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Apologie bandelliane: la morale e la questione della lingua

Capitolo I La fortuna della novella

III. Apologie bandelliane: la morale e la questione della lingua

Lo spostamento verso una strutturazione più rigorosa nel passaggio dal primo al secondo volume è sancito anche dalla frequenza delle dedicatorie programmatiche, la più nota delle quali è certamente quella a Emilio degli Emili (II.11), in cui vengono ripresi dei punti centrali della poetica dell’autore già esposti nell’introduzione della Prima parte, ovvero la giustificazione morale e la questione della lingua. La moralità delle Novelle è un punto essenziale: Bandello appartiene all’ordine dei predicatori e si preoccupa immediatamente di esplicitare i fini della raccolta, che seguono il classico precetto oraziano del giovamento mescolato al diletto39; tuttavia, già nella dedicatoria II.11 emerge il riferimento alla polemica suscitata dalle novelle – nel 1518 il frate era stato accusato di immoralità dall’arcidiacono Alessandro Gabbioneta – e la conseguente necessità di giustificare il proprio lavoro. L’autore risolve questo problema istituendo un dialogo a distanza con Boccaccio:

Dicono poi che non sono oneste. In questo io son con loro, se sanamente intenderanno questa onestà. Io non nego che non ce ne siano alcune che non solamente non sono oneste, ma dico e senza dubio confesso che sono disonestissime […]. Confesso io adunque molte de le mie novelle contener di questi e simili enormi e vituperosi peccati, secondo che gli uomini e le donne gli commettono; ma non confesso già che io meriti d’esser biasimato. Biasimar si deveno e mostrar col dito infame coloro che fanno questi errori, non chi gli scrive. Le novelle che da me scritte sono e che si scriveranno, sono e saranno scritte de la maniera che i narratori l’hanno raccontate. Affermo bene averle scritte e volerne de l’altre scrivere più modestamente che sia possibile, con parole oneste e non sporche né da far arrossire chi le sente o legge. Affermo anco che non si troverà che ’l vizio si lodi né che i buoni costumi e la vertù si condannino, anzi tutte le cose mal fatte sono biasimate e 37 Si veda CORTINI 2008: 126-127.

38 IVI: 135-136.

39 «affermo bene che per giovar altrui e dilettare le ho scritte». N, Ai candidi e umani lettori, prima

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l’opere vertuose si commendano e si lodano. […] io lascerò dire ciò che si vorranno questi così scropolosi che forse altra intenzione hanno di quella che ne le parole mostrano, sovenendomi di quello che una volta disse il piacevole e faceto Proto da Lucca al signor Prospero Colonna. Egli diceva che lo scriver le cose mal fatte non è male mentre non si lodino, e che ne la Sacra Scrittura sono adulterii descritti, incesti ed omicidii, come chiaramente si sa40.

Come ha sottolineato Elisabetta Menetti, l’autodifesa dell’autore è tutta condotta sulla scorta dell’Introduzione alla quarta giornata e sulla Conclusione del

Decameron, a partire dalla locuzione «confesso io adunque», fino al riferimento

biblico finale41. Il richiamo al modello sottolinea però una differenza di base tra le due opere: mentre Boccaccio professa la libertà di interpretazione del lettore, Bandello opta per una lettura guidata, offerta sia attraverso la sua stessa voce nelle lettere dedicatorie che tramite i narratori delle novelle. Il legame tra tradizione omiletica e novellistica è espresso con particolare forza nella dedica alla novella II.24, in cui l’autore afferma il valore pedagogico delle storie che sta raccogliendo:

porto ben ferma openione che descrivendo alcuni accidenti che ai mortali sovente sogliono avvenire e quelli consacrando a l’eternità, che sarebbe opera molto lodata e di non poco profitto a chiunque le cose descritte leggesse. […] Chi non sa medesimamente che colui che gli ha letti, quantunque volte quelli va tra sé rammentando, tanto si sente di dentro moversi, o a compassione se il caso n’è stato degno, od a lodar gli atti se ve ne sono meritevoli di lode, od a biasimargli se tali sono che di biasimo abbiano di bisogno? […] Da questo senza dubio ne nasce che l’uomo, se si vede d’un diffetto macchiato il quale senta dagli scrittori vituperare, con l’altrui lezione diventa a se stesso ottimo pedagogo e maestro, e di così fatta maniera se stesso corregge che, in tutto messa da parte la mala consuetudine che prima aveva d’andare ne l’operazioni sue morali di male in peggio, si sforza mettersi nel camino de la vertù, e tanto vi s’affatica che in poco di tempo egli si spoglia i tristi e cattivi costumi che aveva, e come il serpe ringiovinisce ne la buccia novella, così egli si rinuova ne la buona e costumata vita. Onde secondo che grandissimo piacere pigliava ne l’operar le vietate da la natura e da Dio disconcie e abominevoli opere, le comincia di modo aver in odio e biasimare che le aborre e fugge vie più forte che non fa l’agnello il lupo42.

