• Non ci sono risultati.

Tra tragico classico e tragico cristiano

Possiamo fissare un punto fondamentale della narrativa deleddiana: essa è, essenzialmente, tragica:

Qualcosa dello spirito dell’antica tragedia greca circola nelle concezioni della Deledda. Si sente, anche in esse, la tendenza a porre, sopra le leggi e sopra lo stato, cioè al di sopra della vita umana consociata, una potenza più alta e misteriosa, quella del destino. [...] per altro, non basta, parlando dell’arte della Deledda, ricordare la cieca fatalità che presiede allo svolgersi della vita umana. Il mondo sardo deleddiano è assai più vivo ed energico di quello delle antiche tragedie183

Il punto centrale del nostro discorso si basa su quella dinamica individuabile nel percorso peccato/colpa- espiazione, una caratteristica riconducibile peraltro anche ad alcune cifre fondamentali della tragedia classica. In questo svolgimento noi abbiamo creduto oltretutto di trovare in Deledda un elemento cristiano. In qualche modo noi abbiamo l'ardire di trovare in questi dati quindi una unione possibile tra l'elemento cristiano e quello tragico. Prima di procedere oltre sarà allora necessario proporre un discorso sulle possibilità del tragico in senso cristiano. Partiamo dalle componenti essenziali del tragico classico:

«Aristotele definisce la tragedia, che ai suoi occhi è ben più che un genere letterario, come imitazione di vicende che suscitano pietà e terrore e inducono alla “catarsi” di tali sentimenti. Per Aristotele essenziale è il momento della

purificazione e quindi del trascendimento di un'esperienza che, per quanto dolorosa e carica di enigmi, non è fine a se stessa, tanto meno insidiata dall'irrazionale, perché al contrario è fonte di conoscenza e in quanto tale liberatrice.[...] Anassimandro per primo ha tematizzato un nesso che risulterà essenziale nel tragico: il nesso di colpa e destino. […] Destino è il fatto che il vivente debba la vita al vivente. Ciascuno deve qualcosa a tutti gli altri e quindi al Tutto. Deve molto se vive molto, deve poco se vive poco: secondo la misura del tempo che gli è assegnato.[...] L'espiazione del debito corrisponde ad una misura anonima, uguale per tutti, non alla responsabilità individuale: la “colpa” (amartia) altro non è che la colpa di essere nati. Perciò l'espiazione del debito che ciascuno ha nei confronti di tutti gli altri è espiazione di una colpa nei confronti del Tutto, che è l'infinito, l'indeterminato, il senza confini (apeiron). Ed ecco la colpa tragica: che è tale proprio perché non è imputabile ai singoli e alla loro libertà di scelta, ma grava su di loro come qualcosa di necessario , di fatale, appunto come un destino. […]. Da questo punto di vista il tragico rappresenta una rottura dell'equilibrio ontologico, una perturbazione all'interno dell'essere, che però viene ricomposta nel momento in cui il cerchio si chiude e l'equilibrio si ricompone in quella che i per i Greci è la perfetta rotondità dell'essere184»

Dunque il carattere capitale della tragedia può essere individuato in una colpa pre- sentita che grava sull'uomo a partire da una fatalità indomabile per la quale occorre uno svolgimento catartico che operi un riequilibrio nella frattura ontologica che la colpa- intesa come sottrazione all'essere- ha provocato nell'armonia ontologica dell'Essere.

È chiaro a tutti che questo riequilibrio riprodotto dalla catarsi nel cristianesimo non può avvenire in senso ontologico. Questa è la differenza essenziale tra la tragedia

classica e il cristianesimo e anche il suo punto di distanza massima. Per ora è bene notare come nella Deledda ciò che manca, rispetto al classico, sia proprio un vero momento catartico di ritorno all'ordine perfetto del sistema in cui è subentrato il caos; quindi lei con l'emergere di questo fattore si discosterebbe dallo schema del tragico classico, pur restando vivissimo un suo certo profumo tragico, tutto da approfondire.

