• Non ci sono risultati.

Teologia deleddiana: senso di Dio

Possiamo parlare di teologia deleddiana non nel senso di una vera e propria riflessione sull'ontologia divina, quanto piuttosto di un vero e proprio affondo sul mistero dell'uomo di fronte al paradosso di Dio. In questo senso più che una teologia della Rivelazione siamo davanti ad un senso di Dio che emerge a partire dalla lettura dei diversi dati antropologici. Anzi, meglio, l'antropologia deleddiana si chiarisce e si completa solo di fronte al problema della teologia, in quanto l'anima umana, irriducibile al dato oggettivo, apre sempre la realtà del proprio essere ad un orizzonte di meta-realtà che chiede il paragone col problema di Dio. Più che il problema di Dio e della sua realtà in sé, o al modo di Dio di rivelarsi all'uomo, alla D. pare interessare in maniera cogente il mistero dell'uomo in rapporto con Dio, con una particolarissima attrattiva verso la tangibilità del male. È abbastanza evidente, a questo punto, che ci troviamo davanti un'espressione di un certo tipo di religiosità - intesa come rapporto dell'uomo col proprio mistero di fronte al paradigma divino – certamente originale. Chiaramente lo svolgimento di questo carattere va anche inteso dentro la direzione accentuatamente caratterizzata in senso di ambiente sociale e di paesaggio (folckloristica). Ma dietro questa dimensione cova un evidente senso religioso più profondo, interiore, nel senso coscienziale ma anche sostanziale, umano.

Generalmente la religiosità dei personaggi deleddiani si manifesta in una devozione prevalentemente esteriore, cioè nella osservanza meticolosa di tutte le pratiche religiose, che però non corrisponde sempre a un profondo sentimento religioso248.

Vediamo come questa esteriorità oltretutto faccia emergere spesso una divisione dell'uomo per il quale il rispetto esteriore-sociale delle regole comunemente intese della religio non corrisponde quasi mai ad un atteggiamento di vita cristiano:

Per taluni, però, l'osservanza delle pratiche religiose è divenuta in tal modo un'abitudine che vi si attengono ancora quando il loro tenore di vita è perfettamente incompatibile con tali pratiche. Ubriacatosi alla bettola, alcuni uomini vanno in casa d'un loro compagno a guardare la processione dell'Assunta (naufraghi in Porto). Aspettando fanno dei cattivi scherzi, ma all'arrivo della processione si tolgono tutti i l berretto249.

Spesso, come per Bellia nel Dio dei viventi, il sentimento di subire una ingiustizia si dirige piuttosto verso una aperta ribellione a Dio. Questo senso di ingiustizia, connesso come abbiamo visto con l'inesorabilità del peccato e delle sue conseguenze sulla vita, porta addirittura alcuni personaggi, in un movimento antitetico rispetto alla più ordinaria scelta espiatoria, a negare l'esistenza di Dio.

Hai provato cosa sia... il non credere più in Dio o il crederlo ingiusto e odiarlo perché ti ha aperto tute le vie e poi te le ha chiuse tutte ad una ad una?250

Ne 'Il ritorno del figlio', alla morte del giovane, i genitori provano un sentimento di odio per i responsabili della morte del fanciullo e questo odio si tramuta in ira esplicita contro il Dio che ha permesso una tale iniquità. Così nell'Edera sembra impossibile ad Annesa che possa esistere un Dio che permetta tante cose orribili nel mondo.

dell'università di Basilea su proposta del Dott. A. Janner e Dott. W. v. Wartburg, S.A. Arti Grafiche già Veladini; Lugano, 1947, p. 132

249 E. HAURI, Fato e religiosità nell'opera di Grazia Deledda,op. cit., p. 134

Perché questo Dio ci ha creati tutti per farci soffrire, perché ci fa continuamente soverchiare dal male? (Cfr La fuga in Egitto; Sino al confine).

La maggior parte dei personaggi, comunque, non dubita di Dio, vista come unica reale possibilità per dare ragione dello stato delle cose, anche se la domanda sull'esistenza del male e della sofferenza rimane sempre aperta. Ma di fronte a questa domanda non ci sono risposte totali, se non forse solo una semplice presa d'atto di una realtà estremamente dogmatica: «i voleri di Dio sono imperscrutabili: Dio solo sa quello che fa e noi non siamo in grado né di capire né di giudicare i suoi fini251».

