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Arnheim e la pregnanza

Nel documento Rudolf ArnheimArte e percezione visiva (pagine 38-50)

di Riccardo Luccio

[Arnheim] strinse involontariamente la mano di Stumm e soggiunse: – Pochissimi sanno che le cose veramen-te grandi non hanno fondamenta; voglio dire: tutto ciò che è forte è semplice!

Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, II, § 114

La pregnanza: una “vacca sacra”?

La pregnanza, il tema che ho scelto per queste giornate in onore di Arnheim (Rudolf, ovviamente – ma il personaggio dell’Uomo senza

qualità che ho scelto per la citazione iniziale ha la pessima abitudine di

confondersi spesso nella mia mente con il Nostro, per motivi forse più profondi che non per la semplice omonimia) era per me quasi obbli-gato. Con Gaetano Kanizsa, e dopo la sua scomparsa, ho avuto modo di approfondire questo concetto, che per un certo periodo della mia vita scientifica ha acquistato una posizione centrale e quasi esclusiva tra i miei interessi. Mi è accaduto di trovarmi in profondo disaccordo con Arnheim. E non si tratta di un tema secondario, anzi: il concetto di pregnanza è talmente centrale nella Gestalttheorie che per molti ver-si l’intera dottrina della scuola di Berlino potrebbe essere riassunta in questa nozione. E in certo senso Musatti (1931), nell’introdurre il principio di “massima omogeneità”, come principio unificante com-prensivo di tutti i principi di Wertheimer, riduceva l’interna

Gestalt-theorie alla pregnanza. Ma, come osservava Hoeth (1968) in uno dei

suoi ultimi lavori, è forse una “vacca sacra”, che sarebbe ora di tra-sformare in bistecche. Questa introduzione vuole essere un piccolo contributo a questa operazione di macelleria.

Prima di entrare nello specifico, e cioè nel trattamento di questo concetto in Arnheim, è però opportuno premettere qualche parola in proposito, perché, nonostante la sua centralità, non è conosciuto par-ticolarmente bene al di fuori di una cerchia abbastanza ristretta di sto-rici della Gestaltpsychologie. Il concetto di pregnanza (non il termine) è stato introdotto da Wertheimer (1912) nel suo saggio sul pensiero dei popoli primitivi: qui, a proposito delle serie numeriche, egli parla di zone privilegiate, ausgezeichnet o “pregnanti”. E nel 1914

Wer-theimer dirà che tra tante «leggi della Gestalt» di tipo generale, c’è una «Tendenz zum Zustandekommen einfacher Gestaltung (Gesetz zur ‘Prägnanz der Gestalt’)». Negli “Untersuchungen” del 1922/1923, prima vera sistematizzazione della Gestalttheorie, il principio della pre-gnanza acquisterà un ruolo centrale nel sistema wertheimeriano, a fian-co degli altri principi (vicinanza, somiglianza, destino fian-comune, etc.) che passeranno nell’immaginario collettivo come le “leggi della Ge-stalt”. E quella che è probabilmente la summa definitiva della percet-tologia gestaltista, il “Gesetze des Sehens” di Wolfgang Metzger (1956), avrà al suo centro proprio il concetto di pregnanza.

Da subito, peraltro, nella definizione che di pregnanza danno i ge-staltisti vi sono due sostanziali ambiguità:

i) pregnanza come processo contro pregnanza come singolarità (Goldmeir, 1972);

ii) pregnanza come singolarità contro pregnanza come dimensiona-lità (Rausch, 1966).

Infatti in primo luogo la pregnanza è definita come

Ausgezeich-netheit, una qualità appartenente alla nostra esperienza percettiva

im-mediata. Essa rende determinati percetti che la possiedono, detti “buone Gestalt”, unici o comunque privilegiati. In questo senso, la pregnanza indica delle strutture fenomeniche in cui tutte le parti si appartengono reciprocamente per mutua necessità.

In secondo luogo, però, la pregnanza è definita come lawfulness del processo che porta alla formazione di oggetti visivi, indicando il fatto che tale processo è “dotato di significato” (sinnvoll). I principî dell’organizzazione percettiva seguono cioè delle leggi precise, nel sen-so della massima economia e semplicità, con un perfetto equilibrio risultante delle forze in gioco, e quindi con un massimo di stabilità e di resistenza al cambiamento.

Questa ambiguità segna tutta la classica trattatistica gestaltista sul problema, con conseguenze nefaste sul piano della ricerca, e probabil-mente non è stata la causa ultima della rovina di questa scuola. Arn-heim, come vedremo, nonostante qualche tentativo di revisione, non uscirà da questa strettoia.