Il Cristianesimo al posto della catarsi classica sostituisce il concetto di “redenzione”, allora è necessario chiedersi: «è compatibile la redenzione con il tragico? Secondo Hegel il tragico vuole la redenzione, la reclama, la pone per via negativa; ma là dove la redenzione diventa realtà, ossia con il cristianesimo, il tragico è tolto, è superato. Insomma il tragico prelude al cristianesimo, ma il cristianesimo con il suo avvento risospinge il tragico (non solo il tragico antico, ma anche il tragico moderno) nel passato185».

Se così fosse, cioè se la redenzione fosse ciò che supera, e quindi con essa risultasse antitetica, la tragedia, in tal caso l'esperienza del tragico sarebbe incompatibile con l'esperienza cristiana. Questa possibilità è particolarmente interessante perché andrebbe a rappresentare il punto di maggior discrimine negativo che abrogherebbe in toto le possibilità di un solido discorso intorno a un carattere di religiosità in Grazia Deledda. Di fronte alla sua opera infatti se per noi si apre la possibilità di una critica “religiosa”, questa possibilità nel momento di fare i conti con il discorso sul tragico deleddiano, che pure permane come dato eminente, si frantumerebbe totalmente nella direzione di una interpretazione prevalentemente nichilista che accorderebbe totalmente il carattere tragico deleddiano con la tesi dell'assoluta mancanza di alcuna possibilità di redenzione.

Ma, e noi propendiamo evidentemente in questa direzione, oppostamente alla

concezione di Hegel per cui il cristianesimo annullerebbe il tragico, «secondo Kierkegaard la redenzione è tragedia, anzi, “la più alta tragedia. La tragedia è nel cuore del cristianesimo- cristianesimo tragico, naturalmente186». Probabilmente il

tragico deleddiano vuole piuttosto questa opzione interpretativa moderna, tutta kierkegaardiana, peraltro più vicina al tempo e alla sensibilità della nostra autrice, in cui il massimo del tragico coinciderebbe con ciò che potrebbe essere peraltro sentito come massima antitesi del tragico stesso, ovvero la redenzione o le direttive ad essa rivolte.

Occorre, per comprendere meglio il discorso, snodarsi attraverso le somiglianze e le differenze tra antico e moderno, precisamente a partire dall'analisi dei concetti di amartia e di peccato originale:

La differenza è tutta nella concezione della “colpa tragica”, che per i Greci è l'amartia e per i cristiani è il peccato. Sia l'amartia sia il peccato (in quanto peccato che appartiene universalmente a tutti e quindi peccato originale), non dipendono dalla volontà del singolo, ma costituiscono un debito che tutti gli individui devono pagare avendolo contratto con la nascita. Perciò grecità e cristianesimo hanno un elemento in comune. A partire dal quale è possibile riconoscere quanto meno un'eredità tragica nel cristianesimo. Senonché il debito in questione viene diversamente espiato: nell'ambito del tragico greco il soggetto (finito) è in credito con l'Uno-tutto, nell'ambito del tragico cristiano lo stesso soggetto finito è in credito nei confronti di Dio. […] La differenza sta nel fatto che l'espiazione nel primo caso avviene in regime di necessità, e infatti è regolata da quella misura oggettiva che è il tempo, mentre nel secondo caso è frutto della libertà, tant'è vero che Dio concede gratuitamente il suo perdono al peccatore quando costui se ne

rende degno. Tocchiamo qui il punto essenziale. Il tragico greco prospetta il nesso di colpa e destino come qualcosa di necessario, di fatale. Potremmo dire: la colpa è il destino di tutti , il destino di tutti è di espiare con la morte la colpa di essere nati. […] Nel tragico greco la misura è tutto. Nessuna redenzione della finitezza, del male, della morte. Invece il tragico cristiano è basato sulla dismisura: quella che c'è non solo fra finito e infinito, ma fra colpa e redenzione. Redimere la colpa non significa semplicemente rimettere le cose a posto, ripristinare l'ordine perturbato, chiudere il cerchio. Al contrario si tratta di un atto di libertà: sia da parte di Dio sia da parte dell'uomo»187.

