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In conclusione, per iniziare, un'altra prospettiva

Al termine della nostra breve presentazione delle più interessanti influenze deleddiane e dei suoi tratti precipui in relazione alle possibili fonti, dobbiamo concludere con la presa d'atto di come tutto ciò che la Deledda ha assimilato dalla letteratura precedente e coeva sia stato sempre da lei reinterpretato alla luce di questa sua originalità autoctona e “vergine”. Non si tratta, alfine, che ammettere come il carattere più inedito della sua scrittura originale e primitiva, il suo modo di scrivere, così come la sua maniera di leggere gli altri autori, sia più un fatto vissuto, esistenziale ed empirico, che supera la cognizione intellettuale di fabbricazioni letterarie, traducendosi intelligentemente in scrittura vera e propria. Emilio Cecchi così sintetizzava: «Le sue predilette frequentazioni della Bibbia, di Omero, dei romanzieri russi, del Manzoni e del Verga, stanno nella sua esperienza più come un fatto vissuto che come un fatto letterario»160; un fatto vissuto, sempre attinto dal vero, quasi a

soddisfare questa sua esigente natura autentica.

A riguardo dell'ispirazione per il suo primo romanzo sardo così scrive in Cosima:

Fra un segno e l'altro del registro i clienti del frantoio le raccontavano i loro guai, i loro drammi: qualcuno la pregava di scrivergli una lettera o una supplica: così le venne lo spunto per un nuovo romanzo; attinto dal vero: attinto come la pasta nera delle olive dalla vasca del frantoio, che si mutava in olio, in balsamo, in luce.

Così diceva dei suoi anti-eroi: «La mia fortuna è questa: mi vedo sorgere dinanzi il personaggio già bello e formato e, quale lo vedo, tale lo lascio parlare e agire. Io non prendo mai il suo posto161».

160 E.CECCHI , Storia della letteratura italiana, Il Novecento, vol. IX, Milano, Garzanti, 1969.

Se è vero che «il suo scopo era quello di fare un romanzo che avrebbe copiato la realtà, il che rappresenta la caratteristica fondamentale del romanzo verista162»,

qualcosa del suo modo, come abbiamo potuto vedere, col verismo proprio non torna. Cos'è dunque questo scarto, questo quid che ultimamente sfugge alle regole veriste? Ella ci parla, a proposito, di un suo segreto:

Quando cominciai a scrivere, non usavo la materia che avevo a portata di mano? Se continuai a usare questo materiale per tutta la vita è perché so quel che ero quando mi formai, legata intimamente alla mia razza: e la mia anima era uguale ad essa; e quando frugai in fondo alle anime dei miei personaggi era nella mia anima che frugavo, e tutte le angustie che io ho raccontato in migliaia di pagine dei miei romanzi e che tanta pena vi hanno fatto, erano i miei dolori, le angosce, i dubbi, le lacrime che io piansi nella mia tragica adolescenza. Questo è il mio segreto!163

E continua:

Non cercai di descrivere le curiosità pittoresche della mia gente, né la superficie dei costumi, dei monili e degli ambienti, ma l'umanità profonda che s'incontra in ogni creatura umana, che ama, che odia, che spera e si dispera, che vince e che perde, che cade e si pente, si solleva e torna a peccare, sempre sotto la oscura sensazione di colpa dalla quale mai arriva a liberarsi, conservando nascosto per tutta la vita, nel fondo del cuore il sentimento di una colpa involontaria e misteriosa degli antichi progenitori, di quelli che attirarono il dolore sulla terra164.

Ci pare di poter iniziare a dire che l'elemento più sfuggevole, in-incasellabile in una

162 DUBRAVEC LABAS DUBRAVKA, Grazia Deledda e la piccola avanguardia romana, op. cit., p.42

163 R. BRANCA, Il segreto di Grazia Deledda, Cagliari, Fossataro 1971, p.180

direzione di scuola, è proprio da cercare in questo suo segreto. Costretti alla sintesi potremo dire che la sua natura da poeta vergine e primitivo ha a che fare in fase originale e in ultima analisi con un qualcosa d'esistenziale, che supera il fatto letterario, che entra impetuosamente nel fondo di quella colpa involontaria e misteriosa, e che si identifica esplicitamente col concetto di peccato originale, con la caduta degli antichi progenitori.

