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Primitivismo, tragico e Sardegna

Un dato certo, che supera in modo equivocabile la riduzione regionalistica per Deledda, ci viene, ancora, da una felice notazione di Bo:

La Deledda potrebbe vivere senza la Sardegna ma non potrebbe essere senza gli anni della sua formazione in Sardegna, nel mondo chiuso di Nuoro. È a Nuoro che ha cominciato a sentire e in maniera così forte la sua educazione, è a Nuoro che è nata Cosima, forse l’immagine più felice di quella natura che aveva accettato e prima cercato di vivere in un altro mondo. Ecco perché si sbaglia quando la si considera una scrittrice regionale, ecco perché si sta nel vero quando la si coglie nel suo segreto più intimo del grande sogno107.

Quale questo intimo del grande sogno? È senza dubbio d'aiuto, oltre che di simpatico interesse per la comprensione del suo carattere in questa fase, leggere come la scrittrice, nelle sue lettere, si presenta.

Così la prima lettera che ella, giovanissima, invia all’editore Emilio Treves:

Forse il mio nome non le è del tutto ignoto... ad ogni modo presentandomi a lei con molta fiducia, le dirò chi sono: una fanciulla, posso anche dire un’artista sarda, piena di molta buona volontà, di molta fede e coraggio. Sono anche assai giovane, e forse perciò ho grandi sogni: ho anzi un sogno solo, grande, ed è di

107 C. BO, Grazia Deledda oggi, in «Accademie e biblioteche d'Italia», LIV (1986), Roma, Fratelli Palombi

illustrare un paese sconosciuto che amo molto intensamente, la mia Sardegna108.

Tralasciando alcuni piacevoli accenti di manifesta autostima, che fanno emergere in lei una precoce consapevolezza delle proprie capacità – a tratti con note di apparente superbia-, è palese che Grazia Deledda, sin da giovane, aveva già un’idea chiara riguardo la sua opera letteraria e la sua vocazione di scrittrice. Concezione, questa, che viene da lei espressa più e più volte nelle lettere rivolte ai suoi maestri. Nel 1890 scrive a Maggiorino Ferraris:

Avrò fra poco vent’anni, a trenta voglio aver raggiunto il mio unico scopo radioso qual è quello di creare da me sola una letteratura completamente ed esclusivamente sarda109.

Sembrerebbe dunque esplicito il suo ideale letterario. Il suo progetto di scrittrice starebbe pertanto nella volontà di «irradiare con un mite raggio la foschia ombrosa dei nostri boschi; narrare, intere, la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri, così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza110». In una simile direzione tragico-primitiva alcuni, prontamente,

descrivono il suo ambiente nuorese:

Ambiente all’antica, patriarcale e severo, dove la vita dei singoli individui è regolata dal più rigido concetto del dovere: del dovere non nel senso kantiano, razionalista, ma del dovere imposto da un Dio trascendente, da un Dio che fa scontare ogni trasgressione della sua legge, cioè ogni peccato; da un Dio

108 Lettera ora pubblicata in A. SCANO, Grazia Deledda, Versi e prose giovanili, Milano, Treves, 1938, p. 236.

109 Lettera a Maggiorino Ferraris, 1890, il testo si trova pubblicato in: N. DE GIOVANNI, Come leggere Canne al

vento, Milano, Mursia, 1923, p. 22.

110 Lettera a Stanis Manca, il testo si trova pubblicato in G. DELEDDA, Amore

vendicatore e punitore terribile come il Geova degli Ebrei111.

Le ragioni del suo insistere nella direzione sarda possono essere anche cercate nel successo immediato che ebbe questo suo tentativo, riscontrabile sin dalle fasi primordiali, di operare una letteratura 'sarda':

La signorina Deledda fa benissimo di non uscire dalla sua Sardegna e di continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte elemento di originalità. I suoi personaggi non possono esser confusi con personaggi di altre regioni; i suoi paesaggi non sono vuote generalità decorative. Il lettore, chiuso il libro, conserva vivo il ricordo di quelle figure caratteristiche, di quei paesaggi grandiosi; e le impressioni sono così forti che sembrano quasi immediate, e non di seconda mano112.

