• Non ci sono risultati.

760 “Si macchiava ogni momento di assassinii ingiustificati, disfaceva corpi umani infliggendo pene e torture, come fosse uno strumento

di disgrazie che conducevano a morte.”

761 “Figlio, vorrei che di tuo padre fossi più fortunato, ma gli fossi uguale in tutto il resto: non saresti un vile.” (F.M.Pontani) 762 “(...) e siate, se non più fortunati del padre, almeno più longevi.”

763 Joann. Stob. Antholog. 4.24d.54.2 f. 764 Suid., lexicon σ, 140 s.v. <ὦ παῖ>.

138

Non è possibile, però, definire se Niceta conoscesse il passo attraverso la tradizione diretta o solo attraverso quella indiretta – anche se la coincidenza contestuale permette di supporre la conoscenza della tragedia – senza esaminare prima anche gli altri due rimandi alle parole di Aiace al figlio.

Ai. 554-5; 558-9

1. ἐλ ηῶ θξνλεῖλ γὰξ κεδὲλ ἣδηζηνο βίνο, / ἕσο τὸ χαίρειν καὶ τὸ λυπεῖσθαι μάθῃς765. 2. Τέσο δὲ κούφοις πνεύμασιν βόσκου, λέαλ / ςπρὴλ ἀηάιισλ, κεηξὶ ηῆδε ραξκνλήλ766.

Nel nono libro delle Cronache Niceta descrive il comportamento dell‟erede di Manuele Comneno, Alessio il quale, dopo la morte del padre, anzichè interessarsi degli affari del regno, essendo ancora bambino, si dedica alla caccia e ad altri piaceri: α὎ηὸο κὲλ γὰξ ὁ θξαη῵λ δηὰ ηὸ η῅ο ἟ιηθίαο ἀηειὲο θαὶ ηὸ ηνῦ ηὰ ζπλνίζνληα θξνλεῖλ ἐλδεὲο ν὎δελὸο ἤλ η῵λ θαζεθόλησλ ἐπηζηξεθόκελνο, θνύθνηο δὲ τρεφόμενος πνεύμασι θαὶ τὸ χαίρειν καὶ τὸ λυπεῖσθαι μήπω μεμαθηκὼς767.

Anche in questo caso il significato originario viene capovolto: nella tragedia Aiace invita il figlio a gioire della vita fino a quando sarà possibile, vivendo con leggerezza; Niceta rimprovera ad Alessio la sua condotta di vita, pur giustificandola in ragione della sua giovane età. Gli elementi che accomunano i versi di Sofocle e il passo di Niceta sono evidenti, sia sul piano lessicale che su quello del contenuto.

Anche nella sesta orazione, composta per la morte del proprio figlioletto, Niceta rielabora gli stessi versi: ἤλ κὲλ ὁ παῖο κούφοις ἔτι τρεφόμενος πνεύμασιν ἟ιηθίαλ ἄγσλ, ἡ μήπω τὸ χαίρειν καὶ τὸ λυπεῖσθαι δίδσζηλ768.

In questo caso, però, l‟elemento contenutistico che accomuna i due autori è la giovane età del bambino di cui si sta parlando: non è il fanciullo a rimanere orfano, ma il padre a essere privato del proprio figlio.

La prima coppia di versi viene riportata – con il verbo καλζάλσ, che anche Niceta utilizza – solo da Stobeo769 e dal lessico Suda770, in entrambi i casi con il nome dell‟autore. In nessuno dei due, però, viene collegato al secondo passo. Questo permette di credere che Niceta conoscesse l‟intero passo attraverso la lettura diretta dell‟opera.

L‟altro verso riportato viene sfruttato da Niceta anche in altre occasioni: nella terza orazione, poco prima del passo analizzato in precedenza, l‟autore si rivolge ai figli dell‟amico Troco dicendo: ἔηη κούφων ἐδεῖσθε πλεπκάησλ εἰο ἀλαδξνκὴλ ζώκαηνο771; ancora nel libro nono l‟autore afferma che Andronico, prima di impadronirsi definitivamente del potere, si comportava come se lo stato fosse già nelle sue mani, lasciando

765 “Ché la fase più bella della vita è qui, nel non capire, fino a quando imparerai cos‟è gioia e dolore.” (F.M. Pontani)

766 “Ma fino a quel momenti, d‟aliti lievi nutriti, nel fiore d‟un anima di bimbo, e tutto questo sia per tua madre, qui presente, gioia. (F.M.