La pregnanza in Arnheim

Come si è detto, il concetto di pregnanza ha sempre svolto un ruo-lo centrale anche nella teorizzazione di Arnheim. Sino al 1986 egli ha però sempre assunto questo concetto nella sua formulazione gestalti-sticamente più ortodossa, oscillando tra le due definizioni di cui sopra e non sfuggendo alle ambiguità segnalate. Arnheim è infatti un gestal-tista fedele, ma in modo peculiare, alla tradizione di questa scuola, da cui rimase affascinato forse più per motivi estetici che propriamente scientifici. Per Arnheim (1943, p. 71) vi sono

[…] stili nella scienza come nell’arte. La teoria della Gestalt è un tale nuovo stile di scienza […] l’espressione scientifica di una nuova ondata di Naturphilosophie e romanticismo in Germania, che è rivissuta in un modo fortemente emotivo di sen-tire i meravigliosi segreti dell’organismo, le potenze naturali come opposte agli effetti deteriori di un razionalismo che esalta l’emancipazione del cervello dalla vitalità e dai compiti elementari della vita come il più alto risultato della cultura.

Ora, espressioni come queste sembrano fatte apposta per scorag-giare chicchessia dall’approfondire l’opera di qualsiasi autore. Per for-tuna, se è probabile che lo sciatto sentimentalismo di cui Arnheim qui dà vigorosa prova costituisce probabilmente la primitiva motivazione che lo ha spinto verso la Gestalttheorie, i suoi studi hanno proseguito in questa direzione in modo molto più sobrio e con risultati straordi-nari. E del resto, non sempre le motivazioni che ci spingono ad ab-bracciare certi campi di studio devono essere intellettualmente inecce-pibili. Il giovane Musatti abbandonò le matematiche e si rivolse alla psicologia sperimentale e clinica più affascinato dagli occhi della con-discepola De Marchi che dall’interesse delle lezioni di Benussi; e i ri-sultati furono assolutamente eccellenti. Ma certo questo non ci rende Arnheim (più) simpatico.

Peraltro, malgrado l’inizio disastroso, questo articolo di Arnheim coglie già alcuni aspetti cruciali della teoria della Gestalt, e della sua importanza per la psicologia dell’arte, che costituiranno poi un

leit-motiv di tutta la sua attività scientifica. In particolare, Arnheim afferra

perfettamente l’importanza del concetto di “buona forma” (i. e. di pregnanza), e nel libro di Köhler (1920) sulle Gestalten fisiche, se af-ferra perfettamente il concetto chiave dei gestaltisti (almeno nella ver-sione köhleriana – lo spinozismo di Wertheimer condurrà quest’ultimo verso ben diversi approdi) di un’identità tra forme fisiche e fenomeni-che, la vedrà (correttamente, dati i tempi, ma improduttivamente, per quelli che saranno gli sviluppi futuri) come tendenza verso le “forme semplici” e non semplicemente come tendenza all’equilibrio. Eppure, quel che rende così importante l’approccio gestaltista alla psicologia dell’arte non è certo questa fantasmatica tendenza alla semplicità, ma, come nota già in questo vecchio articolo (ibidem, p. 72), la tendenza all’equilibrio (che “genera piacere”). Ed è in questo che la psicologia della Gestalt si distacca dagli altri approcci, ancora troppo legati al-l’helmholtzianismo (cfr. Arnheim, 1954).

Per molti anni Arnheim non fornisce innovazioni sostanziali alla teoria psicologica. Si muove, da gestaltista, lungo un solco tradizionale, e applica queste idee a quello che è il suo principale interesse di ricer-ca: la psicologia dell’arte. Peraltro, già nel 1977 aveva dovuto rendersi conto di due problemi molto rilevanti, che potevano mettere poten-zialmente in crisi una visione ortodossa della pregnanza. I due proble-mi erano costituiti dal fatto che:

1. le forme pure si trovano solo eccezionalmente in natura; 2. la subordine delle parti al tutto costituisce una camicia di forza troppo stretta per spiegare l’articolazione percettiva.

Quella che tipicamente troviamo è una gerarchia di livelli struttu-rali, alcuni più comprensivi, alcuni più locali, ognuno governato dal principio di semplicità. Quale livello prevale sugli altri dipende dal potere percettivo relativo. Wertheimer (1923) ha sempre cercato di presentare esempi in cui le caratteristiche più globali vincevano sulle più locali. Come egli stesso diceva, l’organizzazione procede “von oben

nach unten” (il che, si badi bene, non significa affatto “top-down”).

