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prospettive per la spiegazione arnheimiana dell’ordine percettivo

Nel documento Rudolf ArnheimArte e percezione visiva (pagine 50-62)

di Ian Verstegen

In occasione del centesimo compleanno di Arnheim e della cele-brazione dei cinquant’anni dalla pubblicazione del suo libro Arte e

percezione visiva (1954), è opportuno riconsiderare il problema

dell’or-dine percettivo e delle spiegazioni datene dai gestaltisti, in particolare da Arnheim. Tutto ciò che egli ha scritto è basato sulla psicologia del-la Gestalt, e senza questo modello teorico deldel-la percezione non esiste-rebbe la sua teoria. Nella sua soluzione dei problemi percettivi è so-prattutto degno di nota l’interdipendenza tra percezione (Prägnanz compresa) ed espressione, grazie al modello dell’isomorfismo psicofi-sico. La particolarità di questa soluzione mostra non solo il debito di Arnheim nei confronti del gestaltismo, ma anche il suo particolare po-tere esplicativo. È un risultato unico che se considerato offre la possi-bilità di trattare i problemi estetici nell’ambito di un orientamento scientifico-naturalistico.

Ritengo utile precisare che, anche se attualmente abito in Italia, parlo di Arnheim e del suo pensiero da un contesto chiaramente an-glo-americano. L’America è il luogo in cui Arnheim “ha fatto carrie-ra”; ma l’America è anche il luogo in cui egli è stato dimenticato con particolare trascuratezza. In questo contesto il desiderio di affrontare con rispetto i problemi sollevati da Arnheim, porta facilmente a un atteggiamento difensivo. Arnheim ha scritto che la filosofia postmoder-na americapostmoder-na è postmoder-nata dall’innesto nel tradiziopostmoder-nale empirismo inglese di varie dottrine continentali irrazionalistiche, come il Wille zur Macht di Nietzsche. Questa miscela mette insieme due diversi tipi di scetticismo senza valutarne le fondamentali differenze. Il risultato è un disastro ma, cosa ben più importante, rende il realismo critico di Arnheim, basato sul metodo fenomenologico, molto più difficile da sostenere. In America il minore rispetto per pensatori “fuori dal coro” e il potere delle forze intellettuali alla moda rendono, forse, inattuali le questio-ni fondamentali che permettono di apprezzare davvero come l’esem-pio di Arnheim sia un modello molto potente da seguire.

Arnheim ha sempre sostenuto che, se le scienze umane hanno una propria logica, un modello di rigore scientifico da perseguire deriva dalle scienze naturali, e specialmente dalla fisica. In questo seguiva

ovviamente il suo maestro, Wolfgang Köhler, il quale aveva una for-mazione in fisica che teneva costantemente presente nella sua riflessio-ne metodologica. Fu il libro di Köhler, Die physischen Gestalten (1920; cfr. Arnheim, 1998), ad annunciare che le ambizioni della teoria del-la Gestalt andavano ben oltre del-la rivoluzione fenomenologica, dimo-strando l’esistenza in natura di entità gestaltiche, al pari di quelle che si costituiscono nella percezione. Questo ininterrotto interesse per la scienza della natura si mostra in maniera molto chiara in Entropia e

arte. Saggio sul disordine e l’ordine del 1971 di Arnheim.

Il postmodernismo da cui stiamo uscendo e la sua resistenza allo scientismo filosofico metteva in dubbio qualsiasi metodo che si riteneva traesse ispirazione dalle scienze naturali, considerandolo un esempio di

scientismo. Lo scientismo, specialmente nelle scienze sociali positiviste,

era in verità colpevole di usare un modello riduzionistico per la com-prensione della vita umana e, soprattutto, di averla ridotta a un’essen-za: l’essenzialismo. Una scuola anti-essenzialista non dovrebbe sostenere questo tipo di essenzialismo, sebbene sia accaduto che essa abbia so-stituito allo scientismo ciò che possiamo chiamare culturalismo. Il pun-to critico di questa scuola è la tendenza a considerare la cultura nel-lo stesso modo in cui la Scuola di Vienna considerava la scienza con il suo “Modello Unificato della Scienza”. Ma al di là della contraddi-zione, in questo clima Arnheim, per il fatto che ha guardato alla psi-cologia come guida per l’estetica, non sarebbe potuto sembrare altro che un pensatore riduzionista. Il suo libro Il potere del Centro (1988) non poteva che sembrare una provocazione, dal momento che unisce un’idea di sicurezza (potere) con un concetto dall’eco quasi-fascista (centro). Verso il 1990 egli, quindi, sembrava destinato al “cestino della storia”, una nota a piè di pagina dell’estetica del passato.