Pontani)

767 “Il sovrano, infatti, di età immatura e di senno inadeguato alle necessità non prestava attenzione a nessuno dei suoi doveri:

nutrendosi di lievi aliti, senza avere ancora esatta conoscenza di gioie e dolori(...)."

768 “Il bambino ancora si nutriva di aliti di vento, conducendo l'estrema giovinezza, in cui ancora non si danno dolore e gioia.” 769 Joann. Stob. Antholog. 4.24d.54.1f.

770 Suid., lexicon θ, s.v. <θάξηα> e lexicon δ s.v. <δεινῦλ>. 771 “Ancora vi nutrite di soffi di vento per il sostentamento del corpo.”

139

ηῶ κὲλ βαζηιεῖ Ἀιεμίῳ θπλεγεζίνηο ἐθηεὶο πξνζαλέρεηλ θαὶ κούφοις τῷ τέως τρέφεσθαι πνεύμασι κεηὰ η῵λ θπιάθσλ (...)772, ponendo ancora una volta l‟accento sulla giovane età dell‟erede di Manuele.

L‟uso che Niceta fa di questi versi, accostati tra loro anche in modo diverso da come li riportano Stobeo e la Suda, rielaborati e adattati al contesto, ma molto vicini, anche a livello lessicale, al testo di Sofocle, fa pensare che Niceta conoscesse l‟opera attraverso lettura diretta e la sfruttasse in modo diverso all‟interno delle proprie opere: nelle orazioni, per sottolineare la forza del proprio dolore di fronte alla morte; nella narrazione storica per stigmatizzare la debolezza di Alessio, inapace di gestire l‟impero ereditato in giovane età, ed esprimere quindi il proprio rammarico per la sorte toccata al figlio di Manuele.

Ai.651

Θἀγὼ γάξ, ὃο ηὰ δείλ‟ἐθαξηέξνπλ ηόηε, / βαθῆ ζίδεξνο ὥο, ἐζειύλζελ ζηόκα / πξὸο η῅ζδε η῅ο γπλαηθόο773. All‟interno del primo libro delle Cronache, Niceta narra che l‟imperatore Giovanni, dopo aver sconfitto i Turchi, tornò presto a combattere, per difendere le terre dalle incursioni dei barbari e per mantenere in allenamento i propri soldati (η῵λ ηαγκάησλ) ἀθηζηακέλσλ ηνῦ νἰθνπξεῖλ θαὶ ὡο βαθῆ ζίδεξνο ηνῖο ἐθ η῅ο θαπζηεξ᾵ο κάρεο ἱδξ῵ζη παγηνπκέλσλ774.

Considerando le occorrenze del rimando a Sofocle in altri autori, è possibile affermare che Niceta conoscesse l‟origine dell‟espressione utilizzata, ma la inserisse quasi con valore proverbiale; essa si trova, infatti, in Plutarco775, che la riporta cinque volte, tre volte in Basilio di Cesarea776. Inoltre, si incontra negli Scolii all‟Aiace777 e nel lessico Suda778, che, con riferimento al verso della tragedia, scrive: <἖ζειύλζελ:> ἐθειήζελ: βαθῆ ζίδεξνο ὡο ἐζειύλζελ ζηόκα. ἐλ ηῆ βαθῆ ν὎θ ἀλίεηαη ὁ ζίδεξνο, ἀιιὰ ζθιεξύλεηαη: νὕησο νὖλ δηαζηαιηένλ, θἀγὼ γάξ, θεζίλ, ὃο ἞πείινπλ θαὶ ἔδενλ θαὶ ἐβόσλ ὡο ἐλ βαθῆ ζίδεξνο, λῦλ ἐζειύλζελ ὏πὸ η῵λ ιόγσλ η῅ο γπλαηθόο: ἠ ὅηη δηζζ῵ο βάπηεηαη ὁ ζίδεξνο: εἰ κὲλ γὰξ καιζαθὸλ βνύινληαη α὎ηὸλ εἶλαη, ἐιαίῳ βάπηνπζηλ, εἰ δὲ ζθιεξόλ, ὕδαηη.

