• Non ci sono risultati.

Il romanticismo antimoderno di Chateaubriand e l'esistenzialismo dei russ

La fonte prima dove la Deledda s'immerse per trovare il suddetto gusto per il primitivo - presupponendo che non sia il frutto di un dato unicamente sardo e pensando piuttosto questo sentire come mescolanza fruttuosa di diverse esperienze di lettura - è molto difficile da individuare; una possibile linea di approfondimento in questa direzione potrebbe passare attraverso una determinata lettura di sponda francese del periodo a cavallo tra la Rivoluzione e Napoleone. Tra i molti autori esplicitati dalla D. stessa come fonti, ne troviamo infatti uno nello specifico su cui la nsotra afferma di essersi formata con una certa impressione. In Cosima la D. afferma:

Anche leggendo già di nascosto i libri del fratello maggiore, e quelli che esistevano in casa […]. così, a quell’età, lesse i primi romanzi: uno dei quali era I Martiri di Chateaubriand, che lasciò nella sua fantasia un traccia profonda136.

È certamente un caso che va ad esercitare un forte interesse l'esplicitazione di un giudizio di influenza, ed il passo citato è tanto preciso che fa specie osservare come questa fonte deleddiana esternata non sia stata in realtà dalla critica adeguatamente approfondita. Il passaggio che ci porterebbe dal primitivismo deleddiano ai russi, attraverso l'affondo tramite Chateaubriand non è certo casuale. Valichiamo questa strada verso l'evidente direzione dell'approfondimento della nostra linea critica principale, iniziando gradualmente ad addentrarci nel nostro tentativo di rilettura critica deleddiana. Chateaubriand è quel grande classico francese, spesso celebrato tra gli iniziatori del romanticismo francese, sul quale si sono formati o col quale si sono

scontrati molti tra i più grandi scrittori successivi, da Lord Byron a Victor Hugo, a Stendhal, da Claudel a Malraux, da Charles de Sainte Beuve a Leon Bloy. Dietro di lui, attraverso di lui, tanti precedenti: da Pascal a Rousseau. E così la nostra scrittrice che ci documenta personalmente la lettura dei celeberrimi capolavori del romantico francese. E così, per l'influenza paterna lesse il Genio del cristianesimo:

Sto rileggendo il Genio del Cristianesimo, una vecchia edizione con sottili miniature, ch’era fra i volumi prediletti di mio padre, e trovo dei capitoli sugli usi funebri da cui forse farò un piccolo articolo per la Rivista vostra137.

Ma anche I martiri:

Leggevo, o meglio rileggevo, uno dei miei libri preferiti di quel tempo: I martiri di Chateaubriand. Era in una edizione rarissima, rilegato in pelle bianca con fregi d’oro: una cosa bella, come del resto tutto era bello in quella giornata che dava quasi un senso d’irreale: tutto azzurro, anche il granito del Monte, anche le ombre degli alberi; un azzurro che si rifletteva sulle pareti della camera, e sullo scrittoio che luccicava come fosse di cristallo. Tanta bellezza, e l’incanto stesso della lettura, mi destavano un’impressione di sogno. Avevo quasi timore a svolgere la pagina, come si trattasse di aprire una porta dalla quale poteva penetrare un’atmosfera diversa138.

E il René:

Egli pensò a Renato del quale gli parve intravedere il triste profilo su una roccia guardante il mare… No, non è lui, è un altro eroe di Chateaubriand, Eudoro, che sulle roccie marine della Gallia selvaggia sogna le rose dell’Ellade lontana… Ebbene, no, non è neppure Eudoro… è un poeta che si domanda: Questa roccia

137 G. DELEDDA, Lettere ad Angelo De Gubernatis, op. Cit., p. 108

granitica erta sul mar che fa?139.

Occorrerebbe approfondire alcuni importanti caratteri generali della scrittura del francese per essere consci e poter identificare e seguire questa 'traccia profonda', che verrà da lui improntata nella formazione narrativa della Deledda.

