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Naturalismo, verismo e l'operazione di trasposizione tra due sistemi letterar

Uno dei maggiori sostenitori dell'ipotesi naturalista in Deledda è risaputamente Giacinto Spagnoletti, il quale procede nella sua ipotesi principalmente dal fatto che la Deledda parli proprio di Sardegna e lo faccia col talento proprio dei veri scrittori: portare la realtà sul piano della fantasia69.

Ma, così «come la Deledda maggiore superò la influenza del verismo, così superò quella della scuola penale positiva: le sue letture rispondevano solo a curiosità e a scrupoli, e non intaccavano la sua natura vergine70». Questa sua natura 'vergine', sia a

livello di ambiente narrativo, sia sul piano di sistema di scrittura, in fondo, parrebbero proprio da identificarsi con quel quid inafferrabile, che abbiamo individuato all'origine del suo difficile rapporto con la critica e col suo vero artistico. Per Pancrazi- il quale altresì respinge l'ipotesi naturalista per Deledda a motivo del fatto che nelle sue opere non esiste un rispecchiamento totale della realtà- la critica italiana è stata ingiusta sulla scrittrice, proprio perché ella è nata ai margini della tradizione, perfino fuori da quella letteraria. Ma qualsiasi sua opera, nonostante le posizioni critiche, afferma il critico, è riconoscibile in ragione della sua inconfondibile singolarità e questo non solo per mere motivazioni esterne e per l'aspetto folcloristico che rende i suoi personaggi del tutto diversi. In realtà, la Sardegna della Deledda era sempre un rifugio fantastico della sua poesia, una creazione del suo sentimento e la Sardegna vera era soltanto lo schema di quell'altra regione poetica, che l'autrice nutriva in sé. Quivi risiede, fin dal principio, la

69 Cfr G. SPAGNOLETTI, Dal naturalismo regionale a Panzini, in Id., Romanzieri italiani del nostro secolo,

Edizioni Radio Italiana, Torino 1957, pp.11-17 70 A. MOMIGLIANO, Ultimi studi, op. cit., p. 90

sua portata più originale e rivoluzionaria: nel suo tratto tipico più fermo, meditativo e solitario71.

Oltretutto, se di pessimismo deleddiano- concetto legato a filo doppio con l'ipotesi naturalista- si può propriamente parlare, osserveremo come anche questo, qualora riscontri più o meno concretamente avere dei punti di contatto ipotetici o concreti con la scuola positiva e naturalista, verrà alfine superato.

La teoria della Deledda, come si constaterà allorché verrà analizzato nel particolare il modo narrativo della colpa e della espiazione, è ben diversa dalle teorie del Niceforo, secondo cui le tendenze criminali si sarebbero tramandate in Sardegna di padre in figlio come una specie di patrimonio ereditario: lo studioso perviene alla individuazione di una vera e propria «malattia storica del sangue», che conduce quasi geneticamente al delitto. Il nuorese verrà definito dallo studioso siciliano «zona delinquente da cui partono numerosi bacteri patogeni a portare nelle altre regioni sarde il sangue e la strage72».

Con l'unità nazionale e i cambiamenti storici e letterari che essa ha comportato, certamente «si diffondeva, anche in Italia, con la Weltanschaung del positivismo, un modo nuovo di analizzare, a fini gnoseologici, la realtà, espresso nel rifiuto della metafisica a favore di una teoria che si limitasse a scoprire le leggi dei vari fenomeni naturali e in queste riconoscesse l'unica verità scientificamente dimostrabile73».

Quanto riportato, se corrisponde alla contemporaneità della Deledda, non la tocca nell'intimo. Notiamo, infatti, che al cambio di ambiente di alcuni romanzi fuori dalla Sardegna non riflette una variazione sostanziale dei temi e della psicologia dei personaggi: «Potevano mutare il paesaggio, la condizione, l'ambiente, ma la sostanza

71 Cfr. P. PANCRAZI, I due tempi della Deledda, in Id., Scrittori d'oggi, Laterza, Bari, 1946, pp. 68-76

72 A. NICEFORO, La delinquenza in Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 1977, p. 198

restava la stessa. Tutto il contrario della legge del naturalismo, specialmente quella di Zola, secondo la quale le colpe, i vizi, i delitti si debbono spiegare con le condizioni dell'ambiente e con i principi dell'ereditarietà74». La direzione che prende il 'sistema'

colpa-espiazione in D. non va in una direzione univocamente intesa come scientifica, nel senso a lei contemporaneo, ma porta con sé un'ampia dimensione esistenziale, irriducibile ad una visione positiva della realtà.