Col tempo, inoltre, assistiamo ad un approfondimento di tale tema sardo sempre più a fondo, fino a trasformarsi alla fiamma della precisione artistica della D.: «A mano a mano matura nella scrittrice un modo diverso di guardare a quella sua Sardegna, che diventa sempre meno folkloristica e sempre più un luogo topico, un simbolo a dir alcune eterne passioni umane113». E ancora: «Intorno a questa umanità, che annaspa

nel suo buio e si erge nella sua luce, si stende ed incombe l’isola, brulla e selvaggia, scabra e rocciosa, con le sue abitudini superstiziose, con le sue leggende e i suoi miti, che rappresentano l’anima primitiva del popolo114».

Il tema sardo nel sistema letterario di D., quindi, in una linea di approfondimento cronologica, assume la funzione di sfondo narrativo, dentro cui si svolgono le vicende

111 G. CHROUST, Grazia Deledda e la Sardegna, Roma, Augustea, 1932, p. 6.

112 L. CAPUANA, Gli 'ismi' contemporaneporanei (Verismo, Simbolismo, Idealismo, Cosmopolitanismo) ed altri

saggi di critica letteraria ed artistica, Milano, Fabbri, 1973, pp. 96-98.

113 G. PETRONIO, 1972, Grazia Deledda, in I contemporanei, Marzorati, Milano 1963, vol. I, pp. 137-158.

dei personaggi tragici caratteristici. Occorrerebbe domandarsi più in profondità il motivo della scelta di Deledda dell'ambientazione sarda. Per comprendere questa opzione citiamo, per analogia, una famosa locuzione del Dessì:

Perché in Sardegna? mi si chiederà ancora una volta. Perché, a parte le ragioni storiche e artistiche che richiederebbero un troppo lungo discorso, come ci insegnano Spinosa, Leibniz, Einstein e Merleau- Ponty, ogni punto dell'universo è anche il centro dell'universo115.

Riadattando il discorso dello scrittore di Villacidro alla nostra scrittrice, potremmo dire con semplicità che la D. scrive e ambienta i suoi personaggi in Sardegna e non potrebbe fare altrimenti. La Deledda, infatti, nasce e cresce in Sardegna, a Nuoro, e vive le sue prime esperienze di donna e di scrittrice proprio in quel contesto socio- antropologico. Quanto più radicale risulta la sua esperita autocoscienza di scrittrice, tanto più introspettivo, come testimonia Cosima, deve essere stato il suo trascorso giovanile, sicché, per analogia, lo spazio vissuto è stato eminentemente e poderosamente proiettato in spazio mentale, e, ultimamente, spazio interiore e poi narrativo.

Poche volte, forse, l’ambiente in cui uno scrittore è nato ed ha trascorso i primi anni della sua vita ha avuto un’influenza così determinante, come nel caso di Grazia Deledda. E con il termine ambiente vogliamo qui riferirci alla regione – la Sardegna- e in pari tempo alle persone che ha avuto modo di conoscere e frequentare, alla stessa casa in cui ha vissuto116.

115 G. DESSÌ, Introduzione a I passeri, Milano, Mondadori, 1965.

Vogliamo evitare, in questa occasione, i rischi di un certo sardismo, inteso come estremizzazione di una appartenenza sentita come liberante rispetto alla crisi identitaria e politica di un popolo. Infatti, come ben nota Monica Farnetti, se Deledda scrive, e se narra di Sardegna, non lo fa per patriottismo; invero, riporta la studiosa, «Non nasce un grande scrittore, né tantomeno una grande scrittrice, che non sia al contempo una grande pensatrice, impegnata con il suo scrivere in un atto di responsabilità, di giustizia e di ordine117». Grazia Deledda, infatti, «scrive per cambiare

il mondo, e per rifarlo, o almeno immaginarlo, a propria misura, una misura di libertà femminile che mette al centro e al lavoro l'amore per la vita118». La Sardegna in

Deledda non va letta come un sottofondo folkloristico, semmai come spazio primordiale, isola, mondo in cui proiettare, con un atto di responsabilità, lo scenario umano. La Sardegna diventa paradigmaticamente un luogo narrativo da intendersi come spazio vissuto e modificato, eretto a cosmo, locus vitae, in cui trasporre la propria proposta di mondo:

Grazia Deledda non scrive “letterariamente”, né nel senso deteriore del termine né forse in quello migliore o neutro, denotativo, per il semplice fatto che scrive, come si e detto, “filosoficamente”, ovvero per dare forma al suo nuovo e impensato pensiero: un pensiero sulla Sardegna, sì, ma una Sardegna intesa e compresa come parte per il tutto, come “mondo in riassunto” alla stregua della shakespeariana Inghilterra, come “isola/mondo” o cosmo addirittura complica nel renderla capace di autentiche cosmologie119.