Anche la Dolfi attribuiva «il successo di Deledda alla sua capacità di trascendere nonostante il suo presente regionalismo, le immediate coordinate spazio-temporali del suo mondo: 'Il dramma che dibattevano prescindeva dall'esistenza di una qualunque cultura […] per colpire un fondo lontano e identico di disperazione, passione, peccato'165». Certo, in primis il primitivo e il concreto ambiente, ma attraverso questo

un evidente trascendere attraverso l'esistenziale esperienza del male e l'indagine sulla medesima.

Mediante questo breve excursus critico possiamo affermare che ciò che genera lo scarto con un qualsivoglia suo accostamento nel panorama letterario è sicuramente un qualcosa che ha ultimamente a che fare con la sua religiosità morale, così diversa e quasi opposta a quella dei maggiori documenti veristi; così profondamente ed esistenzialmente lontana da quella dei naturalisti e della scuola positiva; così universale da bruciare qualsiasi regionalismo particolare; così fortemente radicata nella tragicità del reale da risultare quasi simbolica; così novecentesca da risultare quasi romantica. Insomma, emerge ormai con chiarezza che uno dei tratti precipui della sua scrittura, tali da far discostare la sua arte dalle consuete classificazioni letterarie, sia proprio da cercare nella sua religiosità, cioè nel profondo vaglio, che risulta religioso in quanto configurato quale rapporto esplicito col mistero, inteso come

165 SHARON WOOD, Rileggendo Grazia Deledda: nuovi spazi per luoghi antichi, in Id., Grazia Deledda, una

dato immanente e insieme trascendente, che scruta «l'umanità profonda che s'incontra in ogni creatura umana», che conserva «nascosto per tutta la vita, nel fondo del cuore il sentimento di una colpa involontaria e misteriosa degli antichi progenitori».

Allora la religiosità, così come la sua “Isola del primitivo”, non rappresenta in D. un tratto archiviabile per la sua presenza ripetuta quasi ossessivamente come monotonia né deve essere ridotta a un elemento accessorio. Da questa strada passa la nostra rilettura critica della Deledda.

Ci stanno a cuore, a questo punto, alcune piccole ma importanti note che possiamo leggere come conferme sull'ortodossia della nostra ipotesi scovate qua e là:

Solo accostandoci con religione ai capolavori possiamo tentare di migliorarci un poco, o almeno di elevarci e di respirare come sulle cime dalle quali, poi, purtroppo, bisogna ridiscendere[...]166.

Ella stessa dirà di sé: «Sono religiosa, sento l'arte come un dovere167». I due

momenti, verosimilmente, sono più vicini di quello che può apparire, andando a formare, con buona probabilità, un unico giudizio, che qui facciamo nostro. Sarebbe interessante riprendere le fila di questo suo discorso, che vede l'arte quasi come dovere morale scaturito dalla sua religiosità; ma forse questo solo un uomo profondamente religioso, cioè vivo, esistenzialmente aperto all'ultimo mistero della realtà può capirlo.

Tenteremo adesso quindi di accostarci alla sua narrativa con 'religione', per elevarci e per respirare sopra i suoi romanzi come su una cima dalla quale, purtroppo, poi occorrerà discendere, per vagliare e riflettere, con sempre in mente, però, chiara e liberante la visione della vetta, che non abbassa la sua altezza per quanto il cammino di

166 G. DELEDDA, Lettere di Grazia Deledda a Marino Moretti (1913-1923), Padova,Rabellato Editore, 1959,

p.29

Introduzione

Le ore passarono, il lume si spense; ma egli rimase seduto, immobile, al buio, aspettando l'alba. (Colombi e Sparvieri)

Dopo il nostro breve excursus critico è necessario ricordare un fatto di notevole importanza per chi, come noi, voglia immergersi nelle operazioni di giudizio: Grazia Deledda ha manifestato diverse volte un apparente disinteresse per le critiche ai suoi romanzi.

Leggo poco della critica. La critica non mi interessa gran che; anche quando è laudativa nei miei riguardi, mi fa più male che bene. Poi mi disorienta. Uno mi innalza alle stelle...; un altro mi tratta da mezza cretina. Come si fa allora ad orientarsi?168.

