ θεξδαίλνπζα δάθξπα, νἷνλ ἐπὶ ηῆ ζπκθνξᾶ ζπκθνξ᾵ο κεκλεκέλε907. Nonostante gli autori bizantini amassero celare le proprie fonti, affermando talvolta di citare un autore quando ne citavano un altro, o di rifarsi a un genere mentre ne imitavano un altro, in questo caso, proprio perchè questi versi mancano nella tradizione letteraria, la testimonianza di Anna è una conferma del fatto che, tra XI e XII secolo, la fonte di questo passo doveva essere nota.

Sul piano del contenuto il legame con la tragedia consiste probabilmente nel compianto di un parente stretto da parte di due persone: nell‟Ecuba il messaggero Taltibio riferisce a Ecuba la morte della figlia Polissena e sembra che il dolore della madre si unisca, attraverso la descrizione del sacrificio, a quello del messaggero, che ne è stato testimone diretto e che per questo essa “ottenga doppie lacrime”; nel caso di Anna Comnena le vicende da lei narrate provocano il suo pianto e, insieme, quello del popolo. Niceta esprime il proprio dolore di fronte alla morte di Belissariota e, contemporaneamente, davanti alla desolazione del fratello del defunto, per cui il suo pianto si fa doppio. L‟impiego della formula tragica serve ad innalzare lo stile, rendendo ancora più viva la rappresentazione del dolore.

905 “Vuoi che io ci guadagni altre lacrime, donna, per pietà di tua figlia." (Musso)

906 “Se dovessi riflettere in cuore oltre che sulla tua morte sulla perdita subita da tuo cognato, o nobilissimo fra tutti coloro che amano i

fratelli, primizia tra coloro che amano gli amici, guadagnerò allora doppie lacrime.”

907 “Essendomi asciugata dunque il pianto dagli occhi ed essendo tornata in me avrò un guadagno di doppio dolore per la pena di quelli

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Hec. 607/8

(ἔλ ηνη κπξίση ζηξαηεύκαηη) / ἀκόλαστος ὄχλος ναυτική τ’ἀναρχία / κρείσσων πυρός, θαθὸο δ‟ὁ κή ηη δξ῵λ θαθόλ908.

All‟interno delle opere di Niceta Coniata si trovano tre passi – due nelle Cronache e uno nelle Orazioni – nei quali è stato visto un riferimento a questo verso dell‟Ecuba euripidea. Nel sesto libro, narrando l‟impresa dell‟esercito romeo guidato da Andronico Contostefano, Niceta scrive che νἱ δ‟νὖλ ζηξαηη῵ηαη κεδ‟ὅισο ὁπνῖα ηὰ η῅ο εἰξήλεο θαηεμεηάζαληεο, ἀιιὰ θαὶ πξὸο κόλελ ηὴλ ηαύηεο ἀθνὴλ λόζηνπ κλεζάκελνη, τὴν ναυτικὴν ἀπαιδευσίαν πξάγκαζηλ α὎ηνῖο θαζππέδεημαλ ὡο εἴε ηηο δραστικωτέρα πυρός, θαὶ ἀηαμίαο ε὎ζὺο ἐλέπιεζαλ ηὰ ζηξαηόπεδα909. All‟inizio del nono libro, criticando l‟atteggiamento della folla di fronte ad Andronico e alla porfirogenita Maria, afferma che τὸ πλήθος non agisce mai razionalmente o con prudenza, ma si dispone subito alla rivolta e πυρός ἐστι δραστικώτερον910. Nella quindicesima orazione la stessa espressione viene impiegata dall‟autore per definire la forza della malattia che ha colpito Belissariota: θαὶ πυρὸς κὲλ η῵λ ὄλησλ ν὎δὲλ δραστικώτερον ὡκνιόγεηαη (...)911.

Il rapporto tra i passi delle Cronache e i versi tragici è chiaro sia dal punto di vista lessicale che sotto l‟aspetto contestuale: Niceta doveva conoscerli, forse per tradizione diretta – non vengono riportati, infatti, dalle antologie – e li riutilizza, modificandoli, per rendere ancora più forte la critica mossa all‟esercito romeo e alla folla di Costantinopoli. L‟impiego distinto dei due elementi presenti nel passo euripideo – il disordine della folla e l‟anarchia che regna tra i marinai – che Niceta confronta separatamente col fuoco, è un altro elemento a favore della conoscenza diretta del passo; lo stesso si può dire per la rielaborazione lessicale dei versi: il testo dello storico, fatta eccezione per il termine ππξόο, si allontana da quello della tragedia, presentando un lessico certamente più comune ma attento a riprodurre la struttura originaria; la variatio

lessicale applicata dall‟autore permette di introdurre la citazione, alterandone in parte il significato, all‟interno della prosa storica: quando Niceta parla dell‟ignoranza dell‟arte nautica il significato si allontana notevolmente da quello del passo dell‟Ecuba, ma il testo appare comunque modellato su di esso.

Per quanto riguarda le orazioni, invece, sembra che Niceta abbia utilizzato l‟espressione quasi con funzione proverbiale, perchè nè il contesto nè il lessico, in questo caso, rimandano a Euripide. Non esiste, però, all‟interno della letteratura greca pervenuta, un proverbio che esprima questo contenuto; dovremmo quindi supporre che Niceta abbia ripreso qui la stessa espressione euripidea, adattandola al contesto.

908 “In un esercito numeroso la gente è senza freno; l‟anarchia dei marinai è più forte del fuoco e chi non fa del male passa per cattivo.”

(Musso)

909 “I soldati non esaminarono affatto i termini della pace; al solo ascolto di questa parola pensarono al ritorno e fecero vedere

concretamente come l‟ignoranza dell‟arte nautica sia più dannosa del fuoco: subito riempirono di disordine gli accampamenti.”

910 “... più dannoso del fuoco.”

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Hec. 836/7

Δἴ κνη γέλνηην θζόγγνο ἐλ βξαρίνηζηλ / θαὶ ρεξζὶ θαὶ θόκαηζη θαὶ πνδ῵λ βάζεη912.

Nella quindicesima orazione Niceta inserisce una citazione diretta, senza riportare il nome dell‟autore, ma