Se a livello lessicale la dipendenza dal passo in questione è evidente, il contesto non richiama l‟opera sofoclea, se non perchè Aiace è stato temprato dalle azioni di guerra come i soldati bizantini. L‟analogia però è troppo lontana per indicare una ripresa intenzionale. È probabile, comunque, che Niceta conoscesse la tragedia e, ricordandola, volesse elevare lo stile del discorso attraverso un‟espressione elevata.

772 “ ... all‟imperatore Alessio di attendere alle cacce e di nutrirsi intanto di lievi aliti insieme ai custodi...”

773 “E io, così caparbio prima, mi sono ammorbidito, adesso, nelle parole, come ferro in acqua, grazie alla donna qui presente." (F. M.

Pontani) – la traduzione non rispecchia però il senso del testo: il ferro, infatti, viene temprato dall‟acqua, e non reso più duttile.

774 “(delle truppe), lontane dagli alloggiamenti e temprate dal sudore della battaglia ardente come il ferro è temprato dall‟acqua.” 775 Plutarch.,De defectu oraculorum 433.A.4;De primo frigido 954.C.5; De esu carnium ii 997.A.1; Pyrrh. 24.5.6; Alex. 32.10.1. 776 Basil. Magn., De jejunio 31.173.31;Homilia adversus eos qui irascuntur 31.365.24; Sermones de moribus a Symeone Metaphrasta

collecti 32.1252.19.

777 Scholia in Soph. Ajacem 651, ed.Christodoulos. 778 Suid., Lexicon ε s.v. <἖ζειύλζελ>.

140

Ai. 664-5

ἀιι‟ἔζη‟ἀιεζὴο ἟ βξνη῵λ παξνηκία·/ <ἐρζξ῵λ ἄδωρα δῶρα> θν὎θ‟ὀλήζηκα779.

Nell‟orazione quindicesima Niceta afferma che la malattia che ha ucciso il genero Belissariota era un fuoco pari a quelli di cui parla la mitologia classica: ηνηνῦηνλ νἶκαη θἀθεῖλν ηὸ πῦξ, ὏θ‟νὗπεξ ὁ ππξαίρκεο ἣξσο ὁ ἀιεμίθαθνο θαζαιέζζαη ππξ᾵ο ἐμεξέζηζην· θαὶ ηὸ Ξξνκεζέσο δὲ ν὎θ ἔιαηηνλ ἄλ ηηο ὀΐζαηην, ὅπεξ λάξζεθη ἐλζάςαο δῶρον ἄδωρον, θαθνεξγόλ, ν὎θ ὀλήζηκνλ ἀλζξώπνηο παξέζρεην780.

Il confronto mitico è chiaro ed è funzionale all‟amplificazione retorica necessaria all‟orazione. Il mondo reale è spesso confrontato con il mito e risulta, quasi sempre, superiore a esso, sia nel bene che nel male. In questo caso Niceta sfrutta un riferimento alle vicende di Eracle e un passo di Esiodo su Prometeo, sui quali si impernia il confronto con la vicenda reale. Oltre a questi, però, compare una espressione onomastica molto simile a quella utilizzata da Sofocle nell‟Aiace. Senza alcun dubbio la fonte originaria di quest‟espressione è proprio la tragedia; non è detto, però, che Niceta si sia rifatto proprio a questa: se a livello lessicale la vicinanza tra i due testi è evidente – con l‟unica variazione del singolare per il plurale – sul piano contestuale non sembra esserci alcun legame; nell‟Aiace viene riportato un proverbio che fa riferimento ai doni sgraditi che possono arrivare dai nemici. Nel caso di Niceta, invece, anche guardando la struttura del mito narrato, non si tratta di un dono fatto da un nemico: Prometeo agisce di per sè, con intenzioni positive nei confronti degli uomini, anche se le conseguenze del suo dono non sono quelle desiderate.