Questo esplicito rifiuto dell'autrice per la critica, seppur non può corrispondere nel nostro piano di interessi ad un rigetto totale della storia degli studi deleddiani, certamente fortifica la nostra volontà di rifare da noi, con uno sguardo sempre fisso alla storia della critica, il percorso, re-interrogandoci sulla natura e sui fondamenti e della sua arte.

Per ragionare adeguatamente sopra l'opera e il pensiero deleddiano si potrebbe prendere comunque spunto, prima di affrontare la sua scrittura dall'acuta notazione di L. Capuana a La via del male, proprio perché rappresenta uno dei pochissimi interventi

critici prontamente e benevolmente accolti169 dalla scrittrice stessa, anche se non senza

un certo interesse pratico:

[...] dal Fior di Sardegna alla Via del male il progresso è straordinario, e nessuno avrebbe potuto prognosticarlo dopo la lettura di quel primo lavoro. È già molto il veder persistere nella novella e nel romanzo regionale lei giovane e donna [...]. Questa persistenza indica un senso artistico molto sviluppato ed equilibrato, un concetto giusto dell’arte narrativa che, innanzi tutto, è forma, cioè creazione di persone vive, studio di caratteri e di sentimenti [...] risultato di osservazione; quanto dire studio e creazione di personaggi, nei quali il carattere e la passione prendono determinazioni particolari non adattabili a tutti i tempi e a tutti i luoghi... il lettore, chiuso il libro, conserva vivo il ricordo di quelle figure caratteristiche, di quei paesaggi grandiosi; e le impressioni sono così forti, che sembrano quasi immediate ... uguali.

[…] Qualcuno dirà; Ebbene, che ha voluto provare l’autrice con questa sua Via del male? Niente, rispondo io; ha tentato di metter fuori delle creature vive, e c’è riuscita. Non si è smarrita dietro un lavoro di analisi psicologica, artificiale; ma ha fatto sentire, pesare, agire, tutte quelle creature nel loro ambiente, proprio come fa la natura con le sue. Sotto quelle carni, sotto quei nervi ci sono anime che amano, soffrono, errano, scontano le loro colpe, fin le loro debolezze; c’è l’umanità, non astratta, ma reale, sostanziale; e dove c’è l’umanità c’è il pensiero, c’è il concetto: spetta al lettore cavarlo fuori. L’arte pensa a modo suo, creando forme; chi cerca di farla pensare altrimenti la snatura, non lo ripeteremo abbastanza170.

169 La Deledda infatti rispose alla critica del Capuana con la seguente lettera di ringraziamento allo scrittore: «A Lei, illustre Maestro, che per la grandezza appunto dell’Arte sua è stato l’unico, forse, ad interpretare il mio primo vero lavoro qual esso era nel mio intendimento, sono lieta di confidare oggi queste sincere righe [...]» G. Deledda, Lettera a Luigi Capuana, Nuoro 30 Marzo 1897, così riportata in A. BERNARDINI CAPUANA,

Ricordando Grazia Deledda, ne «Il Popolo di Sicilia», Catania 8 sett 1936.

Parrebbe che il Capuana, trovando concorde la Deledda stessa, abbia in qualche modo anticipato, cogliendo un aspetto ancora immaturo o in nuce della prima arte deleddiana - che sarebbe diventato la cifra caratterizzante della sua scrittura - quelle che sarebbero successivamente state le basi per la sintetica motivazione del conferimento del Nobel alla scrittrice nuorese per l'anno 1926:

Per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi.

La grandezza dell'arte deleddiana, individuata dal Capuana e confermata dal conferimento del Nobel, starebbe con evidenza immediata nell'aver dato luce, tramite l’intrecciarsi di alcuni elementi fondamentali, ad una letteratura che, trattando personaggi e ambientazioni determinate, è riuscita a parlare di tutti gli uomini e di tutti i luoghi; a dar vita, insomma, ad una umanità non astratta ma sostanziale, che, chiuso il libro, resta viva tra le mani. Con questo modus, tutto in bilico tra particolare e universale, la D. ha elevato quella che poteva essere relegata a letteratura semplicisticamente regionale alla dignità di arte europea e universale.