Certamente, l'evidente ricerca tutta particolare di Chateaubriand per il gusto primitivo non può non farci pensare allo sviluppo della nota Sardegna primitiva in Deledda. «Non è possibile ricordare senza rimpianto - scrisse nel Genio del cristianesimo (Einaudi, a cura di Mario Richter) - la bellezza degli antichi giorni: quando, per i fedeli che venivano a meditarvi i misteri, né i boschi, né le grotte avevano sufficiente mistero»; qui ci pare di scovare un carattere molto simile al deleddiano approccio con la natura misteriosa e vergine, che a ben altre profondità rimanda. Pare condividere quel sottofondo di quando ella declama: «Ho vissuto coi venti, coi boschi, con le montagne. Ho mille volte appoggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie; ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente;…ho ascoltato i canti e le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo[...]»140.

Ciò che si offre al nostro interesse sta nello scoprire un particolare carattere del francese - assimilabile a quello della nostra - che emerge dal modo con cui la scoperta del primitivo viene a legarsi con un certo orizzonte morale, che arriva sino alle soglie dell'indagine del mistero del male; maligno che diviene persino l'oggetto del massimo grado di interesse per l'autore, pervenendo finanche a forgiare, prima che qualsiasi altro ragionamento, in maniera prepotente, la sua religiosità in genere:

139 G. DELEDDA, Cenere, Roma, Nuova Antologia, 1904

Chateaubriand era insieme innocente e colpevole: innocente per il desiderio di identificarsi con l’uomo della natura, colpevole perché portava in ogni parte del corpo le stigmate dell’uomo civilizzato. Se abbracciava l’identità indiana, non si spogliava della propria identità europea. Era diviso, ferito, straziato. Diceva: «Libertà primitiva, finalmente ti scopro!»[...]Quando si chinava sui sentimenti, spesso Chateaubriand vedeva soltanto l’amore passionale, che aveva tutto in sé stesso: la sostanza, l’illusione e la follia, e prendeva innumerevoli forme. Queste forme d’amore erano, in lui, la trasformazione e la reincarnazione di una potentissima forza incestuosa, che lo attrasse, per tutta la vita, verso la figura della sorella. Soffriva, immaginava di soffrire moltissimo: eppure qualsiasi dolore lasciava intatto il nucleo vasto e indeterminato della sua anima. Egli era vuoto, e diffondeva intorno a sé nulla di definito e preciso, ma soltanto un vuoto infinito. Ancora Chateaubriand era attratto da Satana, «questo serpente incomprensibile». Satana è supremamente misterioso, segreto e sorprendente. I suoi movimenti sono diversi da quelli di qualsiasi altro animale: non possiede né pinne, né piedi, né ali, e tuttavia fugge come l’ombra: si dilegua magicamente, riappare e ancora scompare, simile ad una nuvoletta azzurra, o ai bagliori di una spada. Ora assume la forma di un cerchio e saetta una lingua di fuoco: ora striscia, in modo da risvegliare in noi inquietudine e terrore. Sta sopito per mesi: frequenta le tombe, abita luoghi ignoti, elabora veli, macchia il corpo delle vittime con i suoi stessi colori; erge una testa minacciosa, o fa udire un sonaglio, o fischia come un’aquila alpestre. Il serpente della Genesi, assai più di Jahvè e di Cristo, era la figura che incatenava sovranamente l’immaginazione di Chateaubriand. Tutte queste parole, pensieri, immagini, sogni, allucinazioni formavano il suo cristianesimo: senza Cristo e con pochi Vangeli. Esso era, in primo luogo, una forma suprema di sublime141.

141 P. CITATI, L’anima straziata di Chateaubriand. Un cristiano attratto dal demonio, in «Corriere della Sera»,

Lo scopo che anima la scrittura di Chateaubriand, non viene quasi mai nascosto dalla finzione letteraria, ma esplicitato in maniera chiarissima attraverso un carattere e un motivo religiosamente inteso e comprensibile: «Cercherò di dimostrare che di tutte le religioni esistite, la religione cristiana è la più poetica, la più umana, la più favorevole alla libertà, alle arti e alla letteratura; il mondo moderno le deve tutto, dall’agricoltura alle scienze astratte. Bisogna dimostrare che non c’è nulla di più divino della morale cristiana, nulla di più piacevole e maestoso dei suoi dogmi, della sua dottrina e del suo culto; la religione cristiana favorisce il genio, affina il gusto, sviluppa le passioni virtuose, conferisce vigore al pensiero142».

È affascinante appurare come lo scrittore, attraverso la constatazione che tale scontro delle passioni viene reso così più vivo dal cristianesimo, faccia diventare proprio il cristianesimo, la religio stessa, la più intensa passione, che a questo punto si tramuta in fonte inestinguibile di tesori immensi per la creazione artistica.