Questa è la concezione comune ai più: Egli è il nostro padrone e come tale non è obbligato a dar schiarimenti ai suoi servi né a fare tutto ciò che gli domandiamo, altrimenti sarebbe come un padre che accondiscende a tutti i capricci dei suoi figli (Cfr Sino al confine,; Il nostro padrone).

I personaggi deleddiani perciò rifiutano la bestemmia, come il contadino non maledice l'uragano che devasta il suo campo (Cfr Sino al confine). Per cui da una parte troviamo un Dio che autorizza il male, permette che gli astri s'incontrino nel loro corso, che i bastimenti s'investano e affondino con migliaia di creature innocenti, eppure dall'altra Dio è «sempre grande nei suoi occulti volere252»(Cfr Il tesoro; La fuga

in Egitto).

Nell'opera di D. troviamo diversi personaggi «la cui pacata serenità contrasta spiccatamente con la ribelle lotta dei protagonisti: oppure miti vecchi i quali, dopo una lunga vita di errori e di ribellione, hanno finalmente riconosciuto la mano di Dio sopra di loro e si rimettono quindi interamente a Lui253».

Per di più l'opposizione alla scelta divina, per quanto il male possa agire

251 E. HAURI, Fato e religiosità nell'opera di Grazia Deledda,op. cit., p. 134

252 Ivi, p. 146 253 Ivi, p. 134

implacabile, è intesa massimamente come peccato (Cfr Canne al vento), tanto più che Dio, paragone obbligato e sempre presente nelle situazioni precarie, ha lasciato persino, imperscrutabilmente, che il suo stesso Figlio soffrisse.

Jorgi, il povero paralitico non riesce a capire perché Dio lo colpisca così duramente, lui innocente. Ma il prete lo rimprovera: chiunque, pur essendo calunniato e perseguitato, si ribella contro quel volere divino che ha fatto soffrire lo stesso Cristo, fa più male che se avesse realmente commesso il male di cui è incriminato254.

Insomma, attraverso questa concezione di Dio che emerge tra la realtà del male e l'imperscrutabilità divina possiamo intravedere, come nota Elena Hauri, una sorta di 'teleologia' della sofferenza dell'innocente:

Nessuno avrebbe miglior motivo di ribellarsi contro la propria sorte di chi è nato storpio o è affetto da un male incurabile. In Sino al confine c'è un povero nano sempre contento e allegro. A chi si meraviglia della sua serenità imperturbabile egli domanda sorridendo che cosa mai dovrebbe fare? Giacché Dio l'ha fatto così, egli deve contentarsi, come ardirebbe lui, povero mortale, di criticare Iddio? Anche la figlia cieca della fattucchiera Martina (Colombi e Sparvieri) si è umilmente rassegnata alla sua sorte. Quando le domandano perché mai sua madre le prepari qualche medicamento, ella risponde serenamente che contro il volere di Dio non esiste medicina ; «basta che in questo mondo ci sia la pace, la salute vera sarà nell'altro255.

254 Ivi, p. 146 255 Ivi, pp. 146-147

Se Dio permette la disgrazia, aiuta sempre se con piena fiducia ci si rivolge a Lui (Il dio dei viventi). E chi dispera di Dio, chi non si lascia guidare da una fiducia illimitata nell'aiuto del Signore, non è un buon cristiano (Naufraghi in porto). Anche nelle situazioni più disperate un rimedio, che emerge dalla saggezza popolare come ultimo scoglio per non accettare ontologicamente la possibilità del male come ultima parola sulla realtà, c'è sempre: rimettersi nelle mani di Dio e aspettare l'intervento della divina provvidenza (Naufraghi in porto, L'edera, L'argine).

La madre di prete Paulo si tormenta, incerta se ha o no il diritto di proibire al figlio di vedere ancora la donna che lo induce in tentazione. Ad un tratto si ricorda di essersi affidata a Dio già in altri frangenti, poiché Lui solo può risolvere i nostri problemi. A quel pensiero ella si rassegna come se avesse lei stessa risolto il suo problema. “e non lo risolveva appunto affidandosi a Dio?».

