• Non ci sono risultati.

Le strategie comunitarie dell’interpretazione: la letteratura come

Interpretazione, lettura, comunità: Stanley Fish.

3. Le strategie comunitarie dell’interpretazione: la letteratura come

convenzione.

Nel saggio “What is Stylistics and Why Are They Saying Such Terrible Things About It?”, sebbene si affermi che il valore dei fatti stilistici a livello formale dipende comunque dall’effetto provocato nell’esperienza del lettore e che sia dunque per la stilistica possibile una descrizione di questi fatti solo attraverso l’analisi della lettura, si conclude che ogni descrizione formale dipenda da una previa interpretazione e che paradossalmente non solo ogni critica sia una costruzione interpretativa ma anche che «la costruzione dell’interpretazione e la costruzione della grammatica sono un’unica attività»33. Significato e forma dei fatti linguistici presenti in un testo derivano totalmente dalla lettura.

Se tuttavia tutto è interpretazione, e l’interpretazione è l’unico gioco in città, non si nega nel saggio appena citato riguardante la stilistica, che si possa dare un doppio senso alla conclusione che la lettura sia essenzialmente interpretativa e che essa condizioni in toto l’interpretandum. Quest’affermazione significa che le attività del lettore sono costitutive di quanto può essere descritto formalmente ovvero che le unità formali, così come le intenzioni, del testo «sono sempre una funzione del modello interpretativo che viene messo in opera»34 e mai sono nel testo. Ma, si può sempre affermare, così come fa Fish in Surprised by Sin, che la forma del testo funga da suggerimento alle interpretazioni o meglio «che tra tutti i fatti linguistici solo alcuni sono pertinenti all’atto dell’interpretazione»35, quindi garantendo una minima specificità a questi fatti. Una contraddizione che nel saggio “Interpreting the «Variorium»” è però eliminata, dal momento in cui testo e lettore coincidono nelle strategie interpretative e così «gli atti interpretativi sono alle base delle forme»36.

Questa conclusione pare però portare con sé obiezioni corrispondenti al seguente quesito: «come mai i lettori non compiono sempre gli stessi atti o una

33 FISH, S., “What is Stylistics and Why Are They Saying Such Terrible Things About It?” (I, 1972; II, 1977) in Is There a Text in This Class?..., cit., p. 246; non tradotto nell’ed. italiana.

34 FISH, S., “Interpreting the «Variorum»”, Critical Inquiry, II, 1975-76, pp. 465-485, rist. in ID., Is

There a Text in This Class?..., cit., pp. 147-173, trad. it. in C’è un testo in questa classe?..., cit., p. 98.

35 Ivi, p. 13. 36 Ivi, p. 102.

ALESSANDRO RAVEGGI

sequenza casuale d’atti, in modo da creare o le stesse forme o una successione casuale di forme?»37. Ovvero ci troviamo di fronte a due casi: Nel primo caso 1) un lettore si comporta in modo differente nel leggere due testi differenti; nel secondo caso si può dare che 2) lettori differenti leggono similmente uno stesso testo. Fish risponde alla prima dichiarando innanzitutto che la lettura non sia una percezione pura disinteressata, ma che risponda alle strategie interpretative che costituiscono il testo in quanto tale e che producono il testo invece di esserne prodotte. Differenti strategie interpretative danno luogo in definitiva ad altri testi: due testi sono differenti «perché io ho deciso che lo siano»38. Attraverso le strategie interpretative «si stabilisce qual è il significato da cercare e si forniscono le istruzioni» (ovvero altre strategie interpretative) «per produrlo, cioè per riprodurre all’infinito lo stesso testo»39. Si tratta forse di un sottile sofisma che si ripercuote anche sulla risposta alla seconda obbiezione: la storia della critica letteraria dimostra che due lettori possono leggere differentemente uno stesso testo, perché la nozione di «stesso testo» presuppone simili strategie interpretative.

Il testo dunque scompare definitivamente all’incrocio di strategie interpretative? Fish afferma che il controllo testuale è sostituto dal controllo delle comunità interpretative, le uniche che assieme a controllare la lettura strutturano anche la scrittura, anzi impostano quest’ultima per consentire la prima:

Le comunità interpretative sono formate da quanti condividono strategie interpretative non per leggere ma per scrivere testi, per costruirne le proprietà. In altri termini, queste strategie preesistono all’atto della lettura e di conseguenza determinano la forma di ciò che si legge piuttosto che, come normalmente si pensa, il contrario.40

Questo serve per spiegare da un lato la stabilità interpretativa tra lettori (se sono appartenenti alla stessa comunità) dall’altro le differenti strategie interpretative che un singolo lettore può mettere in opera per produrre testi differenti. Lo stesso

37 Ibidem. 38 Ivi, p. 104. 39 Ivi, p. 105. 40 Ivi, p. 19.

dissenso nelle interpretazioni non dipende da interpretazioni contrastanti direzionate verso un oggetto stabile che funge da controllo, ovvero «non dalla stabilità dei testi, ma a causa della stabilità nella composizione delle comunità interpretative»41. Parliamo così di stabilità, ma di una stabilità relativa: le comunità si allargano, svaniscono, i loro componenti passano da una parte all’altra. Esse così si collocano a metà tra l’accordo perfetto («i testi dovrebbero avere uno statuto indipendente dall’interpretazione»42 e, come abbiamo visto, è il contrario) e l’anarchia interpretativa, dove l’interpretazione cioè la produzione di testi avviene in modo casuale. Scompare qui l’attenzione all’esperienza della lettura, a favore della scrittura comunitaria come unico parametro del cambiamento interpretativo: cambiano le interpretazioni perché cambiano i testi, e viceversa.