Alcuni, prendendo le mosse da queste considerazioni, hanno potuto ipotizzare, non dislocandosi di troppo fuori dalla verità, che il vero mito per Chateaubriand è proprio il cristianesimo. Ora, se riflettessimo sopra a quello che possiamo chiamare il 'cristianesimo' deleddiano e al ragionamento di Tanda sul mito dell'isola e sull'isola del mito, sarà fuor di dubbio avvincente attuare una revisione dell'intreccio tra la religiosità e la Sardegna, tandianamente intesa, in Grazia Deledda, proprio a partire dalle mosse francesi qui individuate.

Possiamo solo accennare, proprio come succede in Deledda, come anche in Chateaubriand la fede trova sempre origine dall'interiorità: «Sono diventato cristiano. Non ho per nulla ceduto, lo ammetto, a delle grandi forze soprannaturali; la mia convinzione è uscita dal mio cuore: ho pianto e ho creduto143» e anche in lui questa

142 Ibid. 143 Ibid.

religiosità si esercita e vive in un ambiente morale, sociale, in cui non manca una tensione verso un pessimismo e una sfiducia generale: «Si abita, con un cuore pieno, un mondo vuoto; e senza aver utilizzato nulla, siamo disillusi da tutto144».

La nostra ipotesi, allora, potrebbe arrivare a concepire una Deledda che approda sulla sponda russa, che fa capolino alle soglie dell'esistenzialismo dostoevskijano, dell'ambiente morale che la caratterizza, di quella tutta personale idea di Sardegna, attraverso lo scandaglio della riflessione francese di Chateaubriand, che ha lasciato questa 'traccia profonda', a questo punto esplicitabile come possibilità e capacità di rielaborazione del tema cristiano, o religioso in genere, che costituirebbe un nucleo morale in grado di garantire una rivalsa dell'uomo in una dimensione sociale distrutta - che porta con sé le vestigia di quel male di vivere, che Chateaubriand avrebbe precorso ben prima del Novecento - da riflettere ed affrontare dentro lo sfondo di un mondo primitivo, inteso come scenario in cui si dipanano le passioni e le vicende di tutti gli uomini possibili e reali. Inoltre, da Chateaubriand prima, dai russi poi, come vedremo, la Deledda attingerà proprio questa sua passione indagatrice del male.

Oltre a quanto detto, è bene notare come nel suo romanzo epico il francese operi allo stesso tempo- dentro un regolamento di conti con Napoleone, tiranno di cui Diocleziano è l’immagine - un nuovo modo di scrivere la storia, resuscitando il passato in tutte le sue forme, ed una riflessione filosofica su questa storia: l’imperatore Costantino è capace di fare la sintesi tra l’eredità del mondo antico e l’ordine cristiano. Il cristianesimo è ancora il centro della riflessione di Chateaubriand: solo esso è capace di dire la parola giusta sul presente, di fare da ponte tra mondo antico e futuro, e, nella ricomposizione dell'ordine storico-sociale, è l'unico balsamo della frattura della persona dispersa nel peccato delle sue passioni, così come è l'unica possibilità

vera e genuina, originale, di operare quell'arte, con la quale l'uomo possa rialzarsi alle sue alte frontiere. Accanto al gusto per il primitivo sarebbe interessante, come cercheremo di proporre nella terza parte, elaborare il legame tra questa concezione di Chateaubriand del ruolo del cristianesimo, anche in senso di unica fonte della creatività artistica, e il modo in cui lo stesso cristianesimo si inserisce nella narrativa deleddiana.

Il legame dichiarato della D. con Chateaubriand- che vediamo come una traccia interessantissima della dinamica nascosta della sua religiosità cristiana - e che interpreteremo anche alla luce dell'influsso russo, che nella mistione col panorama sardo assume delle caratteristiche assolutamente precipue ed irripetibili - svelerebbe allora una Deledda diversa da quella identificata dalle correnti precedenti, una Deledda, in questo caso, che si volgerebbe ancora più indietro rispetto al verismo e al naturalismo francese, ma che farebbe di questo retrocedere nella letteratura una novità con la quale si apre tutta “originale” al Novecento, tinta dei suoi colori unici. In questa sua apprezzabile tensione tra clima romantico ed esistenziale trova le origini, a nostro giudizio, una tra le classiche difficoltà che emergono nelle diatribe critiche; ma, come iniziamo a capire, la sua originalità continua a sfuggire alle prese di una direttrice di influenze chiara e i suoi influssi risultano ancora tanto pesanti quanto immediati, leggeri e rielaborati all'interno di una sua autenticità narrativa tutta autoctona:

La sua prima formazione è, quindi, indubbiamente arretrata rispetto alla cultura dei suoi tempi; e il suo romanticismo istintivo venne certamente alimentato da narratori tardo-romantici come De Amicis, Hugo, i grandi russi da Tolstoj a Gorki. […]. Evidentemente l'esperienza verista del Verga fu presente e bene accolta nella sua opera, se è vero che la stessa D. in una lettera al Bessi del 20 Maggio 1907 (Convegno 1946) scriveva: “Han detto che io imitavo in qualche modo il Verga,

del quale conosco solo due o tre cose, tanto diverse dalle mie, e han tirato fuori autori tedeschi, francesi, inglesi, che io non conosco affatto. Dei russi non si parli! Io ho letto i romanzi russi solo dopo l'insistente paragone che i critici ne facevano”. È chiaro che essa ammette, sia pura indirettamente, l'influsso del Verga e dei russi, almeno in un secondo momento, sia pure dopo l'indicazione dei critici145.

A nostro giudizio, potremmo prendere la linea più estrema e affascinante provando a descrivere, alla luce di questi rapporti, una Deledda piuttosto “antimoderna”, così come per Compagnon era tale Chateaubriand. «Gli antimoderni sono dei moderni in libertà146». Uno dei caratteri originali individuati da Compagnon per i suoi

'antimoderni', inoltre - tema su cui torneremo più avanti -, verterebbe proprio sul riferimento fondamentale e costante di questi autori riguardo al peccato originale.

È chiaro che per aprire definitivamente il quadro deleddiano alla completezza delle sue tinte, come abbiamo accennato, oltre al verismo e al romanticismo francese, si è costretti infine ad affrontare quella dimensione più russa della scrittrice, la più cara al Momigliano e certo una delle sue più affascinanti:

Nella D. oltre alla lezione verista è presente anche la lezione dei grandi romanzieri russi, da Dostoevskij a Tolstoj, e, quel che più conta, una maggior fedeltà alla radice romantica della sua ispirazione. Ma diversamente dai russi, mancò alla D. la chiarezza e concretezza razionale con cui quelli analizzano ed esplorano l'anima umana nei suoi dilemmi e nei suoi drammi interiori. La sua poesia rimane tutt'al più nell'ambito del dramma morale, in quanto il senso del peccato e del riscatto investe soltanto la coscienza, senza mai diventare anche travaglio dell'intelletto.

145 G. GIACALONE, Ritratto critico di Grazia Deledda, op. cit., p.8

146 Cfr, A. COMPAGNON, Gli antimoderni, da Joseph De Maistre a Roland Barthes, Vicenza, Neri Pozza Editore,

Perciò sostanzialmente si effonde quasi sempre in toni lirici ed elegiaci. Perciò gli stessi paesaggi sardi, i personaggi, pur legati alle tradizioni sarde fino all'ossessione, hanno sempre un'aria lontana di leggenda e di irrealtà147.

Se i modi veristi e naturalisti si trovano - e sono evidenti - è ancora più manifesta nella sua scrittura, non solo per stile e ambiente, ma per un quid che va a intaccare e modificare la sostanza della sua scrittura, per temi e per motivi, una fortissima influenza degli illustri romanzieri russi. Questa influenza emerge soprattutto attraverso l'immersione nel costante e continuo sottofondo che attua la dinamica morale di cui è intrisa in ogni parte e in ogni luogo la sua scrittura.

L'eredità diretta di Tolstoj e Dostoevskij si rende in maniera eminente nei passi in cui assistiamo quasi alla descrizione di un Dio concepito immanente, quasi identificato con una coscienza che parla in noi e ci redime. Questi influssi probabilmente andranno a coincidere con la fase matura della D., quella della chiarificazione del problema morale, dell'eterno ed insoluto conflitto tra bene e male nell'anima umana, che si sostanzierà in un senso tutto romantico-cristiano dell'immanenza del divino.