Ma, ammette Arnheim, può accadere anche l’opposto, ed entrambi gli esiti si accordano con la definizione di base di Gestalt, che indica solo che nelle condizioni del campo l’organizzazione risultante è determi-nata dalla interazione delle forze operanti ai vari livelli strutturali.

Nel 1978 Arnheim si rende conto che anche il principio di sempli-cità non può spiegare da solo l’organizzazione percettiva. Se così fosse, ogni materiale visivo si dissolverebbe in una completa omogeneità. Nel 1979 Arnheim introduce allora una controforza, una “tendenza anabo-lica”, necessaria a rappresentare le forme da percepire. Nella percezio-ne ordinaria gli stimoli proiettati sulla retina creano tale controforza, il cui input è soggetto al potere organizzante della tendenza alla sem-plicità.

Si può osservare che queste forze specificamente retiniche erano già state ipotizzate (come “forze di freno”) nel loro modello di campo da Brown e Voth nel 1937. A queste si opponevano “forze di coesio-ne”, omogeneizzanti. Brown e Voth procedono ipotizzando all’interno del campo la presenza di due tipi di forze: le forze di coesione e le forze di freno entrambe aventi natura di vettori. Le prime attraggono tra di loro gli oggetti presenti nel campo. Lo sviluppo di questo mo-dello si ha soprattutto con la ricerca di Orbison [1939] sulle configu-razioni stabili. Si tratta dei casi nei quali, secondo il modello di Brown e Voth, la sommatoria delle forze di coesione equivale alla sommato-ria delle forze di freno. Secondo Orbison, l’intensità delle forze di coe-sione va ritenuta inversamente proporzionale alla distanza spaziale tra gli oggetti presenti nel campo. La relazione che lega distanza e som-matoria di forze di coesione è la seguente:

(1)

dove C è la sommatoria delle forze di coesione, d è la distanza spa-ziale tra gli oggetti, K, G e n sono costanti; n non è definita, ma è comunque positiva e maggiore o uguale a 1. Indicando con R la sommatoria delle forze di freno, l’equilibrio nel campo si ha quando

C Kf G dn = +     

1 ,

(2)

Ciò implica che, dislocando un oggetto di una certa distanza s dalla sua posizione originale, quella cioè di equilibrio nei termini della (2), si avrà un aumento di R, con

(3)

dove H è una costante indeterminata. Si tenga presente che discorsi analoghi possono essere svolti per quel che riguarda grandezza e inten-sità; e, secondo Orbison, che peraltro non sviluppa questo punto, per “esperienza” e pattern muscolari.

Ma torniamo ad Arnheim. La tendenza anabolica esercita la sua influenza entro i limiti imposti dallo stimolo. Sono proprio tali limiti che costituiscono le forze di freno.

Analogamente, nella composizione di un’opera d’arte, il tema o soggetto che l’artista intende viene modellato dalla tendenza alla sem-plicità nella forma ottimale dell’enunciato artistico: la composizione è ridotta all’essenziale, chiara e non ambigua. Le immagini, formate al-lora dall’azione delle due forze antagoniste, meritano di essere dette

prägnant, nel senso originale del termine. Peraltro, fuori del

laborato-rio, non saranno immagini semplici ma molto complesse. Saranno però comunque semplici, avrebbe detto Wertheimer, per quanto le condi-zioni date lo consentono.

Questa più matura visione del campo e della sua dinamica in ter-mini di forze è esposta in modo estremamente cogente in un impor-tante saggio sullo stile come «problema gestaltico» (Arnheim, 1981). Rilevato che lo studioso deve fare i conti con un «mondo di forze che agiscono nella dimensione del tempo […] si trova che queste forze si organizzano in campi, interagendo, raggruppandosi, entrando in com-petizione, fondendosi e separandosi» (p. 284). E Arnheim prosegue:

In questo mondo, il presentarsi simultaneo di una molteplicità di eventi è la regola, e non l’eccezione. Il cambiamento è più normale della costanza, ed è impro-babile che si presenti una sequenza lineare di entità ferme […] La psicologia della Gestalt può fornirci la metodologia per un tale approccio dinamico alla struttura. […] Una Gestalt non è un assetto di elementi auto inclusi ma una configurazione di forze che interagiscono in un campo. Trattandosi di struttura, elimina tante pseudo-dicotomie. […] Costanza e cambiamento sono per esempio incompatibili solo nel-la misura in cui l’intero è definito come somma delle parti. (pp. 284-85)

Tutto ciò viene sistematizzato da Arnheim nell’importante articolo del 1986 sulle due facce della Gestaltpsychologie, in cui viene articolata una nuova teoria della pregnanza su tre livelli:

R=∑C

.

