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Antropologia deleddiana: il peccato

Noi siamo forse l’ultima gente che ancora senta il peccato originale come un proprio, individuale peccato, che nessuna redenzione riuscirà mai a cancellare189.

Il ragionamento sul carattere tragico della scrittura deleddiana si apre ulteriormente alla luce di un dato chiaro:

La Deledda ha studiato l'origine e le manifestazione del peccato. E non si attarda su questo tema per un puro morboso piacere di sensualità o per esprimere ipocritamente un negativo giudizio morale. Ella sa che il peccato è in fondo ad ogni anima, sa che le sue creature sono vittime della colpa, perciò lo porta e lo esaspera fino ad un punto critico, quando si manifesta in tutta la sua potenza distruttrice; è proprio in questo momento che le forze morali dell'uomo si liberano, imponendosi come forza di bene o di male; e da questa lotta epica hanno vita le sue creature, sempre colpevoli di fronte alla legge umana, ma sempre più vicine a noi, per quel senso di pietà, che è conseguente alla loro colpa190.

L'elemento più indubbio dell'uomo deleddiano, almeno con una certa consapevolezza che emerge propriamente in una fase originale della sua parabola, è il suo essere naturaliter peccatore: «siamo nati per soffrire»191. Questo è chiaramente un

189 S. SATTA, Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, Ilisso, 2004, p. 450.

190 L. SORU, Grazia Deledda tra fatalismo e religione, op. cit., pp. 246-248, 1968.

191 G. DELEDDA, Cenere, Nuoro, Ilisso, 2005, p. 14; in altre forme il concetto è ripetute anche in Il nostro

assunto insieme programmatico e paradigmatico della scrittrice, che è da intendersi però in una direzione più aperta di quello che apparentemente potrebbe dare l'impressione di indicare. Il 'per' di questa asserzione potrebbe infatti indicare diverse interpretazioni. Una interpretazione aprirebbe alla coscienza di un fine, la sofferenza; ma potrebbe diversamente indicare la coscienza di una identità: la sostanza della vita è sofferenza; o la comprensione di un mezzo, la vita deve attraversare la sofferenza. Per comprendere occorre fare fino in fondo tutto il percorso che la scrittrice invita a fare.

Soffermiamoci ulteriormente: da dove deriva questa fatale sofferenza che ci opprime? Nei suoi romanzi questo non è dato sapere: «Una sola cosa certa so: che Dio ci ha messo al mondo per soffrire»192.

Su questa certezza, che la sofferenza sia connaturale all'uomo, è come che si fondassero nel loro segreto principale tutte le trame deleddiane. Ed è proprio in questa convinzione che si innesta, anche a livello narratologico, la nascita del peccato. Quali tratti possiede la nascita del senso del peccato nei personaggi di Deledda?

Le pareva di peccare solo perché la vita, col suo ardente soffio, le passava affianco193.

Il peccato è, quasi luteranamente, inevitabile, connesso e compreso in qualsiasi esperienza di umana vita.

[…] Le creature peccano perché il peccato nasce dalle cose, dalla natura in cui vivono. Ma la loro colpa non suscita né disprezzo né odio, bensì pietà e

Nuoro, Ilisso, 2005, p. 293; Le colpe altrui, Milano, Treves, 1914 , p. 34 . 192 G. DELEDDA , La madre, Nuoro, Ilisso, 2005, p.39.

commiserazione, perché in ognuno di noi alligna quel germe, sempre più vivo, pronto a germogliare nel dolore194.

In Cosima, di fronte alla morte nasce un sentimento particolare.

Ebrezza di dolore, di disinganno, di spavento della vita, che, come tutte le ubriachezze violente, le lasciò un fondo di amarezza, anzi di terrore: un terrore che non l'abbandonò mai più, sebbene accuratamente sepolto da lei in fondo al cuore come il segreto di una colpa misteriosa e involontaria195

Questa contingenza di un male inevitabile, di una colpa atavica, quasi genetica, insidia tutti gli uomini deleddiani tanto irrimediabilmente che, grazie ad un accortissimo procedimento narrativo, lascia lo spazio ad una compassione, al pathos, non alla condanna. Il lettore, che vede spiegarsi in senso fatalistico e indomabile la strada del peccato all'interno di un cuore all'apparenza onesto e puro, è portato in questo modo ad un avvicinamento empatico al protagonista. Questo è uno degli elementi più importanti, centranti il pensiero deleddiano, quasi un leitmotiv, una costante che ritroveremo nel suo fulcro originale dai primi racconti sino agli ultimi romanzi. La scrittrice in una bellissima lettera spiega la sua parte di narratrice:

Ho una grande pietà, una infinita misericordia per tutti gli errori e le debolezze umane […] Per me non esiste il peccato, esiste solo il peccatore, degno di pietà perché nato col suo destino sulle spalle196.