Ma nella certezza che questo giustissimo e alto riconoscimento della grandezza della sua scrittura possa essere universalmente adattabile a qualunque grande artista sia riuscito a imprimere un valido ricordo nei lettori, resta da capire cosa abbia effettivamente fatto in modo che un progetto letterario, un'ispirazione astratta, si sia poi tradotta, concretamente, in avvenimento ed evento artistico.

Può essere certamente d'aiuto, in quest'ottica, andare a leggere il modo in cui la scrittrice, nelle sue lettere, si presenta, e come, nel modo di scrivere, e nel modo di

Cosmopolitanismo) ed altri saggi di critica letteraria ed artistica,op. cit., p. 52. Il testo si trova così citato

essere scrittrice, lei stessa si intenda, si pensi e si attui.

Così la prima lettera che lei, giovanissima, invia all’editore Emilio Treves:

Forse il mio nome non le è del tutto ignoto... ad ogni modo presentandomi a lei con molta fiducia, le dirò chi sono: una fanciulla, posso anche dire un’artista sarda, piena di molta buona volontà, di molta fede e coraggio. Sono anche assai giovane, e forse perciò ho grandi sogni: ho anzi un sogno solo, grande, ed è di illustrare un paese sconosciuto che amo molto intensamente, la mia Sardegna171.

Tralasciando alcuni accenti di grande autostima che paiono emergere in lei come frutto di una precoce consapevolezza delle proprie capacità, che in alcuni punti paiono sfociare addirittura in apparente superbia, è manifesto che Grazia Deledda, sin da giovane, accarezzava un’idea già chiara riguardo la sua opera letteraria. Idea, questa, che viene da lei espressa più e più volte in altre lettere rivolte ai suoi maestri. Nel 1890 scrive a Maggiorino Ferraris:

Avrò fra poco vent’anni, a trenta voglio aver raggiunto il mio unico scopo radioso qual è quello di creare da me sola una letteratura completamente ed esclusivamente sarda172.

Sembrerebbe dunque chiaro, almeno in questo periodo, il suo ideale letterario. Il suo progetto giovanile di scrittrice si concentra nella volontà di «irradiare con un mite raggio la foschia ombrosa dei nostri boschi; narrare, intere, la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri, così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella

171 Lettera ora pubblicata in A. SCANO, Grazia Deledda, Versi e prose giovanili, Milano, Treves, 1938, p. 236.

172 G. DELEDDA, Lettera a Maggiorino Ferraris, 1890, il testo si trova pubblicato in: N. DE GIOVANNI, Come

sua fiera e primitiva ignoranza»173.

Le sue lettere giovanili, precedenti al periodo romano, fanno già emergere una delle cifre deleddiane, che è anche uno dei più dibattuti punti critici della sua narrativa, nonché uno dei primi che ci interessa chiarire - ovvero la prevalente ambientazione dei suoi romanzi in Sardegna. Potrà infatti sembrare evidente la facile conclusione che il progetto della scrittrice parta e si concluda nella scelta di una scrittura a vocazione regionale e nella convinzione di un patriottico riscatto sociale della propria terra. Ma risulta altrettanto evidente che il concedere troppa importanza all'ambientazione sarda e al riscatto sociale, il considerarli come unica causa o motivo fondante della sua arte probabilmente porterà a correre il rischio – peraltro, come abbiamo visto, rischio commesso da molti critici - di ridurre la letteratura deleddiana ad una tipologia particolare o di ridurla in un capitolo, seppur importante, sempre limitante, di letteratura regionale.

Registriamo che il suo «ideale è sollevare in alto il nome del mio paese, così mal conosciuto e denigrato al di là dei nostri malinconici mari, ne le terre civili[...]174», ma

a questo dato contrapponiamo subito un fatto in evidente contrasto, cioè la stroncatura avvenuta da parte di una linea critica originatasi proprio dalla sua terra che accusava la scrittrice di aver rappresentato un'Isola di una immoralità diffusa, come terra di un male dilagante e insanabile, con l'aggravante di non aver mai contrapposto a questa rappresentazione una parola di speranza o di denuncia limpida. Questa imputazione, evidentemente in antinomia con il suo intendimento artistico originario di dare credito alla volontà di riscatto della sua terra, può far emergere come la sua arte, probabilmente proprio per la sua vocazione universale, non si possa ridurre

173 G. DELEDDA, Lettera a Stanis Manca, il testo si trova pubblicato in G. DELEDDA, Amore lontano: lettere al

gigante biondo, 1891-1909, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 73.