La messa in discussione delle idee principali del postmodernismo ha cambiato il nostro modo di pensare alla scienza e anche ad Arn-heim. È stato sottolineato il fatto che abbiamo bisogno di un concet-to di scienza che possa sia valutare il modo in cui essa stessa si svilup-pa, sia, nel contempo, comprenderla come un prodotto dell’attività umana. Lungi dal ridurre la scienza a un gioco retorico di consensi e credenze, è necessario accettarne la progressiva e ininterrotta richiesta di una verità trascendente, pur rendendosi conto che la società e la rappresentazione sociale della conoscenza sono componenti necessarie di ogni pratica organizzata di acquisizione della conoscenza (Bhaskar, 1989; Norris, 1996).

Il potenziale del pensiero postmoderno, basato soprattutto sul post-strutturalismo francese, era interessante in quanto provocazione nei con-fronti della sicurezza della conoscenza (essenzialismo) e del burocratismo del mondo (scientismo), supportati specialmente dalle scienze sociali. Il risultato però è stato un mondo di celle autosufficienti senza punti di

riferimento per paragonare le cose. Arnheim perciò ritorna a essere at-tuale non certo per mutamenti occorsi nell’estetica, quanto piuttosto per il cambiamento relativo all’importanza del realismo.

In questi dibattiti non ci si attendeva alcun contributo da Arnheim, a lungo frainteso come un sostenitore del realismo ingenuo o reazio-nario. Tuttavia, a un esame più accurato si comprende come egli possa rispondere ai problemi di vecchia data sollevati dal postmodernismo, pur rimanendo, al tempo stesso, nell’ambito del realismo. Il suo reali-smo critico, cioè un realireali-smo che asserisce che la conoscenza umana è sociale per natura, protendendosi però verso la rappresentazione del mondo trascendente, rimane realismo ma si colloca in una cornice di conoscenza fallibile. Il realismo critico, che si trova in molti pensato-ri contemporanei, rende assai interessante quanto scpensato-ritto da Arnheim.

Campo

La cosa più attraente del sistema di Arnheim è la sua semplicità. Nei suoi scritti è presente l’abilità di passare con naturalezza dal mon-do della fisica moderna alla pienezza dell’esperienza umana, alimentan-do la speranza di poter trovare, come dice il suo maestro Wolfgang Köhler, il «valore in un mondo di fatti» (Köhler, 1938). In effetti è qui che risiede esattamente il valore della fisica moderna perché la visio-ne visio-newtoniana del mondo ci consente di affrontare i vari fenomeni con principî astratti e ripetibili.

Arnheim e altri gestaltisti credono in un mondo monistico, i cui differenti livelli di realtà, come la coscienza, emergono da una base materiale. L’anello di congiunzione tra i vari livelli è la similarità. Data l’unità e l’identità dei processi trans-fenomenici, l’unica possibilità di un legame fra il mondo fisico e l’esperienza consiste nell’assumere che fra i due vi sia similarità. Nella terminologia della teoria della Gestalt questa similarità è chiamata isomorfismo, una identità non geometrica o metrica ma topologica e strutturale. Questo potente concetto rende abbastanza semplice per un gestaltista spiegare i rapporti fra il cervello e l’esperienza quotidiana e, infine nel caso di Arnheim, fra il cervello e l’esperienza artistica.

È ovvio che il cervello non può che funzionare secondo principî conformi alle leggi basilari della fisica, ma pochi hanno preso sul serio questo vincolo, preferendo lasciare tra i due uno iato profondo e in-conciliabile. Secondo i gestaltisti l’uomo fa parte del mondo fisico, e di conseguenza la natura, la densità e la tessitura di ciò che si trova all’in-terno dell’uomo sono le stesse di ciò che costituisce l’esperienza, e viceversa. Le spiegazioni fornite dalla fisica newtoniana e dall’elettro-magnetismo si basano sul concetto di campo di attrazione, sia

gravita-zionale che elettromagnetico. In effetti, quando si esamina empirica-mente un evento mentale, come le illusioni percettive, ottico-geometri-che o di movimento, si osservano fenomeni di campo. Quindi, ci si può aspettare che in un’ipotetica descrizione del funzionamento del cervello si possano supporre processi di campo in azione, e non per nulla Köhler, nei suoi studi neurofisiologici, cercava soprattutto que-sta sorta di attività nel cervello.