Neanche nelle ore più oscure della sua lunga espiazione il vecchio servo Efix che da giovane uccise il proprio padrone, non dispera mai «meglio pensare all'avvenire e sperare nell'aiuto di Dio».

Egli sa che le opere dell'uomo sono vane se Dio non le benedice. Fabbricato un argine per proteggere i campi, egli prega il Signore di rendere valido il suo lavoro «che cos'è un piccolo argine se dio non lo rende col suo aiuto, formidabile come una montagna?» e questo argine diventa poeticamente quasi un simbolo della sua opera di penitenza: Grazie alla sua devozione egli riesce a salvare le sue padrone prive di sostegno.

È evidente che si commette il male perché ci si è dimenticati di Dio, perché non si vive più secondo i suoi precetti (L'edera). La fede e il timor di Dio illuminano la vita e chi perde questa luce cade come quelli che non guardano ove passano (L'edera). Chi non tiene ai comandamenti di Dio è incapace di discernere il bene dal male ed erra ogni volta che fa di testa sua credendo alla propria sapienza e al proprio giudizio.

Sembra di essere immersi in un clima veterotestamentario: «Il timore di Dio è una scuola di sapienza, prima della gloria c’è l’umiltà256». Dio pesa le buone e le male

azioni meglio del come possono pesarle gli uomini, poiché il Signore non giudica soltanto secondo il male commesso, ma vede i cuori e le intenzioni (L'edera). Perfino Pedru Maria (Il nostro padrone) che da ragazzo ha ucciso il cattivo patrigno, non dispera di farsi perdonare da Dio, poiché egli solo sa i veri motivi del suo delitto. Il Signore “guarda attraverso le tenebre degli errori umani come le stelle guardano attraverso i rami della capanna» (Cfr anche Annalena Bilsini). Ancora:

È un fatto curioso che questi uomini fieri, incapaci di perdonare e sempre pronti a invocare Dio affinché egli confondo i loro nemici, contino, per sé stessi, con tanta certezza, sulla misericordia divina in un certo senso essi scompongono il concetto d'un Dio giusto e misericordioso alla volta, ammettendo, riguardo agli altri, solo il dio giustizieri, riguardo a sè stessi, anzitutto il Dio misericordioso[...]. più si rivolgono disperatamente a Dio quando si sentono incapaci di resistere ancora alla tentazione. “liberaci dal male o signore, liberaci dal male” questa è la preghiera variata in mille modi che ricorre attraverso tutti i romanzi di Grazia Deledda257.

Sempre l'effetto della confessione sacramentale immerge l'anima in una pace mistica e sovrumana. Dopo la confessione una specie di estasi avvolge Elias Portolu: si sente rinascere purificato come se fosse tornato bambino innocente, e davanti a sé vede “una vita bianca e pulita, uno sfondo nitido e sereno” (Cfr anche in Anime oneste; L'argine).

Ma tali esaltazioni sono sempre passeggere; sono momenti di elevazione dopo i quali l'anima ricade spesso in una abisso ancora più oscuro.

256 Proverbi 15,33: 257 Ivi, pp. 149-150

In D. troviamo pochi casi di suicidio, ma molto significativi per la nostra rilettura. Andrea tradito dalla fidanzata in 'Le colpe altrui', e Pia, ne 'L'argine' saranno suicidi per disperazione.

Il suicidio viene tacitamente condannato come debolezza e viltà, poiché la vera grandezza d'anima sta non nell'elevazione, ma nella accettazione del dolore e dell'espiazione. Appunto uccidendosi l'uomo diventa colpevole e si priva nello stesso tempo della possibilità di espiare il suo peccato poiché tutto si sconta in vita258

Il giudizio sul suicidio è chiaro, socialmente condannato e da allontanare in maniera chiara e assoluta.

In Sardegna c'è questo di buono: nessuno si suicida; ma c'è anche di male, che allorché qualcuno, caso rarissimo e quasi impossibile, si suicida, la folla carica di obbrobrio e di disprezzo la sua memoria, considerando azione vilissima e delittuosa il suicidio, senza ammettere le circostanze attenuanti... E il suo ricordo getta una sfumatura di disonore sulla sua famiglia, e il suo nome viene pronunziato a bassa voce e solo per estrema necessità259.