R=Hf s

( )

1. forme pure;

2. tendenza alla semplicità;

3. risultato dell’interazione tra stimolo anabolico o tema del per-cetto e tendenza alla semplicità.

Solo al punto 3 va riservato il termine “Prägnanz”, nel più puro significato del termine come lo si riscontra sostanzialmente solo in tedesco:

Nella percezione ordinaria gli stimoli proiettati sulla retina creano delle contro-forze, il cui input è allora soggetto al potere organizzatore della tendenza alla sem-plicità. Questa tendenza esercita la sua influenza entro i limiti imposti dallo stimo-lo. Analogamente, nella composizione di un’opera d’arte il tema voluto o soggetto è modellato dalla tendenza alla semplicità nella forma ottimale dell’enunciato artisti-co – una artisti-composizione ridotta ai suoi elementi essenziali, chiara e non ambigua. Queste immagini, formate dall’azione delle due forze antagonistiche, meritano il termine prägnant nel suo senso originale. Meritano anche il termine laudativo “buo-ne Gestalten”, perché per precisio“buo-ne e chiarezza sono di elevato valore cognitivo e biologico. (Arnheim, 1987, p. 105)

I motivi del disaccordo

Credo di avere presentato onestamente la posizione di Arnheim, per come si è andata evolvendo a partire dalla metà degli anni ’70. È bene precisare che questa evoluzione delle sue idee non è frutto di una mia approfondita analisi filologica sui numerosissimi testi (spesso piuttosto diversi nelle versioni inglese e tedesca, e non semplicemen-te per questioni di sfumature – nel caso di possibili ambiguità, ho al-lora preferito attenermi al testo tedesco), ma è quanto Arnheim stes-so dichiara in un suo articolo del 1987, largamente dedicato all’analisi che Kanizsa e io (Kanizsa e Luccio, 1986) avevamo fatto del problema della pregnanza. Sin dal titolo, “Prägnanz and its discontents”, Arn-heim ci accomunava a lui nell’insoddisfazione per il trattamento che questo concetto aveva ricevuto nell’ambito della psicologia della Ge-stalt, e chiamava “benvenuta coincidenza” il fatto che il suo articolo sulle due facce del gestaltismo, con la sua revisione tripartita del con-cetto di pregnanza, fosse comparso lo stesso anno del nostro. L’accor-do, peraltro, finiva qui, e Arnheim manifestava il suo dissenso dalle nostre posizioni praticamente a partire dal secondo capoverso. Ora, questo paragrafo conclusivo vuole essere tutto meno che una ripresa di una polemica a distanza di quasi vent’anni, Ma poiché quest’occa-sione non è di commemorazione di Arnheim, ma di discusquest’occa-sione delle idee tutt’ora vitalissime di un’autore ben vivo nel dibattito scientifico contemporaneo, penso che il miglior modo di rendere omaggio a Ru-dolf Arnheim sia di riprendere una discussione che forse può ancora dire qualcosa ai ricercatori più giovani, al di là della risposta che con Kanizsa gli dedicammo allora (Kanizsa e Luccio, 1987).

deboli: (i) nella sua nozione di pregnanza, vi è una continua ambiguità tra pregnanza come risultato di un processo percettivo (la “buona Ge-stalt”), e pregnanza come processo percettivo che genera tale risulta-to (l’incorporazione delle “forme pure”); (ii) il suo ricorso continuo all’“eccezione”, che gli consente in ultima analisi di affermare tutto e il contrario di tutto; (iii) il suo ricorso fideistico a una pretesa “tenden-za alla semplicità”.