Quando in un campo c’è attrazione fra gli elementi si creano sem-pre delle forze. Queste forze tendono a ridursi al minimo, a trovare uno stato di quiete semplice e stabile. Se c’è un ostacolo, o il processo rimane in movimento o il flusso delle forze rappresenta la tendenza verso la soluzione desiderata. Si può immaginare che nel cervello que-sta soluzione consique-sta di minimi ipotetici e anche che questi minimi determinino l’ordine percettivo perché ne costituiscono la soluzione naturale. Se il funzionamento del cervello determina in un certo modo l’esperienza, allora si potrebbe dire che i nodi minimi diventano la componente prägnant dell’esperienza.

La Prägnanz è stata introdotta nella teoria della Gestalt sia per con-seguire questo promettente legame naturalistico con i processi fisici, sia anche per spiegare la qualità e la pienezza di significato dell’espe-rienza. Quando l’organismo opera secondo la Prägnanz, si crea un or-dine all’interno dell’esperienza. Si registra l’ambiente e ci si muove in esso senza problemi a causa del senso di ordine e di stabilità. Ci si rende conto di un problema solo quando c’è disordine o mancanza di armonia fra gli elementi. Nel dominio proprio dell’arte, la Prägnanz dà la possibilità di manipolare vari elementi per dare significato al tutto. La pagina di carta, o la tela, ha la sua propria struttura e nodi di sta-bilità. Nell’opera gli elementi disegnati possono avere uno stabile ripo-so o, al contrario, accumulare tensione (Arnheim, 1988).

Per anni la spiegazione gestaltista della percezione secondo il mo-dello di un campo elettrico (Köhler, 1958; Köhler & Held, 1949; Köhler, Held & O’Connell, 1952; Köhler & O’Connell, 1957) fu con-siderata ridicola. Gli esperimenti di alcuni scienziati furono considerati decisivi e fatali per la teoria (Lashley, Chow & Semmes, 1951; Sperry, Miner & Myers, 1955). Sebbene le teorie di Köhler fossero basate su principî rigorosi e i suoi esperimenti fossero condotti secondo lo stan-dard scientifico corrente in America, nondimeno è ugualmente chiaro che l’establishment non era pronto a prendere sul serio la teoria del campo, teoria che rimaneva un po’ misteriosa e filosofica.

Non possiamo non ricordare che gli studiosi che normalmente non fanno riferimento alle scoperte delle scienze fisiche – come estetologi, critici e storici dell’arte – ritennero, a svantaggio di Arnheim, che tali dimostrazioni fossero decisive contro di lui! Pur senza contestare que-sti risultati, ovviamente il discorso non finisce qui. Abbiamo

ricono-sciuto, al contrario, che l’insuccesso di Köhler era, nondimeno, un im-portante tentativo di chiarire le basi fisiologiche e neurologiche della percezione, e, nel caso di Arnheim, le basi dell’esperienza estetica.

Dovremmo evitare quindi, come si dice in inglese, di buttar via il bambino con l’acqua sporca. Ciò è vero specialmente alla luce del rea-lismo critico nel cui spirito vanno assunti gli sforzi di Köhler. Si è trat-tato di un atteggiamento scientifico, d’accordo, ma non di riduzioni-smo come nel caso della Scuola di Vienna. Si tratta piuttosto di un atteggiamento che possiamo chiamare naturalismo, ovvero dell’idea che il mondo è una singola entità e che le cose che cerchiamo di spie-gare – per esempio l’esperienza, l’arte, ecc. – dovrebbero venir integra-te in una spiegazione unificata del mondo, anche se quest’ultimo è stratificato e ubbidisce a leggi emergenti.