194 LUIGI SORu, Grazia Deledda tra fatalismo e religione, op. cit., pp. 246-248, 1968

195 G. DELEDDA , Cosima, Nuoro, Ilisso, 2005, p.39.

196 Lettera di Grazia Deledda a Monsieur L. De Laigne, Consul General de France, da Roma a Trieste, 17 gennaio 1905. La lettera si trova pubblicata in M. CIUSA ROMAGNA, Grazia Deledda, Cagliari, Poligrafica

Sembrerebbe che questo sentimento del peccato nasca nelle esistenze dei personaggi istintivamente- quasi visceralmente sentito- eppure non è difficile cogliere l'influsso197 del celebre passo paolino, ripreso poi da Agostino:

Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio... Io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me198.

Sintetizzando, l'uomo deleddiano è uno che, sotto l'incombenza di un destino che si pre-sente intrinsecamente infelice, è portato sulla via della sofferenza dall'impossibilità di seguire il bene che intuisce differente dal male in atto, bloccato dalla propria incapacità di sollevarsi proprio da questo male che porta dentro sé. Un uomo che tende, aspira al bene, ma che sta, che sente, che vive il peccato, la carnalità, la passione, come un inciampo al suo esistere nel modo che desidera.

La nostra infelicità risulta dalla nostra stessa condizione, cioè dal dualismo fondamentale del nostro essere. L'uomo è composto di elementi diametralmente opposti: partecipa della natura delle bestie in quanto, incosciente come loro, segue a volte i suoi istinti più primitivi; ma c'è in lui anche qualche cosa di divino, una potenza misteriosa che agisce in senso contrario e lo avvicina a Dio. È l'eterno conflitto tra corpo e anima. Una riconciliazione, un equilibrio tra questi poli

197 La conoscenza delle scritture della scrittrice così come la sua predilezione per S. Paolo è, tra l'altro, confermata esplicitamente in alcune parti dei suoi romanzi:«La carità sia senza simulazione; aborrite il male e attenetevi fermamente al bene. ...Non siate pigri nello studio; siate ferventi nello spirito, serventi al Signore. ...Allegri nella speranza, pazienti nell’afflizione, perseveranti nell’orazione. ...Benedite quelli che vi perseguitano; benediteli, e non li maledite. ...Non rendete ad alcuno male per male; procurate cose oneste nel cospetto di tutti gli uomini. ...A me la vendetta, io renderò la retribuzione, dice il Signore. ...Non esser vinto dal male, anzi vinci il male per lo bene», G. DELEDDA, Elias Portolu, Nuoro, Ilisso, 2005, p. 154.

opposti pare impossibile. Certi uomini tendono più verso una parte, altri verso l'altra- ma tutti soffrono indistintamente199.

Ma se tutti gli uomini, ontologicamente peccatori, hanno un destino d'infelicità, poiché «tutti siamo uguali davanti alla necessità del male200», allora tutta la realtà,

improvvisamente, viene oscurata dal sentimento di morte che travolge e domina - anche attraverso il ruolo dell'ambiente esercitato nei romanzi - e qualsiasi possibilità di redenzione sembra venire meno. Non c'è un uomo che non sia dentro il peccato, sotto la torbida e distruttrice mano del destino impetuoso e cinico. Dunque è tutto morte, rinuncia alla vita, al mondo. Quale speranza? Comprensibilmente, relativamente a questo punto molti parlano di pessimismo deleddiano201. Basta leggere qualche riga di

La madre per evocare questo sentimento. Nonostante l'evidente turbamento e disfacimento provocati dal peccato, di cui è sintesi simbolica il dolore della madre, Paulo non trova pace: «Col cadere della sera il peccato lo riattirava, lo stringeva con la rete dell'ombra202». Paulo capisce, comprende il suo male, il peccato, ma non serve

neanche intelligere, poiché l'inevitabile decadenza dell'uomo nel male pare proprio non avere fine possibile, invincibile come una forza sovrumana, quasi divina.