Ciononostante, mantenendo il punto di attenzione nel passaggio da una comunità ad un'altra, nella comunicazione tra un emittente–autore, che producendo un’interpretazione produce un testo, e nel destinatario che risponde all’interpretazione con una propria interpretazione e dunque con un testo più o meno coerente, pare salvarsi una nozione minima di segno, uno schema però anch’esso dipendente dalle nostre strategie, come assunzione da parte di un autore che un lettore sia disposto a decifrarli. Salvo considerare che quel contratto irresponsabile tra autore e lettore che si chiama lettura dipende da due poli che sono messi in tavola dalla stessa interpretazione. Non siamo più nel campo descritto dal celebre aforisma di Lichtenberg43 citato ironicamente da Todorov e contestato da Eco, che un libro sia un picnic dove il testo mette le parole e il lettore il senso. Per Fish, il nostro picnic avviene grazie e solo a suon di strategie interpretative, anche se un picnic un po’ inquietante: non abbiamo prove, se non interpretazioni, della nostra appartenenza alla comunità, l’unica prova «è la solidarietà tra gli individui»44. Il nostro picnic non è nemmeno un picnic o un picnic nel quale non sappiamo chi ha portato cosa o nel quale in fondo non possiamo guardare in faccia gli invitati. Il carattere relazionale della lettura viene così vanificato.

41 Ivi, p. 106. 42 Ivi, p. 107.

43 Cfr. LICHTENBERG,G.C., Schriften und Briefe, a cura di W. Promies, Hanser, München 1973, p. 363, n. E-104.

ALESSANDRO RAVEGGI

Se i poli, detto in maniera brutale, del testo come norma oggettiva e del lettore come attivazione soggettiva vengono sbaragliati, questo è perché da un lato la comunità interpretativa non garantisce una stabilità oggettiva, ma parziale essendo «un groviglio di interessi, finalità e di scopi particolari»45, dall’altro però questo non significa libertà della soggettività perché i testi e le interpretazioni prodotte non sono soggettive, ma pubbliche e convenzionali. Convenzionali come la letteratura: «la letteratura è una categoria convenzionale»46 scrive Fish. Definire come letterari alcuni tratti o enunciati linguistici è un fatto contestuale. Queste affermazioni si possono ricavare oltre che dal loro intorno teorico, da un saggio scritto nel 1972 dal titolo “How Ordinary is Ordinary Language”47 dove Fish affronta direttamente il problema dello statuto del linguaggio cosiddetto letterario, o poetico, in rapporto all’altrettanto cosiddetto linguaggio ordinario. Uno dei problemi specie della linguistica è quello di trattare la letteratura come linguaggio, ma di enunciare dei tratti formali che possono distinguerla dal linguaggio stesso (in senso ordinario).

Anche quella critica letteraria che alla linguistica si oppone, perché quest’ultima non sarebbe in grado nei margini stretti dell’analisi delle strutture linguistiche di comprendere il fatto letterario come contenente valori umani trascendenti il mero significato verbale, cade in un problema superiore: «l’assunto positivista» che il linguaggio o la condizione d’uso ordinaria sia «disponibile per una descrizione puramente formale»48, quindi giungendo a proporre una teoria deviazionista della letteratura che «trivializza la norma e quindi trivializza ogni altra cosa»49. Come abbiamo già visto parlando prima di significato come evento e come uso contestuale, reinterpretando così la teoria degli atti linguistici di Austin e Searle e negando l’esistenza di enunciati constativi del linguaggio (ovvero quegli atti che riferiscono stati di fatto), Fish era giunto a rivalutare il linguaggio ordinario, definibile come tale solo nel contesto della nostra comprensione ordinaria del mondo.

45 Ivi, p. 19. 46 Ivi, p. 15.

47 Cfr. FISH, S., “How Ordinary is Ordinary Language”, New Literary History, 5, 1, What Is

Literature?, 1973, pp. 41-54.