174 G. DELEDDA, Lettera a Luigi Falchi, Nuoro, Ottobre 1891, il testo si trova pubblicato in: R. BRANCA, Il

semplicisticamente alla pur felice scelta dell'ambientazione o del tema isolano nel quale così poco si sono riconosciuti i conterranei suoi contemporanei. È paradigmatico in questo contesto il trattamento riservatole dai suoi concittadini, anche dal punto di vista religioso, che fa emergere come i suoi romanzi non ebbero in nessun modo, sull'isola, l'effetto 'sperato' di far sentire sollevato un popolo in disgrazia:

Quando traslarono le sue spoglie mortali dal Verano alla chiesetta della Solitudine, resa celebre dall'omonimo romanzo, gli anziani nuoresi di quel tempo, quei pochi che depositari dei suoi sentimenti religiosi, non ritennero degno che i resti mortali della loro concittadina fossero tumulati in una chiesa, anziché in un comune cimitero. Gridarono allo scandalo, come se il fatto costituisce una profanazione, non riconoscendo alla Deledda particolari meriti che ne autorizzassero la tumulazione in un luogo di devozione. Le vecchie bigotte, quelle più fanatiche ed ignoranti, non lesinarono gravi accenti verso chi ebbe quell'idea e ne caldeggiò la realizzazione. In segno di protesta, per un certo periodo di tempo, disertarono la chiesetta […]175.

e ancora:

[…] la borghesia nuorese la teneva all'indice; l'accusava di fanatismo, ma, soprattutto, la riteneva una ribelle che voleva capovolgere, sia pure con una brillante prosa, i canoni che reggevano i cardini della società di quel tempo e la consideravano, inoltre, un'eretica beffarda, per aver messo alla frusta quei falsi presupposti di fede religiosa e altrettanto quelle ipocrite beghine che nulla avevano in comune con la vera fede che avvicina l'uomo a Dio176.

175 A. GUNGUI, Cattolica Grazia Deledda?, in «Frontiera», vol. III, n. 11, p. 466, 1968.

176 A. GUNGUI, Grazia Deledda vista bene o male dai nuoresi d'altri tempi, in «Frontiera», vol.4, n.6, pp. 724-

Si capisce, dunque, che ciò che rese eminente il suo lavoro non può essere meramente o solamente riconducibile alla semplice analisi sociale della sua terra, che avrebbe avuto come esito un approdo fallimentare. È facile intuire come se l'intendimento più alto della Deledda fosse stato quello di sollevare il nome dei sardi avrebbe lei ben potuto scegliere temi epici migliori e più consoni, anche a partire dalle letterature già a lei pre-esistenti nel panorama isolano, rifacendosi per esempio ai canoni più amati di un Enrico Costa e di un Sebastiano Satta. E la sua letteratura, in questo caso, sarebbe stata piuttosto epica che drammatica, avremmo avuto a quel punto più eroi e meno abietti. Dunque, sperando di aver chiarito, pur brevemente, la motivazione che ci spinge a non ricercare immediatamente nella generica ambientazione sarda la chiave di volta per una lettura critica, e rimandando ai capitoli successivi l'analisi di questo e di altri topoi deleddiani, peraltro indispensabili per comprendere la sua opera - sempre però consapevoli della lezione di Nicola Tanda - riprendiamo quella che è la linea della nostra ricerca, ripartendo piuttosto da un altro punto di osservazione, più originale e apparentemente più inusuale, che prende le mosse da un'acuta osservazione di Luigi Soru:

Il problema fondamentale (problema che ancora i critici non hanno risolto) nell'arte della Deledda è quello del motivo religioso. Insistiamo nel chiamarlo fondamentale, perché il motivo religioso richiama necessariamente quello morale: e tutta l'opera della Deledda è impostata su una tesi etico-religiosa che investe non solo i personaggi, ma anche l'ambiente in cui la vicenda si svolge.[...]177

Soru non fa altro che riporre il problema critico su quello che già il Momigliano aveva individuato come caratteristica precipua e palese dei romanzi deleddiani e