Come poc'anzi rimarcato, superato il naturalismo e soprattutto le sue origini positivistiche, l'ipotesi critica alternativa e degna di menzione sulla Deledda insiste piuttosto sul suo rapporto letterario con il verismo. La legittimità di tale ipotesi è evidente soprattutto quando si guarda una sua peculiare maniera di scrivere, eminentemente desunta dalla realtà. Basterebbe leggere quanto ella stessa rivela in

Cosima, per ciò che riguarda l'ispirazione che la mosse a scrivere il suo primo

romanzo sardo, per comprendere una certa legittimità del paragone verista:

Fra un segno e l'altro del registro i clienti del frantoio le raccontavano i loro guai, i loro drammi: qualcuno la pregava di scrivergli una lettere o una supplica: così le venne lo spunto per un nuovo romanzo; attinto dal vero: attinto come la pasta nera delle olive dalla vasca del frantoio, che si mutava in olio, in balsamo, in luce75.

É evidente come «il suo scopo era quello di fare un romanzo che avrebbe copiato la realtà, il che rappresenta la caratteristica fondamentale del romanzo verista76». Se poi

pensiamo come il Dessì, in prima battuta, la accusasse di un verismo schematizzante, per il quale «la D. ci ha dato della Sardegna un’immagine stereotipata, indulgendo ai modi della cattiva letteratura, della incultura e spesso confondendo il verismo con la

74 BO CARLO, Grazia Deledda, oggi, op. cit., p.354

75 GRAZIA DELEDDA, Cosima, Nuoro, Ilisso, 2005

verità, senza mai sentire il bisogno di crearsi uno stile limpido, una lingua sua, come la pienezza e la forza della poesia in lei lasciavano sperare77», possiamo notare che,

inizialmente, sembrerebbe non esservi altra scelta che acconsentire all'ipotesi verista. Il Dessì, infatti, rifiutando la tesi decadente del De Michelis, spingeva la sua idea sulla Deledda verso un cattivo verismo, avverso ai veri temi decadenti, peraltro linguisticamente e stilisticamente rozzo. Certo, già il fatto che il Dessì stesso ci stupirà con un più tardo radicale cambio di posizione, tramite un insperato ritorno sopra questo carattere di irriducibilità della Deledda che abbiamo denunciato, ci fa comprendere come il suo possibile verismo abbia necessità di essere approfondito a partire dal suo giudizio: «Grazia Deledda è un pezzo di Sardegna fuori dal tempo e dalla cultura italiana, una Sardegna che ha un suo senso del tempo e dello spazio nel quale è difficile penetrare e che negli italiani ha sempre generato diffidenze e incomprensione78». Anche per il 'secondo' Dessì la Deledda è fuori dalla cultura

italiana. Ma torniamo al verismo deleddiano. Nicola Tanda, uno dei più importanti e intelligenti critici della Deledda – forse il più acuto dopo il Momigliano –, il cui giudizio ci piace pensare possa probabilmente essere all'origine del cambio di rotta del Dessì- per una interessante storia quasi pubblica di amicizia e collaborazione tra i due-, chiarisce:

La tesi della struttura narrativa della Deledda specificatamente dalla narrazione popolare e dalla fiaba sarda mi sembrano avrebbe potuto risolvere il problema di un tessuto narrativo poco omogeneo e dello stacco e divaricazione tra dialogo parlato e descrizione paesistica liricamente connotata che, specialmente nei primi romanzi, appariva non ascrivibile né alla cultura né al codice narrativo verista e

77 G. DESSÌ, così cit. in M. ONOFRI Altri italiani. Saggi sul Novecento,op. cit.

neppure alla cultura e al codice narrativo decadente79.

Secondo Tanda il punto di rottura col verismo sarebbe da cercare proprio nell'originazione dell'opera deleddiana, che starebbe altrove rispetto al verismo. Lo studioso80, uno dei più eminenti ed appassionati conoscitori di letteratura sarda, vuole

dimostrare come l’opera di Deledda si innesti e si possa intendere solo a partire dalla conoscenza di un codice culturale specifico, quello sardo, non classificabile entro i criteri applicabili alla generalità della letteratura italiana, all'interno del quale la Sardegna opera un mutamento letterario. Così la Sardegna «non è più un riferimento realistico e naturalistico, è intanto metafora, è già luogo dell’immaginario, uno spazio in cui collocare e rappresentare l’eterno dramma dell’esistere in senso mitico e non storico81», e al modo che questo codice ha, nella narrativa di D. di rapportarsi all'altro

codice, quello di inappartenenza, italiano.