48 Ivi, p. 44. 49 Ibidem.

Due approcci sbagliati alla letteratura considerata rispetto al linguaggio ordinario possono essere verificati: l’uno considera la letteratura un message–plus, un’aggiunta al messaggio linguistico, l’altro considera la letteratura come un message–minus, così come fa Jakobson, per il quale nella funzione poetica della lingua il principio dell’equivalenza è proiettato dall’asse della selezione (quello del contesto lessicale e della polisemia) a quello della combinazione (il veicolo attraverso il quale tutti i messaggi verbali sono prodotti). La prima così enfatizza la centralità normativa del linguaggio nel suo uso ordinario, e considera la letteratura come un effetto stilistico, un ornatus (si veda la stilistica di Riffattere) escludendo da essa tutti i testi che non paiono possedere uno stile, la seconda è disposta, o meglio si arrischia ad includere nella letteratura testi che non appaiono come letterari perché in essi può essere individuata una funzione poetica. Un criterio accomuna entrambe le posizioni, un criterio di unità formale:

In un caso, il criterio è necessario perché i materiali estranei al messaggio possono essere ammessi solo se contribuiscono alla sua espressione o ricezione; nell’altro caso, la de–enfatizzazione del messaggio porta a richiedere che quegli stessi materiali siano formalmente coerenti con ogni altro (cosa altro potrebbero fare?). O ogni cosa deve convergere ad un centro, o convergere nell’assenza di un centro. Come al solito, le alternative sono rigide, simultaneamente riflettendo e riproducendo la scelta tra l’approvazione della separazione della letteratura dalla vita o la sua reintegrazione con la nozione sminuita della vita implicita nella norma del linguaggio ordinario.50

L’alternativa tra queste due vie è espressa da Fish attraverso la radicale negazione di qualcosa che possa essere detto linguaggio ordinario, intendendo con esso un sistema formale astratto indicabile come norma e dal quale ricavare una definizione di cosa sia letterario. Un sistema astratto che non contiene gli scopi e i bisogni della comunicazione umana come costituenti del significato. La svolta è proprio qui: il linguaggio non è un sistema astratto, ma è, seguendo la teoria degli atti linguistici, un insieme di atti contestuali. Austin aveva già notoriamente parlato di

ALESSANDRO RAVEGGI

enunciati linguistici performativi ovvero di enunciati che equivalgono al compiere un’azione, che non affermano uno stato di cose bensì fanno qualcosa (promettere, avvertire, ordinare, domandare), contrapposti agli enunciati constativi che descriverebbero il mondo al di là del contesto e che possono essere valutati secondo il criterio di verità. La distinzione tra performativo e constativo viene prima messa in dubbio e poi negata da Austin, che comprende come atti anche gli enunciati constativi e li fa dipendere non da un criterio di verità, ma dalle condizioni di felicità in cui sono espressi per non risultare inappropriati, condizioni che includono «la situazione di colui che ha parlato, l’intento con il quale ha parlato, il suo uditorio...»51, etc.

Fish associa le condizioni di felicità della Speech Acts Theory alla svolta semantica della linguistica generativa di Chomsky, espressa in autori come Charles Fillmore, James MacCauley e George Lakoff, i quali considerano la semantica non qualcosa di aggiunto al sistema formale sintattico, ma una forza che influenza lo stesso cambiamento sintattico, non solo «una lista di usi o una enumerazione di caratteristiche, ma un resoconto dei concetti filosofici, psicologici e morali costruiti nel linguaggio che usiamo»52, per cui il sistema della lingua è permeato da questo contesto e non può astrarsi. Questo significa per Fish dichiarare che ogni frase ha una forza illocutoria, avendo un riferimento al modo in cui viene recepita («l’esecuzione di un atto illocutorio implica assicurarsi la recezione (uptake)»53 scriveva Austin) anche se la sua forza illocutoria non sarà sempre la stessa, dipendendo dal contesto variabile della sua interpretazione.

Se sintassi e semantica sono entrambe mantenute, ed il linguaggio compie una serie di atti, nessuno di quali svolge la funzione di norma rispetto agli altri, il passaggio alla natura convenzionale della categoria letteratura è breve, e Fish lo espone chiaramente:

Cosa dunque caratterizza la letteratura non sono proprietà formali, ma un attitudine — sempre all’interno della nostra possibilità di assumerla —

51 AUSTIN,J.L., How to Do Things with Words, Oxford University Press, London 1962; trad. it. in Gli

Atti linguistici. Aspetti e problemi della filosofia del linguaggio, Feltrinelli, Milano 1978, p. 60.

52 Cfr. FISH,S., “How Ordinary is Ordinary Language”, cit., p. 50. 53 AUSTIN,J.L., How to Do Things with Words, cit. p. 77.

verso alcune proprietà che appartengono al linguaggio di diritto. (Questo fa sorgere la possibilità intrigante che la letteratura possa essere la norma, e il linguaggio portatore di significato un mezzo che possiamo ricavare per affrontare il compito speciale, ma certamente non normativo, di impartire informazioni.) La letteratura è ancora una categoria, ma è una categoria aperta, non definibile dalla finzionalità, o trascurando la verità proposizionale, o da una predominanza statistica di tropi e figure, ma semplicemente da che cosa noi decidiamo di introdurvi.54

Solo questa conclusione permette di comprendere come ci sia una classe di enunciati speciali che definiamo come letterari ed anche come ogni classe di enunciato possa rientrare in quella classe (e uscirne). Il valore della letteratura dipende così da un giudizio di gusto del lettore che identificando un testo come letterario, lo valuta, sempre però giustificandosi rispetto ad una comunità di lettori, così che la storia dell’estetica non sarà teoretica ma empirica, «isomorfa con la storia dei gusti»55.