Sempre, il sentimento del peccato nei protagonisti deleddiani prende il suo sviluppo dalle passioni umane, dall'eros, sentito come antitetico rispetto al bene.

199 E. HAURI, Fato e religiosità nell'opera di Grazia Deledda, Arti grafiche già Veladini & C., Lugano, 1947,

pp.13-14.

200 G. DELEDDA, La parte del bottino, in Novelle vol.III, a cura di G. CERINA, Nuoro, Ilisso, 1996, p.219.

201 Rimandiamo ai capitoli successivi per un discorso più approfondito su pessimismo e religiosità deleddiana, rimarcando già da ora quanto sia un discorso inevitabilmente aperto e complesso, viste le parole della Deledda stessa: «Io non so, Sofia, perché mi dicono pessimista, mentre credo fortemente al bene», apparentemente in contraddizione con: «la mia pietà, però, non mi impedisce di essere pessimista: è da questo miscuglio di sentimenti io credo nascano i personaggi poco allegri dei miei racconti» Lettera di Grazia Deledda a Monsieur L. De Laigne, Consul General de France, da Roma a Trieste, 17 gennaio 1905. La lettera si trova pubblicata in M. CIUSA ROMAGNA (a cura di), Grazia Deledda, op. cit. p. 87.

Nei suoi romanzi, nelle sue novelle il bene non viene rappresentato se non in negativo, non si mostra mai cosa sia. Mentre il male – il male che non è solo il male di vivere – ha contorni netti e nome preciso: preferibilmente il nome delle sue forme ritenute estreme. È, sicuramente, quest’azione umana e quest’altra, nella più vitale concretezza, con l’inseparabile dote di dolore203

Centrale per comprendere l'antropologia e il senso di Dio della scrittrice è afferrare la sua distinzione tra bene e male. Non è tanto importante comprendere se l'eros rappresenti o meno la rottura con la legge sociale in quanto infrazione alla legge della convivenza comunitaria, quanto comprendere come sia sentita tale infrazione dal personaggio. «L'anima umana pecca, ma nel peccato stesso è il castigo204». Tanto Elias

quanto Efix e Paulo, muovono il loro riconoscimento del castigo conseguente alla colpa a partire da un sentimento quasi erotico, impulsivo, che infrange delle prestabilite regole sociali e culturali, riconosciute da tutti. Elias si innamora e possiede la promessa sposa del fratello; Efix osa alzare gli occhi di innamorato alla sua padrona, così in parallelo Giacinto; Paulo, prete, è sedotto da una sua parrocchiana. Ma tutti sentono di dover espiare tale colpa non di fronte all'uomo, alla società, ma di fronte a Dio. La loro colpa dunque non è una colpa innanzitutto sociale, nell'avere cioè infranto una legge umana, ma è profondamente, ed unicamente, morale. Interessante in questo senso la notazione di Neria De Giovanni che fa emergere le caratteristiche, appunto, morali, del senso di colpa, conseguentemente al concetto naturale del peccato:

Poiché la colpa è sortita dall'obbedienza a una forza sotterranea e misteriosa- un peccato atavico che ha la sua punta rivelatrice nella passione, nell'eros- questi

203 S. MANNUZZU, «La rete strappata» in AA.VV., Il fantasma di Grazia. I narratori parlano..., op. cit., pp. 49-

54.

peccatori sentono di doverne rispondere non agli uomini ma a Dio205.

Se il male, se la colpa, è innata, cioè nasce come mossa da un destino inevitabile, anche se quella che viene infranta è una legge sociale, la giustizia a cui essi dovranno sottomettersi non è una giustizia terrena, ma, proprio per questa fatalità, la giustizia divina.