Come Sofocle stesso dice nella tragedia, quest‟espressione era un proverbio e come tale viene tramandata nei secoli successivi da numerosi autori, che riportano sia il nome dell‟autore, sia il verso per intero: la troviamo in Clemente Alessandrino (Strom. 6.2.8), Teofilatto Simocatta (Hist. 4.13;7.15), Stefano il Grammatico (In Rh. 307.27), Eustazio781 e numerose volte nel lessico Suda, che la riporta sia sotto voci differenti782 che in modo proprio783.

Questo verso viene inoltre ricordato in numerose raccolte paremiografiche: si legge nelle Paroemiae di Diogeniano (4.82.a), di Zenobio (4.4), di Gregorio (2.15) – l‟unico che lo riporta senza il nome dell‟autore, segno del fatto che veniva riconosciuto come proverbio senza bisogno di rifarsi alla tragedia – di Macario Crisocefalo (4.87) e, infine, di Michele Apostolio (8.22).

Queste osservazioni portano a pensare che Niceta abbia utilizzato questo passo non per richiamare l‟Aiace, pur conoscendo probabilmente l‟origine dell‟espressione, ma come forma proverbiale.

779 “ Il proverbio è proprio vero: non-doni, i doni dei nemici, e pro‟ non fanno.” (F.M. Pontani)

780 “ tale credo sia stato quel fuoco dal quale si dice sia stato ucciso l‟eroe pieno di fuoco in battaglia, che scacciava i mali; e qualcuno

non riterrebbe inferiore quello di Prometeo, che avendolo nacosto nel nartece, dono sgradito, dannoso e non utile, portò ai mortali.”

781 Eustath. in Hom. Il. 9.378, II 733, 16-17 Van der Valk.

782 Suid.,Lexicon α s.v. <ἄδσξα>; lexicon ε s.v. <<ἐρζξ῵λ ἄδσξα δ῵ξα> θν὎θ‟ὀλήζηκα.>;lexicon κ s.v.<Κνλνλνπρὶ>. 783 Suid., Lexicon α s.v. < ἀιι‟ἔζη‟ἀιεζὴο ἟ βξνη῵λ παξνηκία·/ <ἐρζξ῵λ ἄδσξα δ῵ξα> θν὎θ‟ὀλήζηκα.>

141

Ai. 714

Πάνθ’ὁ μέγας χρόνος μαραίνει /θν὎δὲλ ἀλαύδαηνλ θαηίζαηκ‟ἄλ (...).784

Dopo avere descritto il fallimento della presa di Corfù tentata dai Romei, Niceta ricorda un‟altra sventura, lo sfortunato scontro con i Veneziani, sopravvenuto prima ancora che ὁ πάντα μαραίνων χρόνος785 avesse cancellato il dolore per la precedente disgrazia.

Il nesso utilizzato da Niceta ricorda il verso di Sofocle sopra riportato. In realtà, però, è possibile che Niceta abbia utilizzato qui un‟espressione originariamente derivata dal testo della tragedia, ma ormai entrata nell‟uso comune. La connessione tra ρξόλνο e il verbo καξαίλσ è infatti frequente nella letteratura greca: si trova in numerosi autori, anche ecclesiastici. Un‟espressione molto simile a quella che si legge in Niceta, invece, ricorre solo tre volte: in un passo di Diodoro Siculo a noi pervenuto attraverso Costantino VII Porfirogenito (De virtut. et vitiis, 1.224), dove si legge ὁ δὲ ρξόλνο ὁ πάληα καξαίλσλ, in Dionigi d‟Alicarnasso (Antiq. Rom. 2.3,8) che scrive ὁ πάληα καξαίλσλ ηὰ θαιὰ ρξόλνο e, infine, in Michele Psello (Opuscola 47.60), che lo riprende scrivendo ὁ πάληα ηὰ θαιὰ καξαίλσλ ρξόλνο.