Come ho già accennato la causa del naturalismo sta iniziando an-cora una volta ad avere una sua attrattiva e non ci si può stupire se le proposte di Köhler suscitino nuovamente interesse. Si è assunto come importante punto metodologico che abbiamo bisogno di un “ponte” fra il cervello e l’esperienza, mentre la filosofia ha cominciato a trattare seriamente questioni di psicologia, considerandole essenziali per risol-vere problemi concettuali (Scheerer, 1994). Questa nuova tendenza (parallelamente al successo della sperimentazione neurologica) è così diffusa che ora si deve attaccare il problema dal punto di vista oppo-sto e stare di nuovo all’erta contro il riduzionismo. La volontà di tro-vare il cosidetto “bridge locus”, il punto esatto in cui la funzione cere-brale diviene esperienza, rischia di far perdere la ricchezza delle pro-prietà globali che interessavano i gestaltisti e ora è necessario critica-re il cosiddetto isomorfismo analitico, cioè la ccritica-redenza che ci sia «una rappresentazione neurale isomorfa a ciascun contenuto percettivo» (Pessoa, Thompson & Noë, 1998).

In questo nuovo clima possiamo assumere la prospettiva di Arn-heim e riconsiderare il suo modello di percezione basato sul campo. Ci sono almeno due modi di procedere: (1) discutendo i meccanismi e i processi già noti nella scienza contemporanea; (2) esplorando costrutti ipotetici coerenti con i primi.

Per quanto riguarda i meccanismi noti adesso sappiamo che le cel-lule neurali non funzionano in modo meccanicistico e individuale ma, invece, come «neuroni percettivi» (Baumgartner, 1990). Cioè l’attivi-tà di gruppi di neuroni non è spiegabile come fosse la somma del fun-zionamento di ciascun neurone individualmente considerato, ma come un campo d’azione. Questo processo si colloca a livello di reti di cellule invece che dell’intera corteccia come pensava Köhler, ma un gestaltista può essere soddisfatto per l’azione di questi complessi, in un certo modo ben oltre le parti separate.

postulare un funzionamento unitario del cervello, ma, nello specifico, in maniera differente da Köhler. Come ha già proposto Arnheim in

Entro-pia e Arte, il principio del modello globale di Köhler deve essere

este-so al di là del modello elettromagnetico, mantenendo tuttavia un orien-tamento verso i campi e la globalità. Un anno dopo il libro di Arnheim, Erich Goldmeier, anch’egli allievo di Wertheimer, pubblicò la versione inglese di uno studio – a quanto pare ignoto ad Arnheim – sulla simi-larità visiva (Goldmeier, 1972). In un capitolo nuovo cominciò a rifonda-re la teoria köhleriana usando le teorie più rifonda-recenti dei sistemi complessi emergenti dalla fisica, in particolare la descrizione del risultato di pro-cessi fisici relativi ai pozzi di energia potenziale. In seguito, nel suo libro del 1982, The Memory Trace: Its Transformations and Its Fate, Gold-meier prese a spiegare la Prägnanz come “singolarità” e continuò a usare la teoria dei sistemi complessi. Secondo Goldmeier ora la Prägnanz non sarebbe altro che una qualità stabile e originaria. Oggi l’esempio fortu-nato di Goldmeier è stato seguito e sono numerose le teorie che tentano di spiegare la genesi di percetti globali, di tipo gestaltico, attraverso il funzionamento del cervello secondo la teoria del caos, la teoria delle catastrofi e la sinergetica (per esempio, Kruse, Luccio & Stadler, 1993).

Singolarità

Prima delle possibilità aperte da Goldmeier si guardava con sospet-to al concetsospet-to di Prägnanz come modello gestaltico di isomorfismo. Come ben dimostra Luccio in questo volume, il concetto ha sempre sofferto di mancanza di chiarezza, fin da quando Wertheimer l’ha in-trodotto e promosso a legge, la cosiddetta legge della Prägnanz. In qualunque modo lo si definisca è la chiave del sistema di Arnheim perché alimenta la speranza di spiegare in modo rigoroso la costituzio-ne delle forme privilegiate, che sono il vero e proprio materiale del-l’estetica.

È interessante che nel suo libro Arte e percezione visiva (1954) Arnheim abbia deciso di non usare mai la parola Prägnanz. D’accor-do con Wertheimer che la “legge della Prägnanz” consiste nella «ten-denza verso la struttura più chiara», ha precisato che la confusione è dovuta al fatto che la si assimila a un’altra tendenza, cioè alla «tenden-za gestaltica verso la forma più semplice». Data l’esisten«tenden-za di queste due tendenze si può comprendere come Arnheim non potesse vedere altro che conflitto tra le due. Nello specifico, è evidente che ha usato il paradigma delle ricerche di Friedrich Wulf (1922) sulla memoria, in cui quest’ultimo dimostrava l’esistenza non solo della tendenza a sem-plificare i percetti ricordati dopo tempo (livellamento) ma anche la tendenza a esagerarne le caratteristiche (accentuazione).