Insomma, la sostanziale differenza starebbe proprio in una concezione diversa dell'espiazione, una espiazione che porta alla catarsi nel classico, che riordina il caos, nel personaggio o nello spettatore; una espiazione della libertà nel cristianesimo, che non riporta l'ordine nel caos, quanto piuttosto apre ad una dimensione nuova. Cosa c'è di più tragico nell'uomo della libertà?

«La più alta tragedia di cui Kierkegaard invita a riflettere è non solo quella di Dio che si fa uomo […] ma anche quella dell'uomo che si fa Dio e da creatura assoggettata al destino qual è, diventa a suo modo creatore, almeno nel senso che per lui il destino cessa di essere un gravame, una soma da portare e di cui liberarsi morendo, e diventa, benché imposto da un decreto misterioso ex alto, la cosa più propria, quella di cui bisogna farsi carico totalmente, quella su cui si basa il principio responsabilità. Se nel mondo greco la colpa è il destino, con il cristianesimo la colpa diventa la responsabilità per il destino. Essere in colpa […] per tutto ciò che accade- questo è l'essenza del tragico cristiano188»

187 Ivi, pp.48-49 188 Ivi, pp. 49-50

Si può ragionare, inoltre, sulla differenza fondamentale tra la classica religio, greca e/o romana, e la sostanza cristiana dell'espiazione, termine che nella cultura cristiana arriva a determinarsi in modo peculiare. Se infatti il percorso classico si apriva a partire dalla colpa, intesa al modo di infrazione della legge o dell'ordine prestabilito, a questa immediatamente succedeva un movimento che possiamo chiamare, per quanto riguarda la religio classica, sacrificio (in diverse accezioni), che attraverso un processo catartico riportava il tutto all'ordine della situazione iniziale. Nel cristianesimo questo meccanismo, solo apparentemente simile, viene profondamente modificato. Se all'inizio sta sempre una colpa, anche se non totalmente riducibile all'infrazione dell'ordine, quanto piuttosto comprensibile nell'orizzonte della frattura di un rapporto con Dio attraverso un tentativo di sostituzione idolatrico, l'espiazione o il sacrificio invece non si possono ricondurre alla catarsi in senso classico ma alla comprensione di un perdono innestato in un sacrificio già compiuto da Dio stesso nella Croce, che in qualche modo precede, succede, e supera l'espiazione umana in qualsiasi ordine temporale ed esistenziale. La redenzione in questo senso, attraverso il mutato senso della colpa in peccato e del sacrificio in espiazione, ha diverse dimensioni temporali, una eterna e una tutta umana, che supera il miracolo catartico in una dimensione che arriverebbe persino alla divinizzazione dell'uomo stesso nell'esperienza di con- sofferenza divina che lo rende consapevolmente figlio, e quindi perdonato e assunto pienamente nell'essere, condizione finale che supera infinitamente l'ordine iniziale con una conversione ontologica qualitativamente incalcolabile.

Avendo in mente la descrizione del percorso dei molti personaggi deleddiani, su cui ritorneremo, ci pare comunque proprio di vederli in questa condizione tragico-cristiana descritti al meglio della loro vita. Se per Elias, per Efix, per Annesa la colpa è pre- sentita atavicamente - gravando sulle loro spalle secondo una fatalità imprescindibile - l'espiazione è per loro una scelta, l'atto massimamente libero, forse l'unico atto,

inspiegabilmente, ma veramente loro, in cui si rendono responsabili di fronte a Dio e di fronte alla vita. In questa dimensione essi passano da personaggi del 'mondo' a protagonisti «e da nessuna parte come qui la follia cristiana umilia la sapienza greca». In questo senso elemento cristiano ed elemento tragico non sono da opporre, ma il significato del tragico è da cercarsi nella novità dell'elemento cristiano e il finale trascendentalmente aperto è sempre da intendersi in senso della tragica libertà aperta al perdono. L'unione di questi due elementi, tragedia e senso cristiano, in D. va assunta a partire proprio da questa rimodulazione, unica che permette un tentativo di comprensione umana del percorso altrimenti 'folle' di molti dei suoi personaggi.