Il cristianesimo glorioso ed epico del Chateaubriand, che era il motivo ideale per lo scarto di una nuova letteratura, rimestato nel pessimismo scientifico di un verismo 'capovolto', confluisce dunque nel Novecento deleddiano (come si vedrà soprattutto nelle opere dalla 'Via del male' in poi) attraverso la particolare lente dei russi, caricandosi così della gravità di una religiosità vissuta più che come epica della gloria come possente drammaticità esistenziale di un uomo novecentesco.

Con quella incerta e istintiva concezione biblica del Dio implacabile e punitore, che trascendeva ogni nostra capacità, e le aveva fatto accettare in parte le

concezioni fatalistiche e pessimistiche dei naturalisti, ora si è ridimensionata in una visione immanentistica e romantica del cristianesimo degli scrittori russi148.

Come tutte le influenze che abbiamo visto, anche in questo caso non si può parlare di una fonte, sia pur nel senso positivo del termine, quanto piuttosto di una impressione fondamentale, che lascia un residuo destinato a divenire un carattere proprio nell'officina creativa della scrittrice; per questo si è giustamente parlato dei russi perlopiù come di suoi maestri 'naturali':

La Deledda giovanissima, deve aver conosciuto e ammirato i grandi scrittori russi: già nel Tesoro, che è del '97, cita Tarass Bulba di Gogol; la novella Per riflesso, compresa nei Giuochi della vita, del 1905, è tutto un confessato ricalco di Delitto e castigo. L'ammirazione dev'essere nata sopra tutto dal fatto che quei Russi descrivevano un popolo, o, meglio, una classe russa primitiva, come i Sardi fra i quali essa era nata. I Russi devono essere stati i suoi naturali maestri: “naturali”, perché non credo che la Deledda abbia avuto coscienza dell'effetto di rivelatori delle sue attitudini che essi facevano sulla sua fantasia149.

Nella Deledda, come vedremo con più precisione, si constata proprio questa particolare densità di religiosità opaca e resistente che molti - tra cui il Momigliano con noi - annotano e pongono come il centro preciso della sua comprensione del reale e della sua forza narrativa, reperendo altresì nelle scaturigini di questa identità (personale e letteraria) il più grande influsso della narrativa russa:

Siamo d'accordo, pertanto, con il Momigliano, il quale afferma che nella Deledda

148 Ivi, p. 79-80

“c'è un fondo religioso chiaro... essa è soprattutto un grande poeta del travaglio morale”. Ed ecco perché l'accostamento ai grandi scrittori russi, soprattutto al Dostoevskij, è giusto e coerente: la Deledda ha studiato l'origine e le manifestazione del peccato150.

Se la Deledda certamente legge il Manzoni, lettura di cui conserviamo delle testimonianze, è palese che la sua visione religiosa non si costringa massimamente alla sua lezione 'italiana', quanto più risulta necessariamente da interpretare con queste lenti extra-italiane; motivo per cui, inoltre, si può veramente iniziare a parlare, per la sua, di arte 'europea':

L'arte della Deledda è modernissima, pur nella ristrettezza e insularità delle sue esperienze; e noi ci dibattiamo ancora nel secolare dualismo tra forma e contenuto, quando vorremo dispregiare il contenuto “provinciale” per esaltare il contenuto “europeo” o “metafisico” di uno scrittore. Quello della Deledda è un mondo barbaro elementare e rustico, psicologicamente remoto, se volete, dalle nostre esperienza intellettuali, ma sentito non come poteva sentirlo un “provinciale” dei tempi del Manzoni, ma come può sentirlo uno spirito moderno che sia passato attraverso la posteriore esperienza del realismo nostrano e del romanticismo religioso dei russi. E nella Deledda noi vediamo precisamente l'austera erede e discepola, pur nella modestia delle sue forme femminile, degli insegnamenti del Verga e dei Dostoevskij; e, per tal via, anche la sua arte provinciale è, a suo modo, arte europea151.

Si intravvede, ormai, come la grandezza della Deledda, per questo avvicinata ai

150 L. SORU, Grazia Deledda tra fatalismo e religione, in «Frontiera», vol. I, pp. 246-248, 1968

151 L. RUSSO, Grazia Deledda, in Id., I narratori, Principato, Milano-Messina 1951, pp.189-192, qui citato

russi, stia proprio nella sua capacita di «ritrarre la potenza trascinante del peccato