Come nota la Dubravec82, Tanda ha preso spunto dalle riflessioni del De Saussure,

dalla nozione linguistica della lingua come codice e dall'idea che non si può parlare solo di una generica letteratura storica, senza che vi sia un accompagnamento della geografia della letteratura- come invece aveva fatto Dionisotti-, avendo in mente proprio la peculiarità geografica e socio-culturale della Sardegna. L'operazione letteraria compiuta dalla Deledda deve essere osservata, nel suo contesto storico- geografico, muovendo dal bilinguismo dell'autrice, perché accanto all'italiano, glossa nazionale, ella adopera altresì la lingua sarda, quella sua vera, di appartenenza e provenienza. In tal modo si spiega come Tanda avverta che l'autentico stacco dal verismo risiede proprio nel carattere orale del corredo letterario, ereditato dalla

79 N. TANDA, Letterature e lingue in Sardegna, Cagliari, EDES, Editrice democratica sarda, 1984 p. 91

80 Cfr. N. TANDA, Dal mito dell’isola all’isola del mito. Grazia Deledda e dintorni. Roma, Bulzoni, 1992, pp. 9-

70 e pp. 223-233. 81

Deledda, il suo fulcro ispirante: i racconti popolari e la fiaba sarda prima di tutto. Significativamente, la struttura narrativa dell'autrice promana dalla sua formazione all'interno del codice culturale, linguistico e narrativo propriamente sardo.

Il critico rimanda al romanzo Cosima quale chiave di lettura per l'intero opus deleddiano, in cui, attraverso le parole di Cosima/Grazia, la D. descrive non solo il dramma di una famiglia, bensì anche il dilemma di una civiltà che sembrava arcaica e lontana, ma contemporaneamente unificata nel suo tessuto culturale e sociale, perciò moralmente solida. Per merito della Deledda, come la Sicilia con Pirandello, Trieste con Svevo e la Liguria con Montale, anche la Sardegna acquista un suo preciso spazio e una sua ben definibile collocazione entro il contesto italiano, come pure europeo.

Il sistema culturale sardo, saldamente fondato sulla lingua sarda e sull’oralità, osserva Tanda, ha dato vita ad un vastissimo patrimonio letterario che, da quando si è esposto al confronto con altre culture e letterature, è stato «sempre almeno bilingue, se non trilingue a seconda della destinazione del testo e in funzione del fruitore, sardo, latino, catalano, castigliano, italiano83». Più approfonditamente, Tanda spiega come

«tale sistema letterario […] solo nell’Ottocento si orienta con decisione verso l’italiano. Ma anche nei confronti del sistema letterario italiano l’atteggiamento […] è duplice: tutto rivolto verso il sistema letterario esterno oppure, tutto rivolto verso l’interno. L’uso dell’italiano […] promosso dai Savoia mediante il potenziamento delle università sarde e quindi anche del foro, si afferma tardi, alla fine dell’Ottocento […]. La questione sarda viene posta in termini politici e sociali e molto poco in termini culturali84». Grazia Deledda, con la scelta di produrre una letteratura sarda, cerca di

riportare ad una altezza culturale extra-regionale il sistema letterario sardo, scrivendo in italiano; confronta così «la sua esperienza e la sua conoscenza della vita sarda con il

83 N.TANDA, Dal mito dell’isola all’isola del mito, op. cit., p. 36

patrimonio di esperienze codificate nelle altre culture85». Ella, parlante il sardo come

lingua materna, studia, con fatica, l’italiano e la sua letteratura86, per inserirsi, da

esterna, nelle cifre di quel contesto specifico, pur con l'idea di esserne una protagonista particolare, in quanto scrittrice sarda, rivolta dalla Sardegna verso il mondo.