Non esiste, infatti, per la Deledda, una vera, legittima, giustizia terrena. Il bene e il male, non dipendono e non sono determinate dalle capacità umane, ma dal Fato. L'unica legge che ha diritto di patria in Deledda è quella divina e l'unico peccato riconosciuto dai protagonisti è quello morale. Se l'uomo tende fatalmente al male, il carcere, tentativo di rimedio umano al problema sociale, non è mai la soluzione.

Infatti, mai si parla del carcere con timore concreto, «né è un caso che la prigione sia sovente sperimentata da persone innocenti, le quali, di ritorno al paese, sono dalla società di appartenenza quasi sempre accolte e reintegrate206» – come possiamo notare

nel primo capitolo di Elias Portolu.

Anzi, in Canne al vento, l'ipotesi di una pena detentiva altro non sarebbe se non un ulteriore scelta di espiazione da offrire a Dio, piuttosto che il rendere conto all'istituzione di una offesa al corpo sociale.

È però importante notare come il peccato, deleddianamente inteso, non sia semplicemente un naturale svolgimento di premesse aprioristiche dell'uomo. Il peccato, a cui l'uomo tende per natura, anche se inconsciamente («le pareva di peccare solo perché la vita, col suo ardente soffio, le passava affianco207»), è l'uomo e solo

l'uomo che lo commette:

205 N. DE GIOVANNI, Religiosità, fatalismo e magia in Grazia Deledda, op. cit., p.21

206 Ibidem.

Il male è irresistibile? le volontà umane non gli si possono opporre? Spesso pare che sia così, nelle storie della Deledda; ma la conseguenza non è che gli umani sono incolpevoli. Al contrario: essi hanno colpa di tutto il loro male; e sono chiamati a risponderne per tutta la loro vita208

o ancora:

Tutto dipende dall'uomo e l'uomo della Deledda non è mai un eroe: le creature della Deledda vivono in terra; la realtà è quella che è e il cielo è lontano209

Per questo, il peccato, è sentito come una colpa propria, da espiare personalmente in una via del sacrificio tutta personale. Se la colpa non fosse, anche se quasi inevitabile, fatale, commessa dall'uomo, l'uomo non sentirebbe il bisogno, dell'io, del proprio io, di dover espiare.

[...](La D.) segue una legge morale; eppure ciò non è il portato di una costrizione, per quanto intima e necessaria, ma è piuttosto il risultato di una libera elezione: perché la riconosce d'istinto, quasi prima che per coscienza, come la legge di una vita più vera e più completa contro le altre forze che tendono a mutilarla o ad esasperarne certe forme210.

È interessante da questo punto di vista registrare come in Deledda sempre la nascita del peccato venga connessa alla mancanza di coscienza, alla deficitaria fede in Dio o, meglio, al poco timor di Dio:

208 S. MANNUZZU., «La rete strappata» in AA.VV., Il fantasma di Grazia. I narratori parlano..., op. cit., pp. 49-

54.

209 L. SORU, Grazia Deledda tra fatalismo e religione, op. cit., pp. 246-248, 1968

Io ho chiuso gli occhi alla luce di Dio, e sono caduta come cadono tutti coloro che non guardano dove passano211

ma anche in altri punti:

Egli non ha mai avuto timore di Dio; si è sempre divertito, ha goduto la vita in tutti i modi212

È questa mancanza di timore di Dio che porta al peccato, alla disperazione, che è più una constatazione esistenziale di una vita giusta, retta, morale.

Andrea, morto suicida, in Le colpe altrui è così descritto da Padre Zironi:

è ancora come un bambino, non capisce né il bene né il male, o peggio ancora, confonde l'uno con l'altro. E non crede più in Dio: questo è il malanno[...]. Qual è il bene e qual è il male?.. 213

E non a caso i testi citati in questa circostanza testuale sono il passero solitario leopardiano e i fioretti di San Francesco. È evidente che la vita dell'uomo deleddiano, prima del peccato e nel momento della presa di coscienza di esso, è tutta rappresentabile nell'antitesi tra il dramma leopardiano di significato, tra il tragico destino di infelicità a cui tende la nostra natura, per la Deledda marcatamente destinata al peccato, e la vita vissuta come culmine nel sacrificio di San Francesco.