Partendo dalla ferma notazione di Farnetti, dall'abbozzo di una Deledda più

117 M. FARNETTI, La scrittura paziente di Grazia Deledda. In forma di introduzione, in Chi ha paura di Grazia

Deledda? (a cura di) M. FARNETTI, Padova, Iacobelli, 2010, pp. 9.

118 Ivi, p.11. 119 Ivi, pp.10-11.

filosofica, soffermiamoci adesso su come l'Isola assuma questo ruolo di 'mondo in riassunto' dal punto di vista narratologico:

Si deve mettere subito in chiaro l’errore di certa critica superficiale che fa consistere le ragioni dell’interesse universalmente suscitato dai romanzi deleddiani nella novità dell’ambiente sardo e dei modi originali di vivere e di pensare dei loro personaggi. Di vero, in queste affermazioni, è solo questo: che i servi, i banditi, i pastori di Sardegna hanno molto conferito all’arte della Deledda. Ma non perché siano vestiti e vivano e parlino in modo originale. Quei servi, quei pastori, quei banditi interessano perché la loro spiritualità, cioè il loro dolore, di esseri di antica razza, ma di anime primitive, cioè di energie morali non logorate, viventi disperse in misteriose e tragiche solitudini, quasi inviolate, di pianure sconfinate, di boschi e di monti, è una spiritualità straordinariamente forte e potente: di troppo superiore alla spiritualità dei più comuni uomini a cui l’accomunamento nella vita grigia delle città industriali o dei luoghi di agricoltura progredita eguaglia e adegua le anime in un mediocre livello sociale120.

Una D. ridotta all'Isola sarda, così come una Sardegna ridotta alla narrazione deleddiana, tradirebbe, infatti, la grandezza della scrittrice, inscrivendola dentro quella schiera di poeti o artisti regionali, nel senso in cui questo termine determina, più che un orizzonte di attesa, un limite evidente. Piena approvazione, quindi, per Carlo Bo, che, inteso il rischio, forse più politico che critico, di chiudere la Deledda in Sardegna, rifugge la possibilità di impantanarsi nel discorso sardo.

La Deledda potrebbe vivere senza la Sardegna ma non potrebbe essere senza gli anni della sua formazione in Sardegna, nel mondo chiuso di Nuoro. È a Nuoro che

ha cominciato a sentire e in maniera così forte la sua educazione, è a Nuoro che e nata Cosima, forse l’immagine più felice di quella natura che aveva accettato e prima cercato di vivere in un altro mondo. Ecco perché si sbaglia quando la si considera una scrittrice regionale, ecco perché si sta nel vero quando la si coglie nel suo segreto più intimo del grande sogno121.

La D. nei suoi romanzi usa, intelligentemente e potentemente, l'immagine dell'Isola e ne fa una chiave di originalità assoluta, tanto da diventare cifra caratterizzante, dei suoi romanzi. Tanto vigorosamente da formare nell'immaginario collettivo dei lettori, anche posteri, una fotografia di Sardegna divenuta ormai, almeno narrativamente parlando, caratteristica. Icona, che, peraltro, provocherà, oltre che successi e plausi, notevoli critiche. La sua scelta dell'ambiente sardo, comunque, è certamente alla base dei suoi primi successi. Ma come la nostra scrittrice usa, o, meglio, invera questa immagine? Come tale caratteristica connota e modifica i suoi romanzi? Petronio appunta come il modo di scrivere della Sardegna, probabilmente per la accresciuta consapevolezza letteraria di Deledda, s'incrementi e si sviluppi nella stessa. A mano a mano matura nella scrittrice un modo diverso di guardare quella sua Sardegna, che traspare gradualmente meno folkloristica e sempre più un luogo topico, un simbolo espressive di alcune eterne passioni umane122.

La Deledda – possiamo pensare -, è passata da una esordiale inconsapevolezz, ad un più cosciente uso di questa ambientazione. Ovvero la Sardegna, da iniziale spunto biografico per la narrazione tende a tramutarsi in uno sfondo, costante nei suoi romanzi, tale da assumere l'importanza di un personaggio principale. La motivazione di questa scelta deleddiana potrebbe essere ricercata, dunque, nella sua fase primordiale, nel fatto, cioè, che la Sardegna rappresentò- per le sue risorse di memoria

121 C. BO, Grazia Deledda oggi, op. cit., p. 1;

e di cultura mista a folklore e magia, per le sue caratteristiche storiche di isola fuori dall'Italia, per la sua peculiarità decadente di isola abitata da primitivi, già insita nella cultura precedente (pensiamo ai personaggi banditeschi di Enrico Costa)- una fonte infinita di spunti letterari, da cui evocare storie ricche di trame originali e di personaggi particolari che nessuna regione italiana, con questi tratti affini, poteva offrire ad un compositore.