La presenza della stessa espressione usata da Niceta in altri autori porta a pensare che possa averla utilizzata senza riprenderla da Sofocle, ricordando a memoria una formula letta in uno o più testi; anche l‟assenza di legami contestuali con un autore in particolare fa credere che, in questo caso, Niceta abbia inserito un‟espressione nota, di cui poteva eventualmente ricordare l‟origine, ma senza un preciso intento di citazione.

Ai. 811

Χωρῶμεν, ἐγκονῶμεν· ν὎ρ ἕδρας ἀκμὴ / ζῴδεηλ ζέινληαο ἄλδξα γ‟ὃο ζπεύδῃ ζαλεῖλ.786

Nel quinto libro delle Cronache Niceta racconta che Andronico, intimorito dall‟ostilità del‟imperatore Manuele, decide di allontanarsi: ζπλεὶο νὖλ Ἀλδξόληθνο ὡς χωρεῖν ἐθεῖζελ δένλ καὶ ἐγκονεῖν, κεδ‟ἕδρας εἶλαη ηὸ ἀπὸ ηνῦδε ἀκμήν θξίθε ηε ὏θέξπεηαη θαὶ πξὸο ἀπόδξαζηλ ἐλζθεπάδεηαη.787 Più avanti, nel dodicesimo libro, l‟autore utilizza ancora un riferimento allo stesso passo, scrivendo che Pietro e Asen, spingendo i Valacchi alla rivolta contro l‟impero, li esortavano gridando che μὴ εἶναι τὸ ἀπὸ ηνῦδε ἕδρας ἀκμήν788, e che era il momento di prendere le armi contro i Romei, uccidendo tutti coloro che fossero capitati nelle loro mani. In questo caso è necessario pensare che Niceta citasse il passo dell‟Aiace per conoscenza diretta del testo: la vicinanza lessicale, nonostante la rielaborazione dello storico, è evidente e questo passo non risulta tramandato da altre fonti. Solo in Eustazio789 si legge un passo che, pur non riportando l‟intero verso,

784 “ Tempo che va sfiorisce tutto; nulla dirò ch‟io debba tacere (...)” (F.M. Pontani) 785 “Il tempo che tutto logora.”

786 “Andiamo, avanti, diamoci da fare! Non c‟è da stare inerti se vogliamo salvare lui, che si affretta alla morte.” (F.M. Pontani)

787 “Andronico capisce che bisogna far presto ad andarsene via e che ormai non c‟è più tempo per indugi. Percorso da un brivido,

organizza la fuga.”

788 “(...) che ormai non c‟era più tempo per gli indugi.” 789 Eustath. in Hom. Il. 23.205, IV p.711,20 Van der Valk.

142

permette di affermare che la paternità sofoclea del passo doveva esser nota almeno nel suo circolo letterario: Σνθνθι῅ο δὲ ζαθέζηεξνλ θξάδεη ἐλ ηῶ “ν὎ρ ἕδξαο ἀθκή”.

Un altro elemento importante è il capovolgimento di significato operato da Niceta: mentre nella tragedia Tecmessa rivolge queste parole al coro mentre si prepara a salvare la vita di Aiace che intende suicidarsi, nell‟opera storica Andronico si affretta a salvare se stesso dalla minaccia di morte rappresentata da Manuele. La frase che nella tragedia serve a sottolineare l‟interesse nei confronti dell‟eroe e, contemporaneamente, mette in evidenza la “grandezza” di Aiace, che desidera la morte e, addirittura, si affretta verso di essa, in Niceta diventa il mezzo per mettere in evidenza la pusillanimità del protagonista che, informato del destino di morte che lo attende, abbandona la stessa Teodora – a cui deve la salvezza – affrettandosi a fuggire. Anche qui è una donna a venire in soccorso del protagonista, ma mentre Tecmessa, nonostante i propri tentativi, non riuscirà a salvare lo sposo, Andronico si salverà dalla furia di Manuele;l‟espressione tragica viene quindi inserita con una sorta di amara ironia, in una situazione che mostra soprattutto la codardia di Andronico, totalmente opposto all‟eroe tragico. Ancora più forte il capovolgimento nella seconda circostanza, in cui Niceta sottolinea la follia dei rivoltosi e, più in generale, la furia dei barbari: il popolo valacco, esaltato dai due condottieri, si affretta non a salvare la vita di qualcuno, ma a portare la morte tra i Romei. Come nella tragedia, affrettarsi non servirà a nulla, ma la situazione è chiaramente capovolta.