Si pre-sente che tutta la vita, prima e dentro il peccato, si gioca di fronte ad un unico interrogativo:

211 G. DELEDDA, L'edera, Nuoro, Ilisso, 2005, p.32.

212 Ivi, p.35.

Si, è vero, siamo di passaggio. Ma per questo bisogna prendere tutto sul serio o bisogna sorridere di tutto?214

Se però è vero che nella Deledda la passione che porta al peccato appare inevitabile, è altrettanto vero che questa colpa è come se fosse, oltre alla sua angoscia più grande, anche l'unica dimensione dell'uomo, connessa alla sua verità ontologica. Così, peraltro, troveremo anche in Gorkij, che sappiamo a lei vicinissimo.

La novella di Gorki dice come ad un uomo, il quale si doleva di non poter estirpare da sé le passioni che lo straziavano, si presentasse un giorno il diavolo, che gli promise di liberarnelo mediante un'operazione chirurgica. Il diavolo, dunque, eseguì con sveltezza e perizia, ma quando con le sue pinzette ebbe estirpata fin l'ultima passione dalla carne e dallo spirito dell'uomo, l'uomo si afflosciò per terra: povera ombra di sé stesso. Ché le passioni erano veramente le molle della sua vita215.

e in D.:

La vita che se ne andava in malinconia, e che così, senza amore, senza speranza e senza peccato, le pareva un vaso di cristallo che contenesse solo il vuoto216.

Sembrerebbe l'apoteosi del contraddittorio: da una parte l'uomo naturalmente è destinato nella sua incoscienza di Dio, ad una inevitabile passione, spesso per via erotica, che lo conduce sulla via del peccato dal quale non sembra ci sia via d'uscita;

214 Ibid.

215 N. ZOJA, Grazia Deledda, Milano, Garzanti, 1939, p. 37.

Noi tutti nella vita ci affanniamo a cercare qualche cosa che siamo già rassegnati a non trovare217

Dall'altra parte si evince come una vita senza passioni, senza peccato, sia una vita avvertita come vuota, priva di senso. Come si spiega una così paradossale antropologia? Come vedremo D. cerca di 'appianare' questo dramma dell'uomo, così costituito, suggerendogli una strada che attraversi il peccato: l'espiazione.

L'espiazione

«E pensa, o meglio non pensa, ma sente che la sua vera penitenza, la sua vera opera di pietà è finalmente cominciata218».

Proprio nel seno di questa concezione fatalistica del peccato mossa dall'eros, Grazia Deledda introduce l’espiazione, movimento agapico, oblativo; quello che possiamo identificare come il secondo dei topoi fondanti lo schema narrativo del suoi romanzi. La scrittrice, alla potenza distruttrice del peccato sopra descritto, non contrappone un riposo nel quale i suoi personaggi possano rinfrescarsi e godere di un perdono totale, di uno stato di grazia divina in qualche modo catartico. L’eroe deleddiano, commesso il peccato, è sempre in cammino, inquieto, angosciato, sempre alla ricerca di una pace in cui sollevarsi e liberarsi.

Una volta accertata la “necessità” del peccato, in quanto è insito nella natura stessa dell'uomo, essere imperfetto e tuttavia perfettibile, la D. si pone anche il problema della maniera in cui ognuno dovrebbe agire per cercare di evitarlo, per tenerlo lontano quanto più è possibile. La soluzione che suggerisce è questa: l'uomo nelle vicissitudini della vita, soggiace di continuo alle tentazioni del male; spetta a lui sfuggirle comportandosi rettamente, secondo quanto gli detta la sua coscienza morale, e facendo sempre ed ovunque il proprio dovere. Questo principio deontologico del proprio dovere è un tema sul quale la scrittrice insiste molto: se, nonostante tutto, l'uomo cade nel peccato (ed ella guarda all'uomo- peccatore con grande indulgenza), deve espiarlo fino in fondo perché ciascuno nella vita deve assumersi le proprie responsabilità ed accettare con paziente

rassegnazione le conseguenze delle proprie azioni219.

La vita, dopo il peccato, deve essere vissuta, in senso categorico e morale, nel segno della penitenza.

Se il male insorge in noi e ci trascina sino al peccato, come fare per liberarsene? C'è la coscienza che ci accusa e ci fa ritrarre dall'orlo della colpa; c'è la volontà dell'uomo, che sa vincere e superare le debolezze del cuore; c'è un Dio pronto a