Nelle opere più mature, invece, risulta più evidente come l'ambientazione sarda si tramuti, da spunto narrativo, a delineazione consapevole di un personaggio caratterizzante il sistema narrativo. Anzitutto, come ricorda Giovanna Chroust, abbiamo due immagini ben diverse che seguono comunemente il concetto di Sardegna del Novecento: «La Sardegna leggendaria, primitiva, barbara, delle steppe e delle paludi, dei nuraghes e dei pastori, [...] poetica e leggendaria» e «la Sardegna sulla quale passa, scuotendola dal suo millenario letargo, il vento fecondante della nuova Italia: la Sardegna dei bacini, degli impianti idro-elettrici, delle bonifiche, la Sardegna del Tirso e del Coghinas123». Grazia Deledda, tra le due possibili e realissime opzioni,

sceglie la prima, quella della Sardegna poetica e leggendaria, primitiva, la cui «religiosità cupa si caratterizza nel terrore di un Dio punitore e vendicatore implacabile124». Tuttavia, la Sardegna di Deledda si discosta da quella dei banditi per

un carattere marcato da lei modellato, come già detto: «In questo mondo primitivo e barbaro le leggi e i concetti del cristianesimo vengono a gettare le loro luci. Il cristianesimo vi mette il concetto del peccato cioè della colpa che è punita in questa vita terrena, empirica, e in una vita ultraterrena che nessun mortale ha esperimentato mai125». Così come abbiamo visto, «dalla combinazione, dall’intrecciarsi di idee e di

123 G. CHROUST, Grazia Deledda e la Sardegna, Roma, Augustea, 1932, p. 5.

124 Ivi, pp. 20-31. 125 Ibid.

concetti quali dominano una società eroica e primitiva, colle idee cristiane, [...] nascono situazioni particolari che la Deledda ha saputo rappresentare con una forza persuasiva spesso straordinaria».

Ancora, dunque, la D., nella sua operazione di trasposizione letteraria del mondo sardo, attua un’operazione di sincretismo tra segni religiosi primitivi e magici ed elementi cristiani, nello sfondo di una Sardegna che è «divenuta metafora, uno spazio nel quale rappresentare il dramma dell’esistenza, nel quale riproporre, nel farsi individuale dell’esperienza, situazioni date in senso mitico126».

Quindi, nell'idea della scrittrice nuorese il tema sardo «assume la connotazione percettivamente più concreta di spazio primordiale, spazio del mito, uno spazio intemporale127». In questo spazio privilegiato riuscì nel progetto letterario di «rivelare

all’uomo contemporaneo le angosce, i conflitti, le crisi dell’io in senso individuale e in senso collettivo128».

La Sardegna diventa allora quella grande metafora, il luogo per antonomasia, un teatro nel quale si rappresenta il dramma dell’esistenza. In questa direzione la Sardegna si comprende quale parte fondamentale dell'assolutamente singolare senso tragico letterario dei suoi romanzi, tanto da assumere quasi il carattere che rivestiva nella Tragedia classica il coro: l'atmosfera circostante, infatti, spesso, nelle pagine deleddiane, introduce e modifica, quasi come una personificazione del Fato onnisciente - da interpretare dentro il problema coscienza-religiosità - la vita dei personaggi, restituendo al lettore un ambiente sempre consono, o perlomeno determinante, a quello che accade e che succederà al personaggio.

Non poteva la Deledda trovare ambiente migliore per rappresentare una tragedia

126 N. TANDA, Dal mito dell’isola all’isola del mito. Deledda e dintorni, Roma, Bulzoni, 1992, p. 42.

127 Ivi, p. 55. 128 Ibid.

moderna, dove gli elementi primitivi si legano così intensamente a quelli morali religiosi, in un sostrato marcato dalla superstizione e dal folklore magico:

Se debbono compiere un atto qualsiasi- i sardi- ecco che i miti provvedono a ragguagliare tutti: i malati, i sofferenti, che vogliono guarire, si sottomettono volentieri a ciò che la sapienza popolare insegna[...]. Le superstizioni poi sono di tante specie; e divengono, in ogni modo, ossessionanti sempre [...]129.