Troviamo però alcuni tentativi di suicidio falliti. Interessantissimo il caso del sordomuto (che richiama inevitabilmente certi tratti del famoso protagonista del muto di Gallura di Costa) de 'La bambina rubata' che pensa al suicidio diverse volte, la prima aggirandosi attorno alla casa della ragazza che ha violato. Il primo movimento

258 Ivi, pp. 149-150

suicida viene superato dal sentimento di umanità dato dalla conoscenza empirica del peccato. Egli comprende come d'ora innanzi la sua vita avrà un senso, uno scopo: quello di scontare, di espiare la sua colpa. Cerca poi di annegarsi; ma per quanto cerchi di affondare, l'istinto lo porta su: senza saperlo egli si dibatte disperatamente. Quando riprende coscienza si trova disteso sulla sabbia, e per prima reazione un senso di gioia lo invade tutto. E accorgendosi di aver soffocato la sua bambina, si dirige ancora verso il mare. Ma già all'avviarvisi egli sente che no, non può né vuole morire. La morte stessa della creatura lo aiuta a vivere: non dubita che Dio gli abbia ripreso la piccina non per vendetta, ma per misericordia. In quel momento egli si sente assolto e ribenedetto dal Signore e può quindi subire con animo imperturbabile il castigo inflittogli dagli uomini.

Questo istinto vitale legato alla conoscenza del peccato ha un carattere ripetuto in D., come vediamo anche in Anania che davanti al cadavere della madre, vedendo da vicino l'orrore della morte cercata per disperazione, si rivela ad un tratto la grandezza e il significato della vita. «Mentre in fondo egli ha sempre odiato la madre che lo aveva abbandonato oppure lo teneva incatenato a sé con un filo misterioso, in quel momento è sopraffatto da una tenerezza indicibile per l'infelice, la cui vita è stata errore e miseria260».

Questo istinto di vivere è connesso con la comunicazione di una gioia inspiegabile, misteriosa: la vita è bella per sé stessa, anche nella sua forma più immediata, più materiale. «Tutto è bello fuorché la morte» (Il ritorno del figlio). Tornando dall'operazione avvenuta in ospedale anche Maria Concezione, benché sappia di essere condannata ad una morte prematura, è contenta «di camminare, di respirare, di avere fame». E dopo essersi invano ribellata alla sua triste sorte, sente a tratti che per vivere

ci vuol così poco, «un alito, una buona parola, un odore di orto (Elias Portolu)».

Questo istinto di vivere con questa gioia drammatica si contrappone a quella vanità della vita che non conosce il peccato. È la vita nella noia il vero inferno, una vita senza peccato è una vita non umana, che non può accedere alle vette della gioia di una vita cosciente, per quanto in espiazione.

la noia! - La noia! - chi mai descrisse questo terribile male? chi mai provandolo non desiderò morire, quasi sentendosi oppresso dalla più immane delle sciagure? - Avete letto Victor Hugo? Vi ricordate ciò che dice in una delle pagine ardenti ed immortali dei "Miserabili?" "La noia è al base stessa del tutto. La disperazione sbadiglia. Volendo figurarsi qualche cosa di più terribile di un inferno dove si soffra, bisogna supporre un inferno che annoi! […]Il suo non era dolore, ma una specie di nausea, una noia immensa e terribile [...] Oramai la vita le pareva senza scopo261

E questa noia, che è inferno, è massimamente la solitudine dell'incomunicabilità apatica: «Stefano sentiva una inenarrabile tristezza di agonia in tutte le cose che vedeva, e con gli occhi socchiusi, con tutta la persona abbandonata al dormiveglia d'un sogno melanconico, si lasciava tuttavia andare a tenerezze, a desideri, a rimpianti infiniti. E sopratutto lo vinceva la sensazione della sua grande solitudine (La giustizia)».