L’idea di tenere separate semplicità e Prägnanz è stata costante nel pensiero di Arnheim. L’unica cosa a essere mutata è la terminologia. Nel suo libro Entropia e arte (1971) ha sostenuto che i processi dina-mici, seguendo le leggi della termodinamica che ha cercato di spiegare a un pubblico artistico, si sviluppano in una sola direzione, verso il basso, verso la morte termica. Sono processi questi che Arnheim chia-ma “catabolici”, e che contrappone a forze costruttive denominate pro-cessi “anabolici”. Nel caso della percezione visiva, per esempio, la cor-teccia applica forze cataboliche nei confronti delle forze anaboliche ge-nerate dagli stimoli esogeni in arrivo, creando un compromesso. Resta da spiegare come la Prägnanz, essendo il prodotto di un insieme di for-ze, non possa essere la stessa cosa della semplicità, forza solo catabo-lica. Riprendendo di nuovo il punto di Wulf che nella percezione e nella memoria si possono riscontrare esempi sia della semplicità (livel-lamento), sia del suo opposto (accentuazione), Arnheim spiega che en-trambe contribuiscono a un risultato prägnant, e precisa di non inten-dere questa soluzione come «la più semplice» (ridotta, abbreviata), ma al contrario come «la più chiara».

Qui si nota un po’ l’effetto della socializzazione accademica. Ad Harvard negli anni in cui ha scritto Entropia e Arte, Arnheim frequen-tava i percettologi Dorothea Jameson e Leo Hurvich (Jameson & Hur-vich, 1975). Hans Wallach, il collega gestaltista assieme al quale si era laureato a Berlino, aveva criticato la loro interpretazione della perce-zione del colore, secondo la quale la sensaperce-zione del colore sarebbe solo il risultato di processi opponenti a livello retinico. Wallach (1963) ha sostenuto che la percezione del colore è più cognitiva perché non si percepisce il colore in sé, ma proporzioni di luminanza in base al-l’informazione che arriva all’occhio. Arnheim, al contrario, rimase mol-to colpimol-to dalla teoria di Jameson e Hurvich, tanmol-to da rendere pubbli-co il proprio pubbli-consenso (Arnheim, 1975). Si possono fare solo pubbli- conget-ture, ma forse il fatto che Jameson e Hurvich lavorassero con un reale modello del cervello basato su principî dinamici, sebbene veramente elementare e inadeguato ai fatti, faceva ben sperare per la posizione gestaltista di Arnheim nel periodo dell’assoluto rigetto della ricerca di Köhler. Come che sia, interpretò i loro concetti di “contrasto” e “as-similazione” nei termini degli stessi processi catabolici e anabolici che, come precisava, derivano da Ewald Hering, a cui gli stessi Jameson e Hurvich si erano ispirati! (Arnheim, 1975).

Erano queste le idee alla base della risposta di Arnheim alla provo-cazione di Gaetano Kanizsa e Riccardo Luccio nel loro articolo, Die

Doppeldeutigkeiten der Prägnanz (Kanizsa & Luccio, 1986). Secondo

loro, il concetto di Prägnanz presente nei testi classici della teoria non distingue a sufficienza fra il risultato fenomenico, vale a dire la qualità ottimale (bontà, chiarezza, ecc.), e il processo da cui dipende la

per-cezione, ovvero la sua legalità. Si vede che Arnheim ha cercato di di-stinguere fra queste due ma solo all’interno di una sola categoria alla volta, ossia il risultato o il processo, perché cercava di distinguere la semplicità dalla chiarezza. Tuttavia, mentre queste venivano distinte o nel processo o nel risultato, gli ambiti del processo e del risultato non sono mai stati opportunamente distinti.

Lo psicologo tedesco Alf Zimmer (1991) ha contribuito al dibattito notando che un processo ipotetico si modella con punti di potenziale in un paesaggio. Esso, nello stesso tempo, ne ordina la forma (proces-so o legalità) e, quando il punto è in quiete, ne descrive uno stato qua-litativo. Tale modello è compatibile con la posizione di Arnheim. Tut-tavia, prendendo le mosse da una teoria dei sistemi dinamici molto simile a quella di Goldmeier, Zimmer ci aiuta a rispondere alle

Nel documento Rudolf ArnheimArte e percezione visiva (pagine 50-62)