Se, inoltre, innestiamo la metafora deleddiana dentro la circostanza storico- culturale, comprendiamo ancora di più il motivo del suo successo.

Muoni130 identifica un intelligente confronto tra due espressioni sintetiche per

descrivere la Sardegna nei primi anni del 1900: la Madre dell’ucciso di Francesco Ciusa e il Cristo Redentore di Vincenzo Jerace, innalzato sulla cima dell’Ortobene per volere di papa Leone XIII, in occasione del Giubileo. Per Muoni questi sono «due

129 F. BRUNO, Grazia Deledda, op. cit., p. 20.

130 «Due immagini plastiche, opposte ma simbolicamente complementari, riassumono meglio di qualunque discorso il clima morale e culturale della Sardegna d’inizio Novecento, in particolare della Sardegna interna e rurale: la Madre dell’ucciso di Francesco Ciusa e il Cristo Redentore di Vincenzo Jerace. Per quanto riguarda la celebrità e popolarità della prima, basterà ricordare il suo successo alla Biennale di Venezia del 1907, salutato trionfalmente in tutta l’isola, che vedeva in quell’affermazione un segno di riconoscimento internazionale dell’esistenza stessa della realtà sarda e del suo dramma storico, ma soprattutto la prova della grande capacità creativa del suo popolo. Sull’importanza della seconda, sarà sufficiente rilevare che non solo essa risvegliava la speranza dei fedeli, i quali dalla vetta del monte Ortobene ricevevano il salvifico annuncio della pace e della redenzione agli uomini di buona volontà, ma che commuoveva e coinvolgeva idealmente i maggiori artisti sardi del tempo, anche di fede laica, primi fra tutti Sebastiano Satta e Grazia Deledda, a riprova di quanto l’aspirazione al perdono e alla riconciliazione fosse davvero avvertita da tutti, specie in quegli anni, come esigenza capitale e risposta liberatoria a un problema angosciante: il problema del malessere, della malattia mortale di tutte le popolazioni interne della Sardegna, funestate e letteralmente decimate dalle violenze degli odi e delle vendette, dall’insicurezza e precarietà della vita quotidiana. Dunque, due simboli forti e complementari. Il primo, della tragedia e del lutto inesprimibili, bloccati nel silenzio della storia; l’altro, dell’immagine messianica, dell’avvento di un regno di pace e di riscatto. Chi attraversi le espressioni dell’arte e della letteratura nella Sardegna profonda di quegli anni, troverà dovunque rappresentata questa duplice figura, annunciante la tragedia del dolore e al tempo stesso l’attesa della liberazione.Trascurarla non si può. Pena l’incomprensione non solo psicologica di quanto veramente avveniva nel campo della società e della cultura isolane di quegli anni». In L. MUONI, prefazione a PIETRO

simboli forti e complementari: il primo, della tragedia e del lutto inesprimibili, bloccati nel silenzio della storia; l’altro, dell’immagine messianica, dell’avvento di un regno di pace e di riscatto». Per cui il senso tragico deleddiano si impianterebbe nel primo movimento identificato da Muoni, mentre la direzione morale che abbiamo individuato nel processo espiativo potrebbe sintetizzarsi nel tentativo espresso dal Redentore di Jerace.

Perché Grazia Deledda sceglie questa Sardegna come topos letterario e come ambientazione per quasi tutti i suoi lavori? Perché è in essa che lei trova la sua ispirazione ed è sempre qui che trova la possibilità di descrivere, parlare, dialogare e far agire i suoi eroi. Un movimento di trasposizione letteraria, dunque, ancora di una Sardegna primitiva131 e tragica, dentro la quale l'umanità vive la tragedia di una vita

alla ricerca della pace morale:

Intorno a questa umanità, che annaspa nel suo buio e si erge nella sua luce, si stende ed incombe l’isola, brulla e selvaggia, scabra e rocciosa, con le sue abitudini superstiziose, con le sue leggende e i suoi miti, che rappresentano l’anima primitiva del popolo 132.

«Il mondo artistico della Deledda è, quasi tutto, nella sfera della primitiva barbarie. Gli ambienti, i paesaggi, le figure di essa presentano quasi tutti un aspetto come di tempi primitivi ed eroici, fanno pensare ad opere d’arte arcaiche133».

Possiamo forse osare una concettualizzazione della Sardegna deleddiana proprio

131 Il primitivismo e l’isola sono temi che, da Rousseau – colui che aveva individuato nello stato di natura la possibilità della felicità umana -, hanno affascinato agli albori del ‘900 molti pittori e dato vita a diversi