Dopo queste descrizioni possiamo andare dunque al centro del nostro approfondimento del rapporto antropologico con Dio in D.:

In quali termini la Deledda vede il rapporto tra l'uomo e Dio. In sostanza: i

personaggi deleddiani credono in Dio? Si e no. La loro è generalmente una religione ingenua e primitiva, che si compone di diversi ingredienti; è, cioè fatta nello stesso tempo di fede autentica, di molta superstizione e di un abbondante dose si fatalismo., tanto è vero che Dio viene spesso identificato con il destino. A nostro avviso, si deve dire che i personaggi deleddiani credono più in un Dio immanente che in un Dio trascendente: cioè, Dio è visto come un essere superiore che punisce “su questa terra” il male commesso, spingendo inesorabilmente il peccatore a provare rimorso edad espiare così “in questa vita” la colpa di cui si è macchiato. Ma in questa immanenza crediamo di scorgere un sottofondo di trascendenza, perché l'uomo-peccatore, attanagliato dal rimorso, tende immancabilmente all'”espiazione”. E che cosa è l'espiazione per l'uomo se non una purificazione, un mondarsi dal peccato per risorgere, per trascendere l'umano ed esaltare il divino che è in lui?262

Nell'analisi del rapporto dei personaggi deleddiani con Dio emerge come orizzonte fondamentale dell'antropologia, come rapporto col centro unitario della persona, la coscienza. Il nucleo dell'uomo, da cui si dipanano tutti i rapporti e tutte le scelte, in D. è proprio la coscienza.

Questa, all'interno del processo vitale che porta dalla colpa alla presa d'atto del peccato all'espiazione, bruciate tutte le passioni e i meccanismi sociali, rimane il criterio ultimo di giudizio e di consapevolezza, e anche l'unica speranza di movimento concreto, l'unico motore rispetto all'impossibilità dell'azione originale del peccato: «Bisogna fermarci dove ci siamo smarriti, e solo giocare con le illusioni che passano, aspettando che il nostro unico padrone, la nostra coscienza, venga a riprenderci». È chiaro che la speranza di cambiamento, di metanoia, è riposta non tanto in un movimento sociale, né tantomeno in uno stacco intellettuale, tutt'altro: «C'è un

misterioso potere che ci guida, anche se noi cerchiamo di resistergli. Dio? Il destino? Chissà. Certo io... sento di dover la mia rassegnazione, e, diciamolo, la mia fierezza, a questa speranza in un aiuto che non viene dagli uomini. Io spero sempre in una giustizia superiore». Se l'unica speranza può venire da un aiuto che non viene dagli uomini, e questa speranza coincide con il fatto che il nostro padrone, nella coscienza, ci riprenda, dal di sopra della sua potenza, è evidente come la vita reale e concreta che la D. descrive, non è la vita, ancora, sociale, esteriore, che emerge nei suoi rapporti con gli altri uomini, quanto piuttosto quella vita intima, interiore, vera, sola, che quasi brucia qualsiasi esteriorità e la sola nel quale l'uomo può vivere il centro unitario del suo essere.

Basta vivere questa vita interna. Mi sembra di cominciare, sempre, e di poter raggiungere- giorno per giorno, gradino per gradino, pur faticosamente, pure lasciando brani di vita a ogni passo- la vetta. […] Ed è vero quello che Lei dice: il tempo, gli anni, i giorni non esistono se non per le vibrazioni della nostra vita interna: basta vivere questa vita interna: tutto quello che è di fuori non esiste.263

Insistere in questa interiorità, persistere e rimanervi è l'esperienza del cambiamento che dà una dimensione nuova all'uomo. Forse il percorso dell'espiazione è propriamente il passare da una vita esteriore, la cui dimensione è il peccato, dalla vita della carne, in senso paolino, alla dimensione interiore, esistenziale, essenziale.

Mai Cosima... aveva provato una malia simile a questa che l'avvolgeva in mezzo alla terra incolta, guardata solo da Dio. Invece di sentirsi piccola, e poiché era

263 G. DELEDDA, Lettere di Grazia Deledda a Marino Moretti (1913-1923), Padova, Rabellato Editore, 1959, pp.

impotente a volare, le parve di essere alta, alta fino a toccare con la fronte la stella della sera; eppure in quel momento dimenticava tutte le sue ambizioni, i suoi vani sogni, la sua attesa di avvenimenti straordinari. La vita era bella così, anche fra gli umili steli nati da sé, fra le cose create da Dio per la gioia del cuore che è vicino a Lui come il cuore del bambino a quello della madre: ed ella ne ebbe la prima