Ora non faccio nulla. Cioè, studio soltanto e, secondo il suo consiglio, cerco di studiare la lingua, perché la fantasia non mi manca. E ho afferrato il Manzoni, il Boccaccio e il Tasso, e tanti altri classici che mi fanno sbadigliare e dormire. Dio mio! È inutile! Io non riuscirò mai ad avere il dono della buona lingua, ed è vano ogni sforzo della mia volontà. Scriverò sempre male, lo sento, perché l’abitudine di scrivere così come viene è radicata ormai nella mia povera penna.87

Ma è proprio nella difficoltà di affrontare una lingua estranea, dura a comprendersi, che emerge la caparbietà della scrittrice senza la quale non avremmo avuto i capolavori deleddiani:

Lentamente, una evoluzione spirituale succede entro di me e la mia percezione diventa più acuta e sottile. Vi sarete accorto che scrivo molto meglio di prima, certamente scrivo ancora male, ma vedrete col tempo! Oh! Se sapeste che superbi progetti sfiorano il mio pensiero, che idee luminose rischiarano l’orizzonte ancora lontano, lontanissimo della mia vita. […]. Ma supererò, voglio superare tutto e riuscirò a poco a poco, anche lasciando brandelli di esistenza, anche il sangue,

85 Ivi, p.39

86 Riguardo al personaggio autobiografico di Cosima, la Deledda ebbe a scrivere: «A dire il vero ella scriveva più in dialetto che in lingua».

87 Lettera di Grazia Deledda ad Antonio Scano, Nuoro 10 ottobre 1892. Cfr. G. DELEDDA, Versi e prose

anche le fibre, l’essenza dell’anima mia. Tra dieci anni udrete parlare di me88.

In questa direzione, il conferimento del Nobel può essere letto come il riconoscimento ufficiale del successo della sua operazione: ella ha portato a dignità di letteratura extra-regionale, nazionale, persino internazionale i suoi romanzi e con questi la Sardegna e l'idea letteraria di quest'isola, segnando così una traccia obbligatoria per i successivi scrittori autoctoni.

La Deledda, dunque, nella sua operazione di trasposizione letteraria del mondo sardo, inaugura una sorta di sincretismo tra fattori religiosi primitivi e magici ed elementi cristiani, avendo come sfondo una Sardegna, che è «divenuta metafora, uno spazio nel quale rappresentare il dramma dell’esistenza, nel quale riproporre, nel farsi individuale dell’esperienza, situazioni date in senso mitico89». A questo punto vediamo

come convergano i giudizi di Dessì con quelli di Tanda: «La Deledda scrittrice si identifica naturalisticamente con la Sardegna, non con una Sardegna idillica e turistica, ma con la Sardegna nuragica e pastorale in cui vive ancora la preistoria. Grazia Deledda è un pezzo di Sardegna fuori dal tempo e dalla cultura italiana, una Sardegna che ha un suo senso del tempo e dello spazio nel quale è difficile penetrare e che negli italiani ha sempre generato diffidenze e incomprensione90».

Nicola Tanda - e i suoi allievi dopo di lui - ha segnato sotto il profilo dell'analisi della narrativa deleddiana in prospettiva linguistica, filologica e di calibrazione critica, un riferimento solidissimo nella narrativa deleddiana, traccia indelebile da cui è impossibile, oggi, prescindere. La nostra idea critica deve indubbiamente molto alla chiarezza di questa impostazione, pur focalizzando la misura della ricerca in un luogo

88 Lettera di G. Deledda a Stanis Manca, Nuoro, 20 Dicembre 1893. In G. DELEDDA, Amore lontano: lettere al

gigante biondo, 1891-1909, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 106

89 N. TANDA, Dal mito dell’isola all’isola del mito. Del1edda e dintorni,op. cit, p. 42.

più preciso, quello religioso, il quale, tuttavia, senza i chiarimenti di Tanda e di Dino Manca sull'opera di trasposizione letteraria a partire dai codici linguistico-cultuali, non si reggerebbe autonomamente. Il contributo della linea di Tanda alla nostra indagine è basilare, in quanto, avendo lo studioso identificato il sincretismo culturale e linguistico e avendo chiarificato l'intento letterario di Deledda attraverso una lettura che da questa trasposizione parte, come origine e come fine, pone le premesse necessarie per riscontrare come nell'elemento religioso si riscontri precipuamente il culmine di questa operazione. Il dato religioso, peraltro, al di fuori della chiave della metafora deleddiana tandianamente intesa, risulterebbe illeggibile e astratto, relegato, come sarebbe, ad un che di folkloristico. È invece proprio grazie a questo intervento critico di Tanda che noi possiamo vedere come il culmine di quell'intento letterario di Deledda di parlare di tutti gli uomini e di tutti i luoghi, a partire dalla formulazione intrinseca dei due sistemi, coincida con quello che noi chiamiamo elemento religioso, essendo questo l'apice della indagine umana di Deledda.