Ai. 815

Ὁ μὲν σφαγεὺς ἕστηκεν ᾗ τομώτατος / γέλνηη‟ἄλ, εἴ ηῳ θαὶ ινγίδεζζαη ζρνιή, / δ῵ξνλ κὲλ ἀλδξὸο Ἕθηνξνο μέλσλ ἐκνὶ / κάιηζηα κηζεζέληνο, ἔρζηζηνπ ζ‟ὁξ᾵λ790·

Nel nono libro Niceta descrive la prigionia dell‟imperatrice Maria, madre di Alessio, catturata da Andronico: la donna, rinchiusa nella prigione allestita per lei, tra le sofferenze della fame e della sete, temeva per la propria vita e τὸν σφαγέα δηελεθ῵ο ἐθαληάδεην ἐθ δεμη῵λ ἑστῶτα ηνκώηαηνλ791.

Anche in questo caso è decisamente probabile che Niceta citasse intenzionalmente il passo sofocleo: nessun altro autore, infatti, riporta questi versi, anche se nel lessico di Polluce792 troviamo il termine ζθαγεύο col significato di “spada”, attribuito a Sofocle; non viene però riportato il verso intero.

La rielaborazione operata da Niceta rimane molto vicino al testo originale e, sul piano del contenuto, anche in questo caso possiamo considerare il capovolgimento della situazione: nella tragedia Aiace ha deciso di uccidersi e parla della spada sulla quale intende gettarsi per togliersi la vita; qui, invece, l‟imperatrice prigioniera teme la morte per mano di Andronico.

È interessante osservare anche la probabile contaminazione tra citazione classica e richiamo neotestamentario: l‟espressione ἐθ δεμη῵λ ἑζη῵ηα, oltre a richiamare il verbo ἕζηεθελ che troviamo in Sofocle, ricorda un passo degli Atti (7.55) in cui è riferita al Signore e l‟inizio del Vangelo di Luca, in cui un Angelo appare a Zaccaria ἑζη῵ο ἐθ δεμη῵λ. Anche rispetto a queste formule espressive abbiamo un forte

790 “La spada, l‟omicida mia, sta ritta perchè tagli di più – se tempo è questo per calcoli del genere. Regalo d‟Ettore, detestato più di

tutti gli ospiti, il più nemico agli occhi miei.” (F.M. Pontani)

791 “Immaginava continuamente la spada omicida, taglientissima, ritta alla sua destra.” 792 Pollux, Onomast. 6.193,5.

143

capovolgimento: ad apparire alla mente dell‟imperatrice non è un richiamo di salvezza, ma un‟immagine di morte.

Niceta può quindi aver utilizzato intenzionalmente il richiamo alla tragedia, contaminandolo con i testi sacri, per sottolineare la drammaticità della situazione dell‟imperatrice, abbandonata nelle mani del nemico.

Ai. 938

Χωρεῖ πρὸς ἧπαρ, νἶδα, γελλαία δύη793.

Nel libro tredicesimo Niceta descrive la rivolta di Teodoro Mancafa di Filadelfia, narrando che l‟imperatore decise di intervenire quando i ribelli cominciarono a prendere campo e il riso che avevano inizialmente suscitato εἰο πιεγὴλ γελλαίαλ κεζίζηαην πρὸς ἧπαρ χωροῦσαν ηνῦ βαζηιέσο794.

Considerando che l‟espressione πξὸο ἥπαξ si trova, anche senza il verbo ρσξέσ, solo nei tragici – un‟occorrenza in Eschilo, una decina in Euripide – ν negli autori di testi medici – in questi casi con significato concreto e non astratto – è chiaro che Niceta voleva utilizzare un‟espressione tipica della tragedia. La presenza del verbo rende evidente la dipendenza di Niceta da Sofocle, perchè la connessione tra il verbo ρσξέσ e il nesso πξὸο ἥπαξ non si trova in nessun altro autore.