È soprattutto quest’ultimo punto che va qui discusso, perché sui primi due può essere sufficiente la nostra replica del 1987, a lui e a Josefa Zoltobrocki (1987 – di fatto, a Erwin Rausch), e a questa riman-diamo il lettore. Mi limito, per aggiornare quel dibattito, a fare poche rapide notazioni. Innanzi tutto, Arnheim sembra non tener conto del fatto che la psicologia della Gestalt è prima di tutto una psicologia isomorfistica, sia nella formulazione köhleriana, sia in quella werthei-meriana; e lo è, perché è una psicologia fenomenologica radicale (molto più radicale di ogni e qualsiasi Gibson che voglia tornare a insegnarci cosa e dove e come dobbiamo guardare). Ma un fenomenologismo radicale presuppone un’antirappresentazionalismo altrettanto radicale (cfr. Luccio, 2004). Ora, la revisione del concetto di pregnanza che opera Arnheim si muove in direzione esattamente opposta, a meno che sia io a non capire da un lato cosa sono le sue “forme pure”, dall’al-tro il “tema voluto” dell’artista. Ma c’è qualcosa di più preoccupante: questo processo di “incorporazione” non è la spontanea autoorganiz-zazione delle forze di campo, nell’immediato interagire delle sue com-ponenti, come è nel Köhler originale, e poi in tutta la tradizione ge-staltista. Si badi alla sua tripartizione delle “due facce” sopra esposta: è palese che se la pregnanza è il risultato dell’interazione tra stimolo anabolico e tendenza alla semplicità, lo stimolo anabolico precede que-sta interazione. Absit iniuria verbis, ma siamo tornati a qualcosa che as-somiglia dannatamente alla teoria della produzione di Meinong (1897). Ma ciò che rende oggi inaccettabile la posizione di Arnheim è, a mio avviso, soprattutto questo suo acritico affidarsi alla tendenza alla semplicità. Si badi che per Arnheim questa è una legge di natura, «sul-la cui universale validità nel mondo fisico e psicologico sembra non ci sia disaccordo». Ahimé, le apparenze ingannano, e il disaccordo è in-vece radicale e diffuso (salvo, va detto, che in molto mondo della psi-cologia). Evidentemente, solo per fare un esempio, Arnheim riposa su una fisica pre-Poincaré, ma forse anche pre-Boltzmann. Ma tutto il mondo dei sistemi dinamici complessi ci mostra con chiarezza che le cose vanno in modo radicalmente diverso (cfr. Stadler e Kruse, 1985; Luccio, 2003). Noi sappiamo benissimo che il problema non è quello della semplicità (è quasi imbarazzante doverlo dire, nel mondo anche in psicologia dei sistemi dinamici non lineari), ma dei parametri d’or-dine, e quindi della stabilità (Kanizsa e Luccio, 1990). L’avere

pratica-mente unificato stabilità (sia pure nella forma semplificata dell’equili-brio) e semplicità conduce Arnheim in un vicolo cieco.

Si badi anche che per Arnheim (1987) la (i) tendenza alla struttu-ra più semplice è anche nota come “(ii) principio di economia o (iii) di minima tensione”. È quasi superfluo sottolineare che si tratta di tre cose radicalmente diverse. La tendenza alla struttura più semplice è una chimera, e bastano pochi esempi a dimostrarlo. Si osservi la Figu-ra 1. In questa famosa figuFigu-ra di Gerbino (1972), la regolare sovFigu-rappo- sovrappo-sizione di una regolare configurazione di sei regolarissimi triangoli equilateri neri su un regolarissimo esagono distrugge la ne semplice e ogni possibile semplicità e regolarità della configurazio-ne complessiva. Ma questa distruzioconfigurazio-ne è il chiaro frutto della contra-zione degli spazi amodali “sotto” i triangoli neri, che non può che essere dovuta al principio di economia nel senso di Koffka (1935; cfr Kanizsa, 1970).

Figura 1 – In questa famosa figura di Gerbino, non si possono vedere né la regolarità dell’esagono né l’allineamento dei triangoli equilateri neri.

E si osservi la Figura 2: perché la configurazione che appare, sia in a) che in b), è tutt’altro che semplice, ma segue la legge della conti-nuazione (destino comune)? Della conticonti-nuazione, abbiamo detto? For-se no, For-se osFor-serviamo la figura 3. Ma chi potrebbe dire che si assiste a una tendenza alla “minima tensione”?

Figura 2 – Sia a destra che a sinistra il completa-mento delle figure avviene nel senso della conves-sità, distruggendo l’esito semplice (la simmetria).

Figura 3 – L’esito in direzione della convessità crea un aumento di tensione

E ancora: Arnheim (e qui gli estremi si toccano) darebbe certamen-te ragione a Hochberg e Brooks (1961) nel dire che nella Figura 4 le figure di sopra sono rispettivamente tridimensionale (a sinistra) e bidi-mensionale (a destra), ma sarebbe ugualmente incapace di spiegare perché lo stesso si verifica con le due figure di sotto.

Figura 4 – Il gioco delle giunzioni a Y e a T crea la tridimensionalità nelle figure di sinistra, e la sua assenza in quelle di destra, indipendentemente dall’esito semplice delle figure di

sopra e da quello lontano da minimo e diminuzione di tensione delle figure sottostanti.

Ma ciò che è veramente curioso (e mi limito a questo esempio) è che Arnheim voglia criticare l’interpretazione che abbiamo noi dato allora a questa illusione (Figura 5).

Figura 5 – Il rettangolo appare deformato come un trapezio per effetto delle linee inducenti a raggiera.

Nel documento Rudolf ArnheimArte e percezione visiva (pagine 38-50)