Certo, se da una parte con Tanda possiamo intravvedere lo stacco della Deledda dal verismo nello studio della trasposizione letteraria della Sardegna, che la Deledda opera a cavallo tra un codice letterario di appartenenza e uno di inappartenenza, è altrettanto evidente che ci sono altri caratteri importanti, che emergono nel paragone tra la scuola verista e le opere della nostra.

Nota Giacalone come, nel momento in cui scrive la Deledda, vi sia un preciso contesto culturale letterario diviso in due alterne frontiere: «Da una parte era ancora vivo il successo della grande scuola verista e naturalista (Verga, Capuana) e dall'altra cominciava quell'erosione estetizzante-decadente (Pirandello, Svevo), che si affermerà fin quasi ad occultare il messaggio verista del Verga91». La Deledda si inserisce tra

questi due schieramenti in modo particolare: «Dove si iniziava la distruzione o la disgregazione del personaggio, la Deledda impostava la sua analisi narrativa proprio sul personaggio, arricchendo il più possibile la sua psicologia, mettendone a nudo le emozioni più recondite, i rimorsi più segreti e ineffabili. Là dove gli altri ricercavano effetti estetizzanti e celebrali, la D. rifuggiva da vuoti estetismi e da complicati ragionamenti92».

Il paragone sul versante pirandelliano è archiviabile in modo elementare grazie ad alcune constatabili evidenze:

I personaggi deleddiani non conoscono il senso dell'alienazione delle creature pirandelliane, non provano un senso di smarrimento per aver perduto ogni sostegno morale, ma lo squilibrio delle loro anime nasce dall'idea del peccato o dal delitto commesso che, pur sfuggendo alla giustizia degli uomini, trova il primo giustiziere nella coscienza di chi ha compiuto il male. Ma questo stesso smarrimento morale trova sempre il suo conforto nella fede che non illumina affatto le anime dei personaggi pirandelliani93.

Il raffronto verista, invece, necessità di più profondità ed argomentazione. Se al centro della lente verista troviamo la dissoluzione della società isolana e il fallimento della tradizione plurisecolare, l'osservazione di questo dramma sociale è ravvisabile nel suo sviluppo tra gli scrittori oggettivamente e soggettivamente in modi singolari e difformi.

Se il Verga, come egli stesso espone nelle sue linee teoriche, ha intenzione di raccontare in maniera distaccata la lotta degli ultimi per il proprio riscatto sociale, al pari di uno spettatore che non ha il diritto di giudicare, concentrandosi sulla lotta per il

92 Ibid.

progresso, per la “roba”, in una descrizione più sociale ed esteriore, nella Deledda, invece, «gli umili dei veristi si mutano in umiliati, la primitività, la barbarie, in ingenuità capace di trattare le ombre come cose vere, in fanciullesco abbandono alla fantasticheria, al sogno, al ricordo, nei quali e per i quali la vita si attenua94».

Se il verismo della scrittrice corrisponde generalmente alla prevalenza di un'accentuazione psicologica o di qualche altro aspetto tipico di tale corrente letteraria, l'adesione ai modi veristici della D., per Piromalli, è più che altro una manifestazione della pienezza della sua vitalità artistica95.

Per Deledda noi preferiamo parlare più che di verismo, dunque, di suoi modi veristi, o, ancora meglio di una forma di verismo che noi vediamo in lei 'capovolto'. Se prendiamo come punto di osservazione l'aspetto religioso - sul quale ci concentreremo in maniera precipua successivamente -, vediamo come nel Verga la religiosità rimanga sempre un dato sociale, che si insinua piuttosto nella dinamica del progresso, nella “roba”, al modo di una esteriorità. Nei veristi è facilmente riscontrabile l'assenza di quella luce provvidenziale del Dio manzoniano, cosicché sembra prevalere un cieco fato che, sebbene possa apparire simile per ambiente a quello che in un primo momento emerge dalle sponde deleddiane, ultimamente si distingue comunque per l'importanza che ha nell'esperienza dell'io scandagliato nel profondo dal vaglio della