Mi sembra possibile affermare, però, che in questo caso lo storico intendesse solo innalzare il livello del discorso, usando una forma del linguaggio tragico, anche se slegata dal contesto, molto diverso tra la tragedia e le Cronache.

Ai. 1122

Μέγ‟ἄλ ηη κομπάσειας, ἀζπίδ‟εἰ ιάβνηο795.

Nel primo libro, dedicato alle vicende del regno dell‟imperatore Giovanni Comneno, Niceta racconta che, durante una spedizione di conquista in Armenia, presso la fortezza di Vahka, il sovrano fu insultato da un barbaro di nome Costantino che, ζθεηέξᾳ πεπνηζὼο ῥώκῃ θαὶ μέγα ηῶ δξαζηεξίῳ κομπάζων η῅ο θύζεσο ἔηη θαὶ ηὴλ βαζηιέσο θαηεκσθ᾵ην παξάηαμηλ θαὶ πξνπθαιεῖην ἀλέδελ ηὸλ ἐπηιέγδελ ἐθείλῳ ζπκπιαθεζόκελνλ796.

È difficile affermare che Niceta abbia davvero fatto riferimento a Sofocle in questo passo: l‟espressione κέγα θνκπάδσ ricorre più volte nella letteratura greca: lo troviamo, oltre che nella letteratura classica – e per quanto riguarda la tragedia, anche in Euripide797 – nei testi dei padri della Chiesa e nei Commentari di Eustazio. Nei testi cristiani viene utilizzato di solito proprio all‟interno di attacchi nei confronti di coloro che si vantano per qualcosa: Giovanni Crisostomo, per esempio, ricorda che anche gli analfabeti e gli stolti sono più

793 “Dolore genuino tocca l‟anima.” (F.M. Pontani)

794 “(...) si convertì in un colpo, che andava dritto al cuore dell‟imperatore.” 795 “Chissà che arie, se fossi un oplita!” (F.M. Pontani)

796 “Fidando sulla propria forza e vantandosi grandemente per l‟energia fisica scherniva ancora di più l‟esercito imperiale e sfidava a

duello colui che avessero scelto perchè combattesse con lui.”

144

saggi η῵λ μέγα ἐπὶ ζνθίᾳ κομπαζόντων (Ad pop. Antioch. 49.190); in un altro passo afferma che νἱ μέγα ἐπὶ ῥεηνξηθῆ θαὶ θηινζνθίᾳ κομπάζοντες anche scrivendo molte opere sulle proprie azioni hanno parlato a vuoto, danneggiando se stessi (in Mattheum 57.18.23).

Eustazio, invece, utilizza nei Commentari all‟Iliade l‟espressione κέγα θνκπάδεη, riferendola a Pandaro. Nella stessa opera, però, egli riporta anche per intero il verso di Sofocle, attestando che doveva essere noto al suo circolo798

Considerando il contesto, l‟unico elemento che accomuna i due passi è il fatto che i due protagonisti vengano accusati di vanteria, ma non sembra sufficiente per poter sostenere un intenzionale impiego del testo sofocleo da parte di Niceta, vista la presenza della stessa espressione, impiegata in contesti simili, in altri autori.

Ai. 1253-4 (citazione diretta)

Μέγας δὲ πλευρὰ βοῦς ὑπὸ σμικρᾶς ὅμως / μάστιγος ὀρθὸς εἰς ὁδὸν πορεύεται799.

Alla fine dell‟ottava orazione, rivolta a un proprio accusatore, Niceta inserisce una citazione diretta da Sofocle: ἀθνύεηο δὲ πάλησο θαὶ Σνθνθιένο ν὏ησζὶ γλσκνδνηνῦληνο θαὶ ιέγνληνο· “μέγας δὲ πλευρὰ βοῦς ὑπὸ μικρᾶς ὅμως / μάστιγος ὀρθὸς εἰς ὁδὸν πορεύεται”800.