40 N, II.11.

41 Per l’intera analisi della giustificazione morale delle Novelle sulla traccia del Decameron rimando

a MENETTI 2005: 15-23.

27 L’esortazione al lettore a divenire educatore di sé stesso è rinforzata dal richiamo alle formule dei sermoni, sia nel sottolineare il valore della compassione che nell’uso di immagini tipiche di quella tradizione43. Significativamente, l’autore si rivolge qui «a chiunque le cose scritte leggesse», dunque al pubblico delle

Novelle, non a Costanza Rangoni, dedicataria del racconto. Nelle lettere, infatti,

prevale il tema del diletto sia come omaggio all’ambientazione cortese che per una opportunità gerarchica: raramente il cortigiano Bandello può vestire i panni del consigliere nei confronti dei signori a cui indirizza i racconti, dunque l’istanza didattica viene portata avanti dai personaggi della brigata – in particolare quando il dittico mutua la forma del dialogo – nella conversazione cortese e si riflette nel rapporto più ampio tra l’autore e il lettore44. La forma del dittico bilancia due istanze che non si escludono a vicenda. Tuttavia, si può affermare che alle premesse didattiche del frate domenicano non sempre corrisponde un atteggiamento coerente da parte del cortigiano; questa ambiguità nel passaggio dal chiostro alla corte – per dirla ancora una volta con Elisabetta Menetti45 – costituisce una delle peculiarità delle Novelle.

# La questione della lingua, invece, avvicina ancora una volta l’opera di Bandello a quella di Castiglione nel suo rifiuto di omologarsi ai canoni del classicismo volgare imposti dalle Prose della volgar lingua. Il novelliere sottolinea la propria provenienza lombarda e la distanza dai modelli toscani fin dalla prefazione al primo volume, e torna poi sull’argomento in quella premessa al terzo, citando non a caso due delle tre corone:

Io non voglio dire come disse il gentile ed eloquentissimo Boccaccio, che queste mie novelle siano scritte in fiorentin volgare, perché direi manifesta bugia, non essendo io né fiorentino né toscano, ma lombardo. E se bene io non ho stile, ché il confesso, mi sono assicurato a scriver esse novelle, dandomi a credere che l’istoria e cotesta sorte di novelle possa dilettare in qualunque lingua ella sia scritta.

43 Per l’analisi del passo rimando ancora una volta a MENETTI 2005:22.

44 Sandra Carapezza riporta il paradigmatico esempio del dittico III.22: Bandello-scrittore apre la

dedicatoria con una sentenza gnomica, la cui dimostrazione viene però affidata al narratore proprio attraverso la novella che racconta, in questo modo. Si veda CARAPEZZA 2011: 86-94.

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Ora ci saranno forse di quelli che vorrebbero ch’io fosse, non so se mi dica, eloquente, o vie più di quello che io mi sia in aver scritte queste novelle; e diranno ch’io non ho imitato i buoni scrittori toscani. A questi dirò io, come mi sovviene altrove d’aver scritto, che io non sono toscano, né bene intendo la proprietà di quella lingua, anzi mi confesso lombardo, anticamente disceso da quelli ostrogoti […]. Se la lingua tosca mi fosse stata natia o apparata l’avessi, molto volentieri usata l’averei, perciò che conosco quella esser molto castigata e bella. Nondimeno, per quello che a me ne paia, il coltissimo ed inimitabile messer Francesco Petrarca, che fu toscano, ne le sue rime volgari non si truova aver usate due o tre voci pure toscane, perché tutti i suoi poemi sono contesti di parole italiane, communi per lo più a tutte le nazioni de l’Italia46

La dedica ai lettori della terza parte insiste sulla questione della provenienza, mentre l’epistola II.11 riprende quanto menzionato già nella prima prefazione, ovvero la superiorità della fabula sull’intreccio47:

Dicono per la prima che non avendo io stile non mi deveva metter a far questa fatica. Io rispondo loro che dicono il vero che io non ho stile, e lo conosco pur troppo. E per questo non faccio profession di prosatore. Ché se solamente quelli devessero scrivere che hanno buon stile, io porto ferma openione che molto pochi scrittori averemmo. Ma al mio proposito dico che ogni istoria, ancor che scritta fosse ne la più rozza e zotica lingua che si sia, sempre diletterà il suo lettore48.

