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Riprendiamo, in conclusione di questa introduzione, la nostra definizione (a): La lettura è l’atto con cui si legge un testo letterario. Definizione banale, ma anche scorretta? D’altronde si legge Manon Lescaut, come romanzo di Prevost, si legge Manon Lescaut come partitura di Puccini, ma, in contesti più ordinari (oltre a leggere gli elementi para–testuali del testo, anche di un testo come Manon Lescaut) si leggono le già citate Pagine Gialle, gli orari del treno Eurostar Italia 9428 Firenze– Bologna, si leggono le istruzioni per l’uso di un computer portatile HP modello Pavillon o di Microsoft Word, etc. Perché accordare questa prerogativa al testo letterario? Ripetiamo. Perché per lettura, appunto, non intendiamo la semplice decodificazione di un testo, lo svelamento di un senso referenziale stabile, piuttosto la sua attivazione di senso, un’attivazione possibile solo nel testo di dimensione letteraria, considerando il mondo della finzione come un mondo a denotazione sospesa, che possiede un suo riferimento, un suo mondo. Questo perché, come scrive Dufrenne, «alla dimensione estetica del segno corrisponde una dimensione estetica del senso»93, e ciò vale anche per l’opera verbale come oggetto estetico che

93 DUFRENNE, M., Phénoménologie de l'expérience esthétique, PUF, Paris 1953; trad. it.

ALESSANDRO RAVEGGI

«irrealizza il reale estetizzandole»94, dandoci «accesso ad un altro mondo»95, senza con questo voler subordinare l’esse dell’opera totalmente al suo percipi. Scrive ancora Dufrenne: l’opera (nel nostro caso, quella letteraria) è un «quasi–soggetto» perché «capace di espressione»96. Ci siamo però già inoltrati in un campo che ci mostra come la dimensione dell’esse (quella testo–centrica dello strutturalismo e del formalismo) debba essere confrontata con quella fenomenologica, attenta al processo della lettura, al lato, di un percipiendum sorretto dalle strategie testuali.

Questo saggio si pone così il compito di scogliere ed illustrare alcuni nodi teorici, attraverso una rassegna di singoli saggi legati tra loro da un fil rouge (una possibile teoria della lettura, appunto), nodi che vengono al pettine sotto vari fronti e per vari motivi. Si presuppone che una teoria della lettura possa essere rilevata forse contravvenendo al saggio Sur la lecture di Roland Barthes, nel quale si mette certo in dubbio, anche se non definitivamente e dipendendo da una nuova visione d’insieme dello strutturalismo, una possibile scienza della lettura, intesa come pratica ribelle, «l’emorragia permanente, attraverso la quale la struttura – descritta con pazienza e profitto dall’Analisi strutturale – si sfalderebbe, si aprirebbe, si perderebbe»97. Siamo convinti però che quest’apertura, questa sfaldatura della lettura possa essere inquadrata, contenuta in una teoria ibrida e a maglie larghe che ne prevenga l’eterno sfaldamento, l’eterna ribellione.

Se la lettura fosse solo emorragia, continuo sconcerto, non sarebbe definibile come tale, in quanto relazione tra familiarità ed estraneità, struttura e novità, apertura e chiusura (si veda ad esempio, il concetto di mutamento d’orizzonte in Jauss). Se interpretare un testo, come scrive sempre Barthes in S/Z, «non è dargli un senso... è invece valutare di quale pluralità sia fatto» e leggere significa spostare questo senso nell’intertestualità o meglio «trovare dei sensi» ovvero «nominarli», per cui il testo è come «un nominare in atto, un’approssimazione instancabile, un lavoro metonimico»98, risulta problematico intendere la soggettività testuale descritta da

94 Ivi, p. 231. 95 Ivi, p. 208. 96 Ivi, p. 281.

97 BARTHES,R., “Sur la lecture”, in Le Bruissement de la langue, Essais critiques IV, Éditions du Seuil, Paris 1984, pp. 37-47; trad. it. “Sulla lettura”, in Il brusio della lingua, cit., p. 36.

Barthes come già «una pluralità di altri testi, di codici infiniti, o più esattamente: perduti»99.

Possiamo trovarci d’accordo quando si afferma perentoriamente che leggere non sia «un gesto parassitario»100 e che si tratti di un’esperienza del testo plurale preso in considerazione come «uguale e nuovo»101, perché si pone attenzione alla temporalità della pratica (una temporalità, però che ci verrebbe da definire come testuale-semiotica) ed a quella particolare dialettica di familiarità ed estraneità che abbiamo già richiamato. Problematica è la nota distinzione tra leggibile e scrivibile quando dobbiamo considerare che la scrivibilità di un testo fa sì che si veda il lettore «non più come un consumatore ma un produttore del testo»102 nello spazio del gioco (che è lo spazio del «ritorno del differente»103 nel linguaggio) mentre la sua controparte, la leggibilità di un testo, venga definita come controvalore negativo che porta ad una restrizione della pluralità del testo.

Il testo classico, leggibile, è per Barthes, «un sistema plurivalente, ma incompletamente reversibile»104 vale a dire che non permette, in quando costretto ad

un ordine “logico–temporale”105, la riscrittura ed appunto, la reversibilità. Cosa è dunque lo scrivibile o meglio il ri–scrivibile se non «una galassia di significanti»106 senza inizio né fine, multi–accesso, totalmente reversibile, un «presente perpetuo»107 che rende la pratica classica della lettura come un otium marginale? Qual è il confine tra lo scrivibile e il leggibile, per non far sì che ogni testo letterario, ordinato logicamente–temporalmente, nelle sue strutture d’attesa, possa considerarsi come classico in quanto leggibile e il testo scrivibile come una libera emorragia infinita? Ha ragione Bertoni quando scrive che «la libertà del testo scrivibile» in Barthes «è la sua produzione (riscrittura) come gioco, quando il consumo della lettura cede il campo a una forza più nobile e potente: il desiderio»108 inteso come jouissance, 99 Ivi, p. 15. 100 Ivi, p. 16. 101 Ivi, p. 21. 102 Ivi , p. 10. 103 Ivi, p. 21. 104 Ivi, p. 33. 105 Ibidem. 106 Ivi, p. 11. 107 Ivi, p. 10.

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ovvero come «smarrirsi atopico del soggetto nella deriva del testo impossibile»109. È quest’impossibilità che mostra il negativo della semiosi illimitata di Barthes, o meglio l’inadeguatezza di una visione, quella semiotica portata alle sue estreme conclusioni, che fa del lettore un luogo virtuale, una funzione del sistema–telaio testuale, «come un moschino sospeso (a fianco dell’autore) nella ragnatela che mai nessuno ha avuto l’intenzione di tessere»110.

In questo studio vorremmo mantenere l’ambiguità a nostro avviso fondamentale di una Finzione testuale e di una Ricezione–soggettuale per delineare che cosa sia la lettura. Diciamo, per il momento, che la pratica della lettura assume l’aspetto di una pratica conservatrice in quanto coordinata dal testo letterario, che definisce la potenzialità del suo senso, ma anche libera nel suo farsi processo di suspension of misbelief, di atto finzionale collaborativo che significa anche stare al gioco. La lettura, scrive Charles, «costringe e consente un margine di libertà, – e questo non è altro che una costrizione più sottile»111.