In questo caso si può affermare con certezza che Niceta doveva conoscere il passo per via diretta e che probabilmente citava a memoria. Questi versi infatti sono riportati integralmente solo nell‟antologia di Stobeo: κέγαο δὲ πιεπξὰ βνῦο ὏πὸ ζκηθξ᾵ο ὅκσο κάζηηγνο ὀξζὸο εἰο ὀδὸλ πνξεύεηαη801. Il primo, invece, si trova anche in Eustazio nei Commentari all‟Odissea, all‟interno di una spiegazione dell‟uso del prefisso intensivo βνπ-, dopo aver ricordato che si pensa che derivi da βνῦο per la grandezza del corpo dell‟animale: νὗ πεξ ἅπηεηαη θαὶ ὁ εἰπὼλ ηὸ, κέγαο δὲ πιεπξὰ βνῦο.

La citazione di Niceta sembra mnemonica perchè se avesse imitato direttamente Stobeo o la tragedia avendo a disposizione il testo non avremmo la variazione κηθξ᾵ο per ζκηθξ᾵ο. Il contesto, d‟altronde, fa pensare che Niceta utilizzasse la frase per il suo carattere sentenzioso, ma mantenendosi fedele al valore che aveva nella tragedia. Nell‟Aiace, infatti, queste parole vengono pronunciate da Agamennone, il quale invita Teucro, con cui sta discutendo il problema della sepoltura di Aiace, a mettere giudizio, minacciandolo di una punizione in caso contrario: prevale chi è più assennato, e se una persona non si mette da sola sulla retta via può esservi spinto con la forza. Niceta, rivolgendosi al destinatario, afferma che non sarà accondiscendente nei suoi confronti e che reagirà alle sue accuse o alle sue domande infide come se dovesse affrontare un combattimento: capirà così quanto si dice delle Empuse, che sono amichevoli quando vengono adulate, mentre fuggono non appena qualcuno le minaccia; così anche Sofocle afferma che “un bue largo di fianchi raddrizza il cammino sotto i colpi di una sferza anche piccola”.

798 Eustath. in Hom Il. 5.284s, II p.72,18; in Hom.Il. 11.386, III p.218,14 Van der Valk.

799 “Anche un bove ampio di fianchi, basta una sferza piccola per farlo camminare diritto”. (F.M. Pontani)

800 “Ascolti completamente Sofocle, quando detta opinione e dice: “anche un bove ampio di fianchi, basta una sferza piccola per farlo

camminare diritto”.

145

Sembra quindi che Niceta intenda rivolgere al destinatario dell‟orazione lo stesso rimprovero che troviamo in Sofocle: chi non è ragionevole sarà costretto a esserlo con la forza – in questo caso a parole e non con le armi.

Considerando che Eustazio riporta solo una parte del testo e Stobeo interrompe la citazione con questi due versi, senza contestualizzarla, è decisamente probabile che Niceta conoscesse direttamente l‟Aiace e che lo citasse qui mnemonicamente.

Ant. 52

(...) δηπι᾵ο ὄςεηο / ἀξάμαο α὎ηὸο αὐτουργῷ χερί802·

Nel terzo libro delle Cronache Niceta ricorda lo scontro tra l‟imperatore Manuele e l‟archižupan serbo Bagin, ἟ξστθὸλ πξνθαίλνληη ζ῵κα θαὶ αὐτουργοὺς χεῖρας ἐμ ὤκσλ θύνληη803.

Sul piano lessicale è inevitabile il confronto col testo dell‟Antigone, perchè l‟aggettivo α὎ηνπξγὸο, che significa in generale “che agisce da solo”, viene unito al termine ρεὶξ solo in Sofocle.

Il nesso viene riportato da Fozio, che scrive: <Α὎ηνπξγὸο ρείξ>· Σνθνθι῅ο εἴξεθελ.

In questo caso però, volendo supporre una derivazione del passo dalla tragedia, si dovrebbe pensare che Niceta, avendo letto l‟Antigone, ricordasse queste parole e che le abbia inserite, senza una precisa volontà di imitazione, in un contesto completamente diverso da quello originario, probabilmente per elevare attraverso il linguaggio tragico lo stile del discorso. Non è possibile, pertanto, affermare con sicurezza la dipendenza