Si tratta tanto di una chiara presa di posizione nel dibattito sulla purezza della lingua, quanto della volontà di segnare la distanza dal Decameron: come ha osservato Giuseppina Baldissone, l’affermazione di Bandello va a contraddire il principio di Madonna Oretta per cui una cattiva esposizione può rovinare una bellissima novella49. In realtà quella di Bandello è una lingua letteraria ricca di formule reiterate all’interno del testo, che nelle dedicatorie si mantiene «su un livello di decorosa semplicità e di raffinata eleganza, in cui par di avvertire […] il ritmo di nobili conversari»50, mentre in alcune novelle comiche si avvale del parlato

46 N, Ai candidi e umani lettori, prima parte; terza parte. 47 Cfr. BALDISSONE 1982:244.

48 N, II.11.

49 BALDISSONE 1982:244. 50 POZZI 1982:116.

29 popolare – significativa in questo senso è la celebre novella dell’«augel grifone» (II.2), ricca di metafore sessuali della tradizione comico-popolare.

Quanto emerge dall’analisi della struttura portante della prima edizione delle

Novelle è l’inscindibilità del binomio lettera-racconto: le novelle vanno lette alla

luce delle dedicatorie e viceversa, poiché è proprio nell’alternanza tra le due che Bandello fornisce non solo un elemento unificante all’interno della sua dis-ordinata raccolta – la rappresentazione della corte, l’autobiografismo, la costruzione del libro – ma anche preziose indicazioni sulla sua poetica, fondamentali per l’interpretazione dell’opera.

1.2«UNA MISTURA D’ACCIDENTI DIVERSI»: LE NOVELLE.

Le dichiarazioni di poetica di Bandello chiariscono immediatamente che la sua raccolta vuole farsi specchio della società che ha conosciuto. Per rappresentare una realtà in continuo mutamento – siamo negli anni delle guerre in Italia, la cui eco si percepisce chiaramente nelle dedicatorie – è necessario adottare il principio della varietà su tutti i fronti. Si è già visto come la cornice itinerante rappresenti un punto di svolta rispetto all’unità del modello decameroniano; il medesimo criterio viene adottato nella selezione dei racconti, sia dal punto di vista delle fonti che da quello dei generi.

Le «vere istorie» riportate da Bandello attraverso la voce dei suoi aristocratici narratori nascono da una contaminazione fra fatti di cronaca e fonti letterarie antiche e moderne – dalla storiografia alla patristica, oltre agli ovvi topoi novellistici – che prende forme differenti – novella di beffa, novelle di motto, exempla horrenda, racconti classici, fabliaux. Non ci si soffermerà troppo sul filone delle novelle comiche, «di impegno manifestamente minore»51 rispetto alle grandi narrazioni tragiche, a cui si deve invece la fama europea delle Novelle. Le prime contano diversi racconti che non avranno particolare fortuna nemmeno nell’edizione milanese: le novelle di motto vengono completamente escluse dal corpus della riscrittura di Centorio, così come tutti quei racconti in cui figurano personaggi appartenenti all’ambito religioso, mentre il curatore riporta quelle di beffa e di adulterio; Sansovino, invece, adotta il criterio della varietà, selezionando per la sua

30 antologia racconti modulato su vari registri, escluso quello tragico, e guardando principalmente alla brevità52.

In generale, si può dire che il tratto distintivo del comico bandelliano sia una certa inclinazione verso il grottesco e il basso-corporeo, qualità riscontrabili anche in molte delle sue novelle tragiche. Non a caso, come rilevato da Corinne Lucas Fiorato, la parola «tragedia» nelle Novelle assume quasi sempre il significato di accadimento orroroso53, a testimoniare il forte legame tra il tragico e il macabro. Nell’ottica del profitto morale, il lettore deve essere mosso da quanto legge, dunque i racconti di violenza si configurano come exempla rovesciati, la cui utilità consta proprio nel dimostrare le terribili conseguenze dei comportamenti scorretti. Queste caratteristiche appartengono a quelle categorie del tragico bandelliano che sconfinano nel patologico e nel macabro54, ma la declinazione del genere è ben più ampia: troviamo il filone sentimentale, quello